Miseria o humilitas? Due parole e due Padri della Chiesa a confronto (di Zeno Carra)


Un esame attento dei testi della eucologia permette di identificare, con sicurezza, alcune interpretazioni forzate che guidano la traduzione dei testi latini. In questo contributo Zeno Carra, che ringrazio, propone un esame della colletta della III domenica di Quaresima (anno C), in cui una certa libertà di traduzione del latino non giova alla qualità del testo e introduce elementi di polarizzazione che il latino non prevede. Una intera tradizione dell'”autodisprezzo” viene evocata, senza fondamento nel testo originale. Se “humilitas” diventa “miseria” e “conscientia” diventa “colpa” un diverso immaginario scatta nella assemblea, con conseguenze sul modo di intendere la quaresima, la penitenza e la meta pasquale. Dietro si profila il magistero di due grandi Padri, di Ireneo e di Agostino, con le loro differenze preziose…(a.g.)

Miseria o humilitas?

Sulla colletta della III domenica di Quaresima nel Messale Romano

di ZENO CARRA

O Dio, fonte di misericordia e di ogni bene,
che hai proposto a rimedio dei peccati
il digiuno, la preghiera e le opere di carità fraterna,
accogli la confessione della nostra miseria
perché, oppressi dal peso della colpa,
siamo sempre sollevati dalla tua misericordia.

Deus, ómnium misericordiárum et totíus bonitátis auctor,
qui peccatórum remédia in ieiúniis,
oratiónibus et elemósynis demonstrásti,
hanc humilitátis nostræ confessiónem propítius intuére,
ut, qui inclinámur consciéntia nostra,
tua semper misericórdia sublevémur.

Nella messa di questa domenica, III di quaresima, pregando l’orazione colletta, sono incespicato nel tono della sua formulazione, lì dove si chiede al Padre di “accogliere la confessione della nostra miseria”.

Miseria”: un termine inconsueto nella nostra eucologia1, che quindi non passa inosservato. Proseguendo la preghiera, arrivati all’ultima frase, se ne capisce la ratio: “siamo sempre sollevati dalla tua misericordia”. Un piacevole gioco linguistico, antitetico e chiaroscurale, tra miseria umana e misericordia divina, mutuato dall’abilità retorica di Sant’Agostino quando commenta la scena dell’adultera perdonata: gli accusatori se ne vanno lasciando Gesù e la donna soli (Gv. 8,10): “relicti sunt duo, misera et misericordia” (In Iohannem 33,5)2.

Il termine miseria, in italiano, ha un senso fortemente negativo. Dice di una condizione di deplorevole mancanza di mezzi, fortemente compromessa economicamente e socialmente, che richiede risoluzione. In senso traslato, applicata nell’ambito della vita “dell’anima”, dice della situazione umana in quanto compromessa dal peccato e dalle sue conseguenze. Il quadro che quindi la colletta in lingua italiana disegna è quello dell’uomo caduto e della redenzione divina che viene in suo soccorso. Un quadro a due poli antitetici: peccato e redenzione; nero e bianco. Un quadro che – non a caso – corrisponde alla sensibilità spirituale dell’autore da cui il gioco retorico è tratto: Agostino di Ippona, che nel suo conflitto con il pelagianesimo portò alla luce e accentuò quella dimensione sottesa al suo pensiero per cui l’uomo è ormai intrinsecamente connotato dalla colpa di Adamo, le sue opere sono irrimediabilmente corrotte, e il destino che merita è la dannazione eterna. Tinte fosche nel dipingere l’umano sulle quali si staglia la luce serena e chiara della misericordia divina che salva in modo del tutto gratuito alcuni eletti dal mare nero della massa dannata3. Un quadro strutturalmente duale, forse dovuto al bipolarismo platonico che funge da infrastruttura filosofica al suo pensiero, forse eredità latente del dualismo ontologico manicheo che il giovane Agostino ha attraversato, che impone di concepire la realtà in coppie di contrari, dove la salvezza ha il suo correlato nel peccato.

Un quadro che, complice anche la fortuna della teologia di Agostino nell’occidente latino, ha impregnato tanta spiritualità fino ai giorni nostri4, e cui la traduzione italiana del messale romano5 dà spazio in questa colletta quaresimale valorizzando il gioco retorico tra miseria e misericordia.

Un gioco retorico che, però, non ha il corrispettivo nel testo latino della stessa colletta, laddove non vi è traccia di miseria umana, ma si legge humilitas nostra.

Che rispetto alla miseria è una cosa ben diversa.

Se prendiamo humilitas nella sua radice etimologica (humus: terra) collocata dentro il campo semantico dato dalla Scrittura, per cui la terra è il materiale da cui il Creatore plasma la sua opera principale, l’essere umano (Gen 2,7), certo non ne viene un concetto assiologicamente paragonabile a “miseria”. Humilitas dice dell’uomo una povertà radicale positiva perché benedetta da Dio come luogo di elargizione dei suoi doni. Humilitas infatti traduce nella Vulgata – e quindi nella liturgia occidentale – la tapeinosis, la piccolezza che Maria confessa di se stessa lodandone Dio come sede del suo sguardo d’amore e delle sue magnificenze (Lc 1,48-49).

L’humilitas che la colletta latina ci fa confessare è quindi anzitutto la piccolezza umana ontologicamente voluta da Dio come spazio della storia di salvezza da Lui desiderata per noi a prescindere dal nostro peccato.

Interprete di questo sguardo antropologico è un altro Padre della Chiesa, Ireneo di Lione, che, parafrasando un’icona biblica (Is 29,16; 45,9; Sir 33,13; etc.), paragona l’essere umano ad un vaso di argilla che il divino Artista sta modellando con le Sue mani per farne un’opera d’arte. Creato inizialmente piccolo, poca cosa, l’essere umano fatto di humus, di terra, può lasciarsi fare dall’Artista contemplando riconoscente ciò che nella storia Quello va facendo di lui. Oppure può cambiare sguardo, disprezzare la propria humilitas creaturale, e chiudersi nell’ingratitudine sottraendosi così al tocco plasmatore dell’Artista.

L’humilitas è quindi ontologicamente una nota buona, costitutiva dell’umano, sulla quale vuole insistere in direzione escatologica la storia della salvezza, storia di modellazione dell’opera d’arte. Può divenire invece ciò che non è se pensata, guardata, percepita in modo avulso dall’azione di Dio. E farsi “miseria” ove acconsente a tale sguardo e si sottrae all’azione divina (Cf Ireneo, adv. haer. 4,38-39).

Mi pare sia piuttosto questo orizzonte quello che la colletta latina vuole disegnare: la confessione della nostra humilitas non è tout court ammissione di miseria, anzi. È confessione grata della condizione ontologica creaturale su cui insistono i magnalia Dei. E come può non esserlo visto il luogo in cui essa accade, la celebrazione eucaristica, il cui tono fondante è appunto il ringraziamento, la riconoscenza? Diviene in seconda battuta – e solo in seconda battuta – confessione di peccato laddove la nostra libertà (“qui inclinamur conscientia nostra”), cedendo alle seduzioni dell’antico Tentatore, ne ha fatto invece motivo di auto-disprezzo e di irriconoscenza nei confronti di Dio. Il tono penitenziale che il contesto quaresimale esige, cioè, non oscura l’orizzonte principale su cui esso stesso si comprende: il peccato non è la nota ontologica che ci connota intrinsecamente (“miseria”), ma l’ingrata dimenticanza della bontà ontologica della nostra humilitas.

Certo la teologia di Agostino della miseria umana non ne aveva affatto l’intenzione, ma forse il suo esito involontario è stato quello di portare molta spiritualità occidentale ad incorrere proprio in ciò che la più antica teologia di Ireneo denunziava come peccaminoso: l’auto-disprezzo dell’umano come disprezzo della creatura fatta da Dio. Una spiritualità che non sa pensare la condizione umana se non nella chiave del peccato, pur con tutti i raffinati distinguo che i teologi possano fare, finisce per rendere gli esseri umani incapaci di cantare il Magnificat. E finisce per fare il gioco dell’antico avversario che agli occhi delle creature da sempre dipinge un volto sfigurato di Dio per nasconderne lo sguardo vero: un Dio che non è anzitutto sdegno e disgusto, ma che come Creatore e Padre vede nelle sue creature il bene che esse sono e che desidera che questo Suo sguardo esse facciano proprio su se stesse.

Forse una traduzione di questa colletta più attenta alla semantica teologica dell’originale latino, aiuterebbe a non rendere la liturgia complice di modi di pensare che le sono estranei.

1 Cf M. Sodi – A. Toniolo, Concordantia ed indices Missalis Romani, Città del Vaticano 2002, 1023: il termine latino “miseria” è assente. Ricorre solo due volte l’aggettivo “miser” in testi devozionali collaterali come le formule di praeparatio ad missam / gratiarum actio post missam (ibid., 191-192).

2 Si noti che Agostino lì usa l’aggettivo; la traduzione italiana della colletta appesantisce l’antitesi contrapponendo due sostantivi.

3 Si leggano scritti come la lettera 194 a Sisto romano, o il De praedestinatione sanctorum.

4 Talora in contesto di accusa dei propri peccati si usano formule stereotipate del tipo “cosa vuole Padre, siamo uomini”, che inducono una certa equivalenza tra umanità e condizione di peccato. O – più rare – frasi apparentemente molto devote come “confesso poi tutti i peccati che non ricordo e anche quelli che non conosco: in fondo ogni respiro è un peccato”, per cui anche se non si ha coscienza di peccato (necessaria per la dottrina classica perché esso sussista!) qualche peccato ci deve essere se si è esseri viventi! Si aggiungano poi le formule come “piuttosto la morte che offender Gesù” di qualche vecchio atto di contrizione, echeggiato anche nell’agiografia di san Domenico Savio: “la morte ma non i peccati”, per cui la vita come tertium datum tra morte e peccato tende a scomparire.

5 Già nella precedente edizione del 1983.

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