Movimento, istituzione e Vaticano II. La fede e il legittimo progresso della tradizione


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In un dibattito che si è aperto sull’Osservatore Romano, una serie di interventi hanno messo a fuoco la questione della “perdita di presenze” (di adulti e di giovani) nella vita della Chiesa. Ovviamente la crisi pandemica ha a sua volta accentuato un fenomeno che era già presente in modo più o meno forte in molte parti della chiesa universale.  Aperta da un riflessione di Pier Giorgio Gawronski, la discussione ha trovato il 15 maggio scorso una ripresa da parte di Massimo Borghesi, che ha scritto su Le chiese vuote e l’alibi della secolarizzazione.  L’analisi che propone presenta una serie di considerazioni importanti.  La crisi ha radici lontane e trova in un difetto culturale – nell’antimodernismo – la sua ragione fondamentale: una dottrina ridotta a “passività verso il dogma” e a “riduzione dell’etica ad etica sessuale” sono un freno pericoloso. La reazione a questa condizione di blocco, secondo Borghesi, determinò una polarizzazione, tra tradizionalisti e progressisti, che non servì ad uscire dalla crisi, ma la approfondì. La risposta a questa condizione per Borghesi avvenne solo – e potrà avvenire anche domani – solo dall’apporto di “movimenti” che riaprono il tema centrale dell'”incontro” con il Signore, che non è né una dottrina, né una morale, ma una “esperienza” e un “sentimento”.

Mi pare che si possano considerare  le evoluzioni di questi ultimi 70 anni con ulteriori prospettive. Non vi è dubbio che una ripresa di credibilità e di affidabilità della Chiesa cattolica dipenda essenzialmente dal possibile rinnovarsi dell’atto di fede nel Signore Gesù. Questo resta il centro inaggirabile di ogni questione. Le fughe all’indietro e le fughe in avanti non sono mai risolutive. Né una identificazione dell’atto di fede con le strutture dell’ancien régime, né la pretesa che solo la democrazia politica possa garantire lo spazio della fede sono rimedi plausibili. Le forme dei “regimi” – antico o nuovo – non sono garanzia delle fede, sebbene abbiano relazioni non irrilevanti con essa. Ma proprio sul piano teologico una indagine sugli sviluppi dell’ultimo secolo sono in grado di mostrare la delicatezza e la decisività delle “mediazioni” della esperienza e del sentimento nell’incontro con Cristo. Il recupero di questi “rimossi” esperienziali e affettivi, che è davvero importante, deve essere accuratamente mediato. Provo a farne qui un piccolo quadro.

Cristo e la Chiesa: una relazione complessa

Il soggetto che crede, crede nel Signore Gesù e nell’incontro con lui sviluppa la sua vita cristiana, le sue priorità e le sue consolazioni. Ma la caratteristica “moderna” di questa relazione, sul piano teologico, è la scoperta della presenza di delicate mediazioni necessarie a questo incontro decisivo. La “neoscolastica”, che Borghesi identifica giustamente come una delle cause della nostra crisi, ha provato ad essere una risposta che l’800 ha dato alla crisi di allora (ed è sempre utile ricordare che i “tempi difficili” per la Chiesa non cominiciano né col Vaticano II, né con il XX secolo, ma con il XIX secolo!). Ora proprio la Neoscolastica ha contribuito a trasformare il  trattato teologico e ha condotto, sia pure a modo suo, ad arricchire le “mediazioni” tra il cristiano e Cristo. Se nella Summa Theologiae dopo la Cristologia iniziano subito i sacramenti e poi novissimi, i manuali a partire dal XIX secolo introducono sempre nuove “mediazioni” che si collocano tra Cristo e i sacramenti: la ecclesiologia, il diritto, la liturgia strutturano la esperienza e il sentimento di relazione a Cristo! Questo può diventare un ostacolo insormontabile, e così è stato a lungo, ma può anche essere la occasione propizia. Vediamo perché.

Le mediazione da rielaborare e le riforme da attuare

Proprio questi tre livelli di mediazione (ecclesiale, giuridico e liturgico) con il Concilio Vaticano II hanno trovato un passaggio decisivo, che inaugura un paradigma nuovo. Qui, come è evidente, non si tratta di entrare nella polarizzazione tra “tradizionalisti” e “progressisti”, ma di assumere di nuovo, grazie al Concilio, il “legittimi progresso” come modalità ordinaria della tradizione. La apertura inaugurata dal Concilio permette di riscoprire che l’accesso alla “persona di Gesù”, e l’incontro con lui – che è “Lumen Gentium”, che è “Dei Verbum”, che è “Auctor Sacramentorum” – dipendono da nuove forme della mediazione ecclesiale, giuridica e liturgica. Le riforme ecclesiali, giuridiche e liturgiche sono condizioni necessarie, anche se non sufficienti, per una ripresa di slancio della forza vitale della fede. Una Chiesa che pensasse di sostituire le necessarie riforme strutturali con esperienze e sentimenti immediati resterebbe vittima di una illusione: ci sono condizioni istituzionali del rapporo personale con Cristo, che non ne esauriscono mai le possibilità, ma che ne favoriscono l’orientamento strutturale, il respiro e la comunicazione.

Le strutture dell’esperienza: gioie e dolori

Potremmo dire che la polarizzazione tra tradizionalismo e progressisimo discende da una opposta valutazione di questo sviluppo: da un lato il tradizionalismo ritiene che l’atto di fede sia possibile solo nell’Ancien Regime. Che sia il “mondo di prima” una condizione necessaria della fede. In qualche modo fa delle strutture una condizione assoluta della fede. Per questo diventa facilmente una forma di fondamentalismo pericoloso. Il progressismo, da parte sua, capovolge il modello e tende a chiedere alla fede un “sistema dei diritti e dei doveri”, che la renda possibile e accettabile. E’ certo, tuttavia, che la via per riaprire la relazione di ogni soggetto con Cristo passa attraverso un adeguato ripensamento e ristrutturazione di questi tre “punti-chiave” della riforma: la chiesa, la sua liturgia e la sua struttura giuridica. Ciò che oggi è più evidente di quanto non fosse 50 o 10 anni fa è che una “irruzione giuridico-sanitaria” come quella imposta dalla pandemia ci ha mostrato bene come le “condizioni oggettive” possano profondamente incidere sulle forme della fede cristiana. Capire che i diritti del corpo, personale ed ecclesiale, non si lasciano tradurre facilmente nel registro del sentimento ci fa comprendere ancora meglio quanto siano decisivi percorsi di ripensamento e aggiornamento istituzionale.

Le riforme al servizio dell’esperienza

Nel testo che ha inaugurato questo dibattito, Gawronski a lungo si sofferma sulla “centralità eucaristica” e sul suo “isolamento” rispetto alla vita. Non è un caso che il Concilio abbia voluto iniziare il suo ufficio della tradizione proprio da lì: da un profondo ripensamento delle “forme rituali” che implica, inevitabilmente, una ridelineazione della forma ecclesiale e della forma giuridica. Il sistema si è poi inceppato, perché ha fatto subito le riforme liturgiche, ma non ha fatto quasi per nulla le riforme ecclesiali e giuridiche. Una liturgia nuova in una struttura ecclesiale pensata e amministrata in modo vecchio resta isolata e viene facilmente emarginata. Tutti questi, sia chiaro, sono solo strumenti per rinnovare il rapporto con Cristo, di cui vive la fede. Ma senza un sollecito atto di aggiornamento di tutti e tre questi livelli – liturgico, ecclesiale e giuridico – la secolarizzazione non sarà solo un alibi esterno, ma anche un prodotto interno della Chiesa. La Chiesa si secolarizza non solo “cedendo allo spirito dei tempi”, ma interrompendo il processo di ripensamento che il Concilio Vaticano II aveva iniziato, che la riforma liturgica ha sviluppato e che il papato di Francesco ha significativamente rilanciato. Come diceva in conclusione Gawronski, occorre che tra i cristiani si torni ad “esplorare, riflettere e parlare”, per dar figura adeguata alle condizioni formali di un atto di fede che può ritrovare la profondità della esperienza e della emozione solo se le condizioni ecclesiali, liturgiche e giuridiche non lo ostacolano strutturamente. E’ l’indole pastorale del Concilio ad averci fatto persuasi che “la sostanza della antica dottrina del depositum fidei” – che custodisce la possibilità dell’incontro diretto con il Signore – prevede che la “formulazione del suo rivestimento” possa e debba cambiare. I mutamenti ecclesiali, liturgici e giuridici sono preziose occasioni per rinnovare l’esperienza, il sentimento e l’emozione. Da esse non dobbiamo aspettarci né tutto né troppo, ma solo il giusto: ossia che possano essere condizioni strutturali – necessarie ma non sufficienti – dell’atto di fede. A questo scopo un cammino sinodale è il primo movimento di cui abbiamo veramente bisogno.

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