Matrimonio complesso e nuovo rito italiano del 2004: contributo al Sinodo


E’ uscito sul numero 26/2014 di “Settimana” questa riflessione sul Nuovo Rito del Matrimonio in rapporto al prossimo Sinodo dei Vescovi.









Il Matrimonio “complesso” e  la salvezza dell’altro. L’edizione italiana del 2004 come contributo al dibattito del prossimo Sinodo

1. Premesse

E’ bene cominciare considerando un piccolo assunto teorico che si rivela di una importanza davvero decisiva per cogliere il senso più profondo del sacramento della coppia. E’ il Catechismo della Chiesa Cattolica a suggerircelo, quando con brevità incisiva afferma al n. 1534 che i due sacramenti del servizio (cioè l’ordine e il matrimonio) “sono ordinati alla salvezza altrui”.
Questa idea, non nuova alla tradizione teologica e catechistica, sembra essere in grado di assumere oggi un ruolo di grande rilievo – e persino di sostanziale priorità – a patto che venga compresa secondo una prospettiva di “primo annuncio simbolico-rituale della fede”, piuttosto che nella sua (pur possibile) rilettura semplicemente giuridico-morale .  Il fatto che il matrimonio sia “ordinato alla salvezza altrui” costituisce in effetti la attestazione di una rilettura cristiana della storia, che si apre alla logica pasquale e che sa testimoniarla nella quotidianità della vita a due (e poi a tre, a quattro…), persino nei suoi dettagli più nascosti e apparentemente secondari.
Questa particolare ermeneutica del “matrimonio” come “forma potentissima di desiderio, di quotidiana pratica efficace e di eloquente  testimonianza della salvezza dell’altro” mi pare una bella prospettiva con cui sintetizzare in un sol punto ben cinque dimensioni delle nuove possibilità celebrative e teologiche offerte dal nuovo Rito del matrimonio alla vita cristiana della Chiesa italiana. Tale ermeneutica permette di leggere, in positivo, secondo una “teologia serena”, il contesto nel quale la Chiesa si accinge ad affrontare alcuni snodi delicati della “patologia matrimoniale”. Ciò comporta, evidentemente, una serena chiarificazione anzitutto della “fisiologia matrimoniale”.

2. Il diritto del desiderio, il dovere della natura e il dono della grazia 

Lo statuto del matrimonio – persino nella cultura post-moderna della “trasformazione della intimità”  – nonostante tutto mantiene profeticamente la caratteristica di essere nello stesso tempo ultimo e primo dei sacramenti. Luogo primario di evangelizzazione e di annuncio, per la forza antropologica di officium naturale che esso conserva, talvolta anche ad una certa distanza dalla sua potenza di segno cristologico ed ecclesiale. Esso evoca comunque – scritto a fondo nella carne stessa della coppia – un “primato della alterità” che non è solo “più esterno della mia esteriorità”, ma anche intimior intimo meo, “più intimo della mia interiorità” (Agostino).
Il dono che l’altro è per me e che io sono per l’altro  si fa carne e sangue nella quotidianità sponsale della coppia-famiglia, che così può aprirsi al nuovo, al figlio come allo straniero, al vicino come al passante. Potremmo dire, ancor più, che il matrimonio sacramentale ha in sé una potenza quasi ineguagliabile all’interno dell’intera esperienza ecclesiale, nel far trasparire una particolare peculiarità di tutti i sacramenti, ossia di essere “luoghi originari” e fontali della Chiesa e non semplicemente luoghi di esercizio o di amministrazione da parte di una Chiesa già esistente .
In effetti, la Chiesa nasce proprio da questo sorprendente consenso tra disegno/desiderio di Dio e desiderio/disegno dell’uomo, che si manifesta nel lavacro di una nuova nascita, nel profumo di una nuova identità compiuta, riconosciuta e riconoscibile, nel pasto comune che associa tutti nell’offerta di sé al Padre e poi anche nel patto di reciproco amore fedele e di comunione feconda tra maschio e femmina.
La fedeltà dell’amore, la santità del legame e la fecondità del rapporto, scrutati da questa prospettiva, appaiono donati al “sì” della coppia da un “sì” che la precede e che la istituisce, che la istruisce e che la promuove, che la consola e che si “dice” anzitutto nella solennità indimenticabile di un simbolo rituale.  Ed è il loro “sì” consensuale a consentire , quasi in seconda battuta, al grande sì con cui Dio, in prima istanza, manifesta fedelmente, indissolubilmente ed in modo felicemente fecondo il suo amore gratuito per l’uomo maschio e femmina.  

3. Il contesto  ecclesiale del matrimonio come  sacramento

Su questa base, come appare evidente, l’ambiente in cui si celebra il sacramento non può più essere espresso con indicazioni semplicemente “occasionali” – “nel corso della messa” o “senza la messa”, come ancora diceva la stessa Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, con terminologia ancora troppo timida rispetto al nuovo contenuto – ma piuttosto è sempre un ambiente simbolicamente e ritualmente qualificato a dover essere evocato: le nuove espressioni del rituale (“nella celebrazione della parola” o “nella celebrazione eucaristica”) indicano esplicitamente, celebrativamente ed ecclesialmente, un contesto di ascolto, di preghiera, di lode, di rendimento di grazie, entro cui la celebrazione del matrimonio trova la “sua” parola.
E’ per gli sposi una “alterità cristico-ecclesiale” che li precede, che li ospita e che li accoglie, quasi a conformazione e in solidarietà rispetto al loro percorso che comincia e che si svilupperà in profondo dialogo con tale interlocutore. Anzi, è una alterità nella quale potranno riconoscersi riconosciuti soltanto nella relazione che la coppia e la famiglia scriverà – d’ora in poi – nel loro cuore e sul loro volto, nella loro interiorità e nella loro esteriorità. Aver un altro (e poi altri ancora, nella conseguente generazione materna/paterna) cui strutturalmente corrispondere, da attendere e da prevenire, da ascoltare e cui parlare, costituisce l’orizzonte teologico della esperienza matrimoniale-familiare e in pari tempo l’orizzonte antropologico di una approfondita esperienza ecclesiale. E’ la cifra di questa “complessità” a costituire il primato del VII sacramento.

4. La ricchezza e la vivacità della esperienza ecclesiale

Per questo, allora, le parole più sacre del consenso sono ora articolate in una forma più ampia e libera, raccordate ad una più ricca gamma di solenni ascolti biblici e collegate più intimamente alle altre parole sante della benedizione (anch’esse ripensate e ampliate di molto). Il consenso – sotto questa angolatura – non può non essere sorretto, ispirato, orientato e guidato dalla “grazia di Cristo”. Tale inedita esplicitazione, che introduce nella formula “asettica” in uso fino al 2004 una limpida nota cristiana, raccorda già il consenso alla benedizione, la libertà umana alla grazia divina: si potrebbe quasi dire che essa sintetizza e intona armonicamente ministerialità familiare e ministerialità ecclesiale. Dice la complessità del sacramento.
Le novità, da questo punto di vista, appaiono sostanziali molto prima che formali:
– il verbo della formula del consenso, che passa da “prendere” ad “accogliere”, sposta in primo piano l’aspetto di “dono” del sacramento, pur non attenuando affatto l’aspetto di “compito”;
– la formula “dialogata” del consenso, con la quale ogni coniuge pone all’altro la domanda iniziale, porta poi entrambi a formulare la solenne promessa insieme e ad una sola voce, con una sorta di espressione “duale” della volontà e del reciproco riconoscimento, che costituisce una espressione singolarmente efficace della ministerialità familiare ed ecclesiale dei coniugi.

5. Una ministerialità non univoca, ma articolata

D’altra parte, al di là della formula del consenso in senso stretto, la logica del rapporto consenso/benedizione e la soggettività “laicale” del matrimonio vanno di pari passo e anche qui, dietro piccole novità, che potrebbero anche passare inosservate, possiamo scoprire l’aprirsi di ampie prospettive teologiche e pastorali tutt’altro che trascurabili .
In verità nessuno ignora che consenso e benedizione indicano non soltanto due centri del sacramento (di cui la tradizione occidentale e quella orientale si sono quasi spartite la valorizzazione), ma anche due diverse visioni della ministerialità propria di questo sacramento. Tale raccordo dice anche il superamento di una visione ecclesiale antitetica, che può finalmente sperimentare la verità della comunione laicale solo in relazione ad una ministerialità ecclesiale non derivata, ma che sa riconoscere la verità della gerarchia soltanto nel servizio testimoniale ad una possibile e reale comunione di laici battezzati.
Almeno in questo caso, è del tutto necessario parlare qui – e non se ne può proprio fare a meno, se non si vuole rischiare un abuso – di “assemblea celebrante”, in cui presidenza e ministerialità sacramentale, debitamente distinte, contribuiscono organicamente all’unica celebrazione.

6. Iniziazione cristiana e “forma” celebrativa

Infine, bisogna notare con un certo rilievo la articolazione pastorale delle “forme”, che mira anche linguisticamente a parlare in modo differenziato da un lato a cristiani “iniziati” e dall’altro a cristiani “in via di (rinnovata) iniziazione”. Se è vero quanto abbiamo detto fin qui, allora è chiaro che la diversificazione tra due grandi “forme celebrative” (nella celebrazione della eucaristia e nella celebrazione della parola) costituisce anche la adeguazione dell’atto celebrativo alle concrete condizioni di iniziazione cristiana e di inserimento ecclesiale della coppia degli sposi.
Essa ha la funzione di rimediare ai due eccessi, che spesso attraversano la pastorale – nonostante tutti i pur lodevoli corsi di preparazione – tra una sorta di “universale diritto acquisito a sposarsi in Chiesa”, garantito da una Chiesa intesa spesso come “agenzia di grazie” da una parte, mentre dall’altra parte vi sarebbe una sorta di selettivo concorso a numero chiuso, per il quale il matrimonio sacramentale potrebbe essere soltanto il frutto di una dura formazione specifica, affine (se non più ardua) di quella riservata ai candidati al diaconato-presbiterato. Questo trionfo parallelo di una pericolosa indifferenza (con ammissione indiscriminata) o di una selettiva differenza (con sbarramento duro), può trovare nella via seguita dal nuovo Rito del Matrimonio e nella sua saggia articolazione tra diverse forme celebrative una delicata e attenta possibilità di mediazione pastorale.
Purché tale risorsa non venga subito dilapidata con una gestione assurda (ma possibile!) della differenziazione e della articolazione in termini di penalizzazione e/o di emarginazione di alcuni soggetti ecclesiali a scapito di altri, piuttosto che di promozione e di accoglienza di ogni storia di fede nelle forme ad essa più accessibili, più adeguate e più umanamente vivibili.

7. Famiglia e Chiesa: una relazione reciproca

Dobbiamo aggiungere, tuttavia, un’altra considerazione: il fatto che il matrimonio sia ordinato “alla salvezza altrui” non significa però soltanto una particolare forma di “abnegazione” che la chiesa avrebbe sacramentalizzato e che essa pretenderebbe poi di applicare e di esigere dai cristiani.
E’ piuttosto il prendere corpo concreto, testimoniale, storico e visibile del “mistero grande” come rapporto tra Cristo e Chiesa: è l’esperienza che la Chiesa fa di sé, ad assumere qui una particolare eloquenza ed efficacia di segno. Il sacramento è, in tal senso, evento che riconosce come esistente una presenza di grazia, la quale si manifesta e si realizza come accoglienza qui e ora della rinascita dell’uomo nella sua relazione “duale” a Dio.
Questo è un modo assai forte e potente di assumere – da parte del battezzato – la identità di alter Christus in un contesto inatteso, e di viverne la logica sorprendente, che già il battesimo e l’eucaristia avevano solennemente inaugurato. Infatti, come già battesimo, cresima e eucaristia inaugurano per ognuno una esperienza di comunione – mentre penitenza e unzione per tutti recuperano e guariscono tale comunione quando sia stata perduta – così il matrimonio, muovendo da un contesto potente sul piano naturale come quello del sentimento-desiderio-generazione, scopre il “prendere” come accogliere e il convivere come dono. Eppure, con questa sua harmonia discors nei confronti dell’officium naturale, il matrimonio sacramento ha davvero una potenza ricostruttiva della identità in relazione e della esistenza vissuta nel grazie all’altro, per il dono di sé, che è capace di supportare e sopportare il vangelo nella quotidianità delle opere e dei giorni, tra le piccole cose di ottimo gusto di cui essa è costellata.
Ma proprio per questo il matrimonio non è soltanto un documento, né soltanto un monumento, ma è anzitutto un testamento. In effetti, il matrimonio non è solo informazione, né solo ammonimento, ma è testimonianza di vita per l’altro, non per sé. E’ un “non vivere più per se stessi”, come ripete tante volte S. Paolo. Ecco la potenza di annuncio che il matrimonio pone in luce con una forza e una eloquenza che lo hanno portato ad essere giudicato “il primo” tra tutti gli altri sacramenti. Nel matrimonio il vangelo di Cristo, il Dio per l’Altro, viene annunciato non solo per concetti o per precetti, ma – se è lecito esprimersi così liberamente – per contatti e per confetti; non anzitutto mediante idee e visioni, ma mediante vite e cose, tempi e spazi di comunione, ritmi e stili pazienti nell’attesa, lontani dalla pretesa, lenti alla contesa e rapidi nella resa.

8. Le risorse pastorali del nuovo Rito del Matrimonio e il prossimo Sinodo dei Vescovi

Ho cercato di portare alla luce una serie di elementi di sfondo, senza la cui incidenza non potremmo comprendere appieno tutto il significato e il grande ruolo che il matrimonio svolge per la edificazione della Chiesa di Cristo.
La occasione della traduzione e dell’adattamento del nuovo Rito del Matrimonio ha offerto alla Chiesa italiana la opportunità di una rilettura complessiva dell’intera struttura rituale del sacramento, riconsiderando anche l’impatto ecclesiale e culturale che tale celebrazione determina sulla coscienza cristiana dei battezzati.
Così ne è scaturita una serie di attenzioni testuali che possono tradursi in preziose risorse pastorali. Una analisi puntuale di tali novità – che esula da questa breve riflessione – permetterebbe di cogliere in pienezza le nuove possibilità che la celebrazione – nella sua sintesi simbolica e rituale – può offrire al lavoro pastorale delle chiese, strutturando una complessiva teologia del matrimonio, che faccia memoria della sapienza con cui la Chiesa non ha mai dimenticato la struttura “naturale” e “istituzionale” di quel matrimonio, che legge come sacramento, ma le cui logiche pescano profondamente nelle logiche naturali e sociale dell’’uomo e della donna, la cui realtà non può essere facilmente addomesticata.
Anche il prossimo Sinodo non dovrà dimenticare di dover fare una “teologia serena” a proposito del matrimonio, ossia una teologia capace di non cedere a quel massimalismo ontologico-giudico, che spesso è solo frutto di memoria corta e di esperienza limitata. E che rischia di affronta anche ogni “patologia” sulla base di una esperienza troppo limitata e troppo unilaterale della fisiologia matrimoniale.

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