Matrimonio civile e benedizione degli anelli. Una lettera reale e una risposta possibile


fedi nuziali

 

Ricevo questa lettera, che pone una questione importante. La riproduco con alcuni omissis per ragioni di riservatezza. E poi provo a rispondere, secondo scienza e coscienza.

 

Salve, riprendendo da un suo scritto (Andrea Grillo, Tempo graziato. La liturgia come festa, Messaggero, Padova 2018, pp. 104-106 ) circa la benedizione delle fedi, le chiediamo un parere. Con il parroco (dopo una formazione diocesana sulle coppie ferite) in parrocchia seguiamo in particolare una coppia (lei nubile, lui divorziato perché la moglie lo ha tradito con l’attuale compagno). Tra poco si sposeranno civilmente, hanno chiesto la benedizione degli anelli. Il parroco dopo il dovuto discernimento, dove ha valutato la possibilità di un eventuale annullamento ha palesato il dubbio sulla possibilità. Ci è sembrato chiarificatore il suo scritto: non un sacramento, ma atto liturgico . Da parte dei parroci c’è condivisione sulla sua interpretazione, ma c’è preoccupazione per la confusione che si potrebbe creare e dunque evitano con intento pedagogico. Ci illumini per scardinare questo timore, eventualmente con altri rimandi bibliografici. Cordiali saluti

 

Mi sembra che qui ci troviamo di fronte a un caso classico di contrasto tra il bene civile e il bene ecclesiale. Per ragionare con serenità su questo punto, e aiutare ad assumere la decisione più saggia e più giusta, mi sembra che si debba considerare un elemento della questione che normalmente sfugge alla considerazione pastorale. E non è un caso che chi scrive abbia trovato qualche aiuto in un libro dedicato al “tempo”. Perché la variabile temporale deve essere assunta in modo nuovo dalla Chiesa, senza fissarsi in modo ostinato sui “tempi giuridici”, che, come è noto, possono essere sterminati. Mi spiego meglio. E’ evidente che il discernimento dei pastori deve riguardare la situazione concreta. E, come si è soliti fare, si inizia dal considerare la “solidità” del vincolo, e quindi la possibilità di procedere ad una causa per chiedere il riconoscimento della sua nullità. Salvo i rari casi di “processo breve” – che non sembrano riguardare la fattispecie considerata – si tratta comunque di procedimenti lunghi e con una imprevedibilità di tempi che confligge profondamente con le scelte esistenziali dei soggetti. Questo vale sia per il caso in cui si giudichi che sussista qualche motivo di nullità, sia per il caso in cui si constati la inesistenza di un fondato motivo. Anche in questo caso il pastore non ha esaurito le proprie possibilità di discernimento. Perché si apre, proprio in tal caso, lo spazio di una valutazione che, senza intaccare la validità del vincolo preesistente, riconosca le circostanze soggettive particolari e rilevi una effettiva esperienza di fallimento del vincolo. Questo, evidentemente, non può essere il caso soltanto per situazioni acquisite – ossia per coppie che già si trovino nella condizione di aver contratto vincolo civile, e che possano essere riammesse alla comunione ecclesiale. Ciò vale anche per chi si trova in una condizione di “passaggio” e abbia optato per dare alla nuova unione l’unica forma giuridica possibile, ossia quella civile. In alcuni casi, come sembra essere quello qui descritto, il pastore può giudicare che la unione matrimoniale di diritto civile è “il bene possibile” per la nuova coppia. In tal caso, e solo in questo caso, non vi sarebbe grande difficoltà ad ammettere che, se si tratta di un “bene”, tale bene possa essere “benedetto” anche ecclesialmente, nonostante il fatto che non si tratta del sacramento del matrimonio, ma soltanto del matrimonio civile. Non è impossibile, infatti, che la Chiesa, in determinate circostanze, possa riconoscere che il matrimonio civile, quando è l’unica via possibile, rappresenti di per sé un bene per la coppia.

Per uscire da questo dissidio, a me pare, occorre valorizzare la chiara affermazione con cui Amoris Laetitia supera il principio ottocentesco per cui, in materia matrimoniale, la forma oggettiva legale tende ad identificare il bene del soggetto e così pure la volontà di Dio. In quella mentalità, della quale spesso risentiamo ancor oggi, del tutto in buona fede, porre un qualsiasi gesto di “assenso” al matrimonio civile – da parte di un ministro della Chiesa – appare come motivo di scandalo e di disorientamento per il popolo di Dio. A ciò si deve aggiungere un altro fattore, che incide con forza sulle nostre reazioni. Ed è la perdita del “senso della misura”: una coppia che chiede la “benedizione degli anelli”, se lo fa con senso del limite, con modestia e con pacatezza, non chiede un “sacramento clandestino”, non vuole “farla franca”, non vuole “aggirare la legge”, ma desidera veder riconosciuto e partecipato quel bene – quel poco o tanto di bene – che si accinge a vivere. A benedire gli anelli non è chiamato il “pubblico ufficiale ecclesiastico”, ma quel presbitero che resta sempre, oltre che sacerdote e re, anche un profeta. Ci vuole un profeta per riconoscere il bene, lì dove si presenta, anche quando non ha tutti profili “regolari” e i timbri di garanzia. Lì dove un uomo e una donna, con alle spalle una storia complessa, giungono alla decisione di sposarsi civilmente, questo è un evento che, a determinate condizioni, la Chiesa può riconoscere, con il quale può gioire e del quale può rallegrarsi. Nel momento in cui sia chiaro che il sacramento del matrimonio e la benedizione degli anelli sono due “forme liturgiche” diverse, nessun parroco può essere costretto alla benedizione, ma nessun parroco deve sentirsi impedito ad ammetterla, nel momento in cui si sia convinto che il bene in gioco è superiore a quella parte di fragilità e di male che ha segnato la storia di uno dei due sposi o anche di entrambi.

Il principio dello scandalo non è detto che stia solo nella disinvolta “benedizione” di ogni realtà, ma forse ancor più si rivela nella nostra incapacità di dar voce, parola e forma a quelle piccole o grandi “porzioni di bene” che riscattano e rilanciano le esistenze di donne e uomini. Nuovi inizi sono reali. Che la Chiesa non li subordini semplicemente ad un astruso regime giuridico, ma li incontri direttamente e schiettamente, come realtà inaggirabili, non è un limite dei nostri tempi. Rispettare i tempi della vita degli uomini e delle donne spesso implica accettare che la Chiesa parli anzitutto con i linguaggi semplici del lodare, del rendere grazie e del benedire. La Chiesa sa che può parlare il linguaggio eucaristico quando vive nel cuore della sua intimità con il Signore. Ma può parlare tutte le lingue della benedizione, della lode e della grazia, quando incontra i soggetti che si collocano non al centro, ma lungo il cammino, o anche ai margini o alla periferia. La benedizione è un classico linguaggio della periferia ecclesiale. La Chiesa non solo può, ma deve utilizzarlo proprio per riconoscere che, anche in assenza del bene massimo, un piccolo bene possibile, quando è riconosciuto con benevolenza, può aprire varchi e riconciliare corpi. Così potrebbero fare i non rari profeti di vita futura, incompresi dai non pochi profeti di certa sventura.

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