Matrimonio senza cresima e battesimo senza consenso? Il rapporto tra discepolato e istituzione in una crisi di crescita
Una giusta discussione viene alimentata da due notizie, provenienti da ambiti molto diversi, ma che attingono al “sapere sacramentale cattolico” e lo mettono alla prova. Presento le due questioni e provo a fare alcune riflessioni in proposito.
a) La prima notizia è quella di un “fatto storico” (rimesso in auge da un film appena girato dal regista M Bellocchio): ossia la vicenda della famiglia Mortara e del giovane Edgardo, che nel 1858 viene sottratto alla famiglia (di fede ebraica ma residente nello Stato Pontificio) per essere educato alla fede cattolica, essendo stato battezzato da infante, nel primo anno di vita, in segreto, da parte di una domestica, per pericolo di morte. La relazione tra potestà genitoriale e battesimo, con la possibilità ecclesiale di contraddire la intenzione della famiglia di origine in caso di pericolo, offre un livello di riflessione molto interessante ed urgente anche oggi.
b) La seconda notizia è la decisione che l’Arcivescovo di Palermo ha assunto con un Decreto di non anticipare “normativamente” la cresima al matrimonio, ma piuttosto di poter spostare la cresima ad un momento successivo alla celebrazione sponsale, quando lo richieda il cammino di fede della coppia che domanda la celebrazione del sacramento e in particolare la condizione di “conviventi” o di “sposati civilmente”.
Si tratta di due casi evidentemente molto diversi, ma nei quali si intreccia, in modo netto, una logica “civile” e una logica “ecclesiale”, il cui coordinamento non è deciso una volta per sempre da una linearità immutabile della dottrina e della disciplina, ma chiede accurato discernimento dei tempi, dei modi e delle persone. La Chiesa, che porta nella sua esperienza una lunga tradizione, e che in essa ha dovuto confrontarsi con “regimi civili e istituzionali” assai diversi, deve sentirsi chiamata a precisare, calibrare e discernere ogni cosa con la dovuta lucidità.
1. Chi è il soggetto del matrimonio cristiano?
La tradizione sa bene che il matrimonio era già lì prima del cristianesimo, ma potremmo dire era già lì prima della fede di Israele, e siamo autorizzati a dire che c’era già prima ancora che Adamo ed Eva entrassero in conflitto con Dio. Coloro che si sposano sono uomini e donne. E la Chiesa ha saputo rileggere la storia del matrimonio sotto la luce della Alleanza tra Dio e il suo popolo, tra Cristo e la sua Chiesa, sapendo però che la alleanza tra marito e moglie è in un certo senso più antica della Prima e della Nuova alleanza! Così è inevitabile che le logiche della vita di coppia e le logiche del discepolato cristiano non siano mai perfettamente in asse. C’è una sfasatura che è originaria e che non si può forzare se non facendo gravi danni. Per questo la storia ha riflettuto con finezza su tre dimensioni del matrimonio che non si lasciano del tutto unificare: il matrimonio naturale, il matrimonio civile e il matrimonio sacramentale non sono la stessa cosa. In ognuno di questi livelli gli uomini e le donne si giocano la vita, con un livello di esplicitazione diverso, ma con esperienze molto simili e spesso del tutto identiche. Fino al 1563 non esisteva alcuna possibilità di pensare (o di realizzare) quella unificazione nella Chiesa cattolica di ogni competenza sul matrimonio. Da allora l’idea di una “competenza generale” su tutti gli aspetti del matrimonio in capo alla Chiesa ha portato a non poche esagerazioni. Tra cui la indistinzione tra “matrimonio tra battezzati” e “matrimonio sacramentale”. La identificazione tra queste due posizioni ha creato una sorta di “blocco”, nel quale siamo tutti costretti a ragionare. E’ la nostra dottrina che, almeno a partire dalla metà del XIX secolo, equiparando il matrimonio tra battezzati a sacramento, ha reso possibile celebrare il matrimonio anche a chi è senza cresima, magari rimediando alla mancanza “in extremis”, ma secondo una logica non stringente. Il matrimonio è stato pensato “senza discepolato”: di questa soluzione istituzionale paghiamo oggi un prezzo assai caro. Per questo oggi può essere imbarazzante pensare ad una soluzione normativa diversa da quella che ci suona “normale”. Tuttavia è giusto riconoscere che se il rituale del matrimonio ha elaborato una differenza nei “percorsi di fede”, ipotizzando un rito nella liturgia eucaristica e un rito nella liturgia della parola, e se in parallelo anche il Rito della Confermazione considera la ipotesi di posticipare la Cresima al Matrimonio, forse questa scelta ha reso possibile anche la evoluzione che sa differenziare adeguatamente le logiche esistenziali e le logiche di discepolato. I riti di passaggio esistenziale e le forme del discepolato cristiano non si lasciano facilmente equiparare né temporalmente né spazialmente né affettivamente. E non credo che nel provvedimento della Chiesa di Palermo la preoccupazione della “condizione di peccato” (attribuita avventatamente ai conviventi o agli sposati civilmente) possa essere considerata la ragione del provvedimento, come risulta dal testo (che si può leggere qui).
2. Quale rilevanza ha la “fede dei genitori”?
La tradizione sa altrettanto bene che il battesimo, essendo il sacramento che sta sul margine esterno della Chiesa (per questo è detto “porta”), merita un trattamento molto attento, soprattutto se si mette in campo la possibilità di procedere al rito battesimale sotto le due condizioni eccezionali (e che tali rimangono) della infanzia e della malattia grave. Una dottrina classica sa bene che esiste la possibilità sia di battezzare i neonati, sia di battezzare chi si trova in pericolo di morte. In entrambi i casi, tuttavia, il battesimo non può essere un atto puramente passivo. Deve esserci almeno la dichiarazione di “volere il battesimo”, o di un atto di fede “in persona pueri”, compiuto o da parte dei genitori del bambino o da parte del soggetto stesso prima della malattia grave. Unire nello stesso tempo il pedobattesimo, la causa di necessità e la mancanza di consenso dei genitori costituisce, senza ombra di dubbio, un atto illecito: non può essere secondo la giustizia di Dio se non riesce ad essere secondo la giustizia degli uomini. La “salvezza dell’anima” non può accadere istituzionalmente contro la volontà del soggetto o della famiglia nella quale è nato. Questo può essere giustificato solo se si resta legati ad una “societas inaequalis” in cui la libertà di coscienza non viene riconosciuta come base sostanziale dei rapporti sociali e religiosi. Purtroppo dobbiamo riconoscere che a livello normativo la Chiesa cattolica conserva tracce evidenti e molto imbarazzanti di una cultura della “societas perfecta” che non è più compatibile con la dignità degli uomini e delle donne. Finché avremo nel Codice di Diritto Canonico la norma così come formulata al can 868, per quanto recentemente modificata da papa Francesco. Si legga in particolare il §.2:
“Can. 868 – §1. Per battezzare lecitamente un bambino si esige:
1) che i genitori o almeno uno di essi o chi tiene legittimamente il loro posto, vi consentano;
2)che vi sia la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica fermo restando il §3; se tale speranza manca del tutto, il battesimo venga differito, secondo le disposizioni del diritto particolare, dandone ragione ai genitori.
§2. Il bambino di genitori cattolici e persino di non cattolici, in pericolo di morte è battezzato lecitamente anche contro la volontà dei genitori.
§3.Il bambino di cristiani non cattolici è lecitamente battezzato, se i genitori o almeno uno di essi o colui che tiene legittimamente il loro posto lo chiedono e se agli stessi sia impossibile, fisicamente o moralmente, accedere al proprio ministro.”
Ne emerge una certa attenzione alle differenze confessionali, ma è fuori di dubbio che un punto cieco sulla libertà di coscienza traspaia con una chiarezza imbarazzante. Il §.2 è il relitto di un mondo che non dovrebbe più prendere parola in questa forma rozza, tanto più in un testo istituzionale e normativo per tutta la Chiesa cattolica, che può giustificare i peggiori abusi. Ci sono commentari al Codice che si limitano ad osservare: “il diritto alla salvezza prevale sulla potestà dei genitori sui figli”. Si tratta di parole prive del minimo discernimento e di sufficiente cultura teologica, ridotta qui a irresponsabile positivismo giuridico. S. Tommaso d’Aquino sapeva bene che è “contro la giustizia naturale” imporre il battesimo contro la volontà (S. Th, III, 68, 10, corpus).
3. La rilettura normativa della pastorale e i sacramenti “periferici”
Una competenza giuridica sul battesimo e sul matrimonio, che la Chiesa si riconosce da lunga data, deve mantenere il senso delle proporzioni e onorare la condizione “periferica” dei due sacramenti. In effetti tanto il battesimo quanto il matrimonio abitano la “periferia” della Chiesa e costringono la Chiesa a stare sempre anche “fuori di sé”: stanno infatti sulla soglia tra la vita comune e il discepolato cristiano. Questo lo sapevano gli antichi e i medievali tanto quanto noi, e forse anche meglio di noi. Ma lo hanno espresso secondo le culture che, di volta in volta, erano a disposizione. Le tracce di queste culture del passato segnano la dottrina giuridica e teologica in modo differenziato. Non è detto che il diritto sia necessariamente più arretrato della teologia o che la teologia non sia talora più lenta a recepire i cambiamenti che le normative possono più facilmente introdurre. Quello che è certo è che un solo comma di un canone, come avviene al 868 §2, può precipitare la Chiesa in una cultura della intolleranza e del fondamentalismo. Così come può illuderla di poter “governare” la pastorale matrimoniale con un complesso sistema di “condizioni sacramentali” per accedere al matrimonio. Il formalismo giuridico non salva, mentre le forme di vita chiedono di essere interpretate non per salvaguardare la validità dell’atto, ma per dare gusto e luce alla esperienza di sequela e di discepolato alle persone. Superare gli automatismi sacramentali, garantiti da formalismi giuridici estrinseci, e restituire alla tradizione la sua forza più autentica resta il frutto di un complesso equilibrio tra riforme normative urgenti, traduzione coraggiosa dei linguaggi e riconoscimento attento di nuove forme di vita.
4. Una curiosa vicenda di “ministerialità femminile”
Poiché la vicenda del “caso Mortara” ruota attorno ad un pedobattesimo, compiuto di nascosto, all’insaputa dei genitori, da parte di una domestica, su un bambino in pericolo di morte, non si può non notare, vistosamente, la valorizzazione paradossale di una “competenza femminile”, che può essere esercitata soltanto nella condizione di “privatezza”, cosa che da molti secoli abilita anche la donna ad essere “ministro ecclesiale del sacramento”. Ma è proprio la “chiusura privata” della concezione della autorità ministeriale femminile a mostrare, limpidamente, il proprio limite: essa riesce in tal modo a fare ciò che istituzionalmente non si sarebbe potuto fare. Un atto “invisibile” e diremmo “clandestino” diventa il principio di effetti visibili, istituzionali, familiari e legali che discendono “a cascata” dall’atto privato femminile. E’ ovvio che questo sistema di equilibrio tra “salvezza dell’anima”, ministerialità ecclesiale differenziata e conseguenze giuridiche e familiari non controllabili oggi non regge più, se mai ha avuto una giustificazione. Ed è forse proprio la comprensione “privata” della ministerialità femminile una delle ragioni più evidenti di quel paradosso storico, che rivela una insufficiente calibratura del livello istituzionale e delle relazioni private e familiari: Dio agisce nel segreto, non la domestica o il monsignore. Qui un intero mondo è cambiato e deve essere ripensato, con categorie evangeliche e teologiche nuove, per elaborare le quali è utile anche rileggere i testi medievali, molto più liberi e limpidi di alcune diatribe ottocentesche. Anche il modo di intendere il battesimo, il dono di grazia, la condizione di validità e di liceità dei comportamenti ecclesiali chiede alla teologia una nuova responsabilità concettuale e linguistica, con l’utilizzo di categorie meno compromesse con quel modo di pensare la relazione tra privato e pubblico che non è più sostenibile senza vergogna e senza scandalo. E’ doveroso continuare a non vergognarsi del vangelo, guai se non fosse così, ma senza mai cadere nella indifferenza apologetica verso modi espressivi e stili di comportamento così violenti. O saremo ancora a lungo condannati a confondere la grande tradizione ecclesiale con le peggiori forme espressive dell’ancien régime?
Professore, sarei curioso di sapere un Suo parere: in occasione dell’imminente festa del Corpus Domini quali sono, secondo Lei, le cose da evitare (dal punto di vista pratico, logistico, di paramenti, arredi, cerimonie…)? Vorrei sentire la Sua opinione da liturgista.
caro Luca, io direi così: rileggere la Bolla che istituisce la festa e reimparare che la festa è festa anzitutto di comunione, di comunione di popolo. Le singole tradizioni sono tutte rispettabili. Purché si ricordi questa centralità. Una curiosità: in Italia il CD è a inizio estate. Ma in Brasile è a inizio inverno. Perciò è interessante che da noi si usino i fiori, ma in Brasile si usano i vestiti con cui prima si addobbano le strade e poi si vestono i poveri!