Memoria del futuro


Tutti i Santi – 1 novembre
Ap 7,2-4.9-14; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12

Introduzione
Se leggiamo insieme il brano della prima lettura tratto dall’Apocalisse (Ap7,2-4.9-14) e il testo delle beatitudini secondo il Vangelo di Matteo (Mt 5,1-12); se, seguendo la pedagogia della liturgia, accostiamo il brano del Vangelo attraverso la prospettiva che ci viene indicata dalla prima lettura, quasi si trattasse di una lente necessaria per decifrare e interpretare il brano evangelico, possiamo scoprire quel tratto, quella parola nuova e viva che può risuonare nel nostro oggi, mentre celebriamo la solennità di Tutti i Santi nella quale la Chiesa fa memoria del suo futuro. I brano tratto dalla seconda lettura (1Gv 3,1-3) ci invita a contemplare tutto come rivolto a noi, personalmente. L’autore con stupore ed emozione afferma che «fin d’ora» siamo figli e figlie di Dio, ma chiamati ad essere «simili a lui (Dio), perché lo vedremo così come egli è».

Commento
Indossando allora le lenti che ci offre il Libro dell’Apocalisse e andando a leggere il brano delle beatitudini, potremmo trovare almeno un abbozzo di risposta ad una domanda che tante volte l’uomo e la donna si sono posti e si pongono continuamente: quanti sono gli uomini felici? e – andando ancor più alla radice del problema – l’uomo può essere felice?
Forse per l’uomo la risposta più immediata sarebbe quella di affermare con rassegnazione che in realtà gli uomini felici sono sempre stati e sono anche oggi una piccola minoranza; anzi, a volte arriviamo a chiederci se possa esistere anche un solo uomo veramente felice. Nella Scrittura possiamo pensare all’esperienza di Giobbe che arriva a maledire il giorno della sua nascita; oppure alla protesta del Libro dei Salmi che vede gli ingiusti nella prosperità e la moltitudine dei giusti nella prova e nella derisione.
Ma la risposta delle pagine delle Scritture della liturgia di oggi sembra andare in una direzione totalmente opposta: gli uomini felici – si dice – sono «una moltitudine immensa» (Ap 7,9), una moltitudine che nessuno può contare e che proviene da ogni nazione, parla ogni lingua appartiene ad ogni razza, ad ogni popolo. Questa moltitudine innumerevole canta come solo l’uomo felice può cantare. Questi uomini e donne cantano perché si trovano nella loro patria: solo in patria si può cantare, come cantare infatti i canti del Signore in terra straniera? – dice il salmo (Sal 136,4).
Ci può sembrare una visione utopista e irrealizzabile: come immaginare che uomini e donne di ogni lingua e nazione siano nella felicità e cantino, quando vediamo interi popoli vagare in terra straniera; intere nazioni devastate dalla violenza e dalla fame; uomini e donne perseguitati, emarginati, abbandonati apparentemente da tutti? Eppure, la liturgia di oggi ci dice che gli uomini felici, quando alla fine li potremo contare, saranno una moltitudine immensa.
Per tentare di risolvere questa apparente contraddittorietà tra la nostra visione delle cose e la lettura di fede che ne danno le lettura di oggi, passiamo a leggere con più attenzione il brano del Vangelo. Se nel testo dell’Apocalisse – tra le tante cose possibili – abbiamo sottolineato il numero che viene indicato, nel brano di Matteo, che tante volte abbiamo ascoltato e meditato, vediamo chi sono concretamente quelle persone che formano la moltitudine immensa di beati che nessuno può contare.
Ad una prima lettura, potremmo rimanere certamente ancor più sconcertati. Se ci sembra infatti irrealistico il numero immenso di cui ci parla l’Apocalisse, ancor più sbalorditivo per noi è il fatto che coloro che formano tale moltitudine siano i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati e assetati di giustizia, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, i perseguitati. Certo, questi sono sì una moltitudine immensa sotto gli occhi di tutti e in tutti i tempi, una moltitudine di uomini e di donne di ogni lingua popolo e nazione. Tuttavia, dove sta il segreto della loro beatitudine, della loro felicità capace di sconvolgere e trasfigurare il nostro sguardo pessimista e disarmato circa la felicità dell’uomo e della donna?
Questo segreto lo possiamo scoprire nel verbo, che in ogni beatitudine parla della realizzazione della felicità; nell’annuncio fatto a coloro che sono detti beati: di essi è il regno dei cieli; saranno consolati; erediteranno la terra; saranno saziati; troveranno misericordia; vedranno Dio; saranno chiamati figli di Dio; di essi è il regno dei cieli.
In ogni caso si tratta di una azione che non sta nelle mani dell’uomo, ma nelle mani di Dio, un dono che l’uomo da lui gratuitamente riceve. L’unica disposizione che accomuna poveri, afflitti, miti… e che li rende capaci di beatitudine e felicità è costituita dal fatto di trovarsi nella condizione di accoglienza: la capacità di lasciarsi amare gratuitamente da Dio. Allora il segreto della felicità, lo scioglimento del nodo che non ci permetteva di vedere la nostra storia con occhi differenti, si gioca da parte di Dio nella grazia, da parte degli uomini nella capacità di accogliere un dono, la capacità di lasciarci amare.
L’annuncio che le Scritture ci propongono nella festa di Tutti i Santi non è più così incomprensibile e distante dalla realtà, perché veramente gli uomini capaci di lasciarsi amare sulla nostra terra sono stati e possono essere una moltitudine immensa: è una possibilità che non può essere negata a nessuno! Il segreto della felicità per noi sta nel farci trovare in questa moltitudine capace non solo di amare, ma di lasciarsi amare. Sapere che la nostra patria è in quella moltitudine e che i nostri piedi sono già là, in patria: «noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2). Allora anche noi potremo cantare le meraviglie del nostro Dio perché non più esuli in terra straniera, ma in patria!
Spesso noi abbiamo letto la vita dei santi solo a partire dalla loro capacità di amare, dalle loro opere di carità, dal loro spirito di servizio e di donazione, ma scopriremmo probabilmente cose altrettanto interessanti se la leggessimo sotto una prospettiva differente: la loro capacità di lasciarsi amare e di lasciarsi amare gratuitamente. Questo non è solo indice di santità dal punto di vista religioso, ma è anche componente essenziale di una vita umana realizzata pienamente e matura, di quella felicità vera che non è utopistico dire che appartenga ad una moltitudine immensa! Una felicità che nulla e nessuno ci può rubare, nulla e nessuno ci può negare!

Conclusione
Nel corso dell’anno liturgico nei vari tempi, feste e solennità, noi facciamo normalmente memoria di un evento del passato perché diventi nel nostro oggi fonte di vita e di grazia; a volte – come nel caso del tempo di Avvento – celebriamo un evento anche futuro – la parousia – per viverlo anticipatamente, per “pregustarlo”, e trasfigurare la nostra esistenza ad immagine di ciò che desideriamo; nella solennità di Titti i santi, noi teniamo insieme le due prospettive: facciamo memoria del futuro, celebriamo una memoria ricordando tanti che ci hanno preceduto, pregustiamo il futuro proiettandoci nel numero di quegli uomini e quelle donne realmente felici al quale crediamo già di appartenere.
Ma celebrando questa memoria del futuro, noi abbiamo già un punto di sintesi al quale guardare, un punto nel quale il passato di chi ci ha preceduto e il futuro che attendiamo e speriamo ci si presenta in unità: è lo splendore della santità e della felicità, l’amore e la capacità di essere accogliente nei confronti dell’amore donato.

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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