Da più parti oggi ci si richiama all’umanesimo: leader politici e religiosi, ma anche intellettuali e accademici di varia provenienza e di differenti sensibilità lamentano una perdita dei valori dell’umanesimo e ritengono necessario e urgente un ritorno a essi. Nella retorica di questi discorsi vi sono spesso in gioco niente meno che i destini – presenti e futuri – dell’umanità: senza umanesimo non ci sarebbe avvenire.
Al contempo, la categoria di umanesimo solleva inevitabilmente più di qualche fastidio. Essa suona come qualcosa di già sentito, di già sperimentato, come un richiamo altisonante, ma vuoto: un cembalo che tintinna. L’umanesimo come intrattenimento salottiero e poco altro. O – peggio ancora – come emblema della hybris di un essere umano che fatica a elaborare il lutto della perdita dell’antropocentrismo.
Al netto di facili entusiasmi e altrettanto facili avversioni, che cosa ha ancora da dire l’umanesimo? Possiamo farne semplicemente a meno?