Nostalgia di comunità: presente! Quaresima e quarantena (di Mauro Festi)


bauman

La condizione di “isolamento” e di “privatezza”, a cui ci spinge il “presidio sanitario” che stiamo vivendo in questi giorni, porta inevitabilmente la riflessione su ciò che più acutamente viene a mancare: la vita comunitaria, civile ed ecclesiale. Anche un buon libro – come quello di Bauman – può suggerire pensieri nuovi e azioni inattese. Grazie a Mauro Festi per aver condiviso queste belle parole, che pubblico con grande riconoscenza. Le sento preziose, non solo per me. Ci aiutano a ricostruire il compito ecclesiale che è un dono anche qui ed ora, proprio in questa sorprendente e preoccupante condizione di separatezza e di silenzio. Fino ad arrivare ad una sorta di Quaresima “sub specie quadragenae”. (ag)

 

Nostalgia di comunità. Presente!

di Mauro Festi

Spolverando la libreria in sala l’altro giorno, l’attenzione si è fermata su “Voglia di comunità” di Z. Bauman. Ho iniziato a sfogliarlo, e mentre scorrevo le righe della prefazione, avevo l’impressione che mi si stesse aprendo davanti una porta di accesso alla nostra attuale realtà.

 Al cuore di questa nostalgia: assenza e possibilità

Bauman, custode dell’arte di interrogarsi più che elaborare risposte certe, riesce a chiamare per nome ciò che ci si muove dentro. “La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice, ma che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci”. “L’insicurezza attanaglia tutti noi”, ma mentre nelle società tradizionali era la comunità il luogo di garanzia di un livello almeno minimale di sicurezza collettiva e personale, nelle società aperte “ciascuno di noi consuma la propria ansia da solo, vivendola come un problema individuale”: “cerchiamo la salvezza individuale da problemi comuni”, in un processo che si autoalimenta, senza arrivare ad intaccare le radici del problema. La nostra ricerca di sicurezza converge verso la tutela dell’integrità del nostro corpo, con tutte le sue estensioni. E poiché non possiamo combattere una minaccia senza nome, la “battezziamo” con tutto ciò che ci è estraneo, anche le persone, in un processo che ci conduce a restare in superficie e ad operare e pensare semplificando. Tutto ciò plasma l’opinione pubblica, mentre pochissimi rilevano la qualità esistenziale di tale profonda insicurezza. Tuttavia, la nostra condizione, al tempo stesso di individuale separazione e di globale interconnessione, ci fa percepire che la tutela e la promozione del bene personale e comune non può essere che collettiva. Ed è qui che avvertiamo acutamente la sofferenza per l’assenza della comunità, ma anche che “la comunità ha l’occasione di smettere di essere assente”, se sceglie di intessersi di comune e reciproco interesse, cioè di comune responsabilità.

 Che cosa ci sta accadendo?

Leggere la nostra situazione reale con queste chiavi assomiglia all’atto di indossare occhiali futuristici, come degli smart glasses che influenzano il nostro sentire, non aggiungendo però qualcosa alla realtà (come la musica), ma aprendoci la percezione delle sue vibrazioni più profonde e più intime, che altrimenti ci sfuggirebbero, provocandoci ad interpretarle nelle loro connessioni vitali.

Nel nostro oggi l’insicurezza esistenziale, che ci accomuna tutti e tutti ci trova soli a combatterla, converge verso un nemico comune che si presenta a noi con un nome proprio – coronavirus – in una situazione in cui individuarlo e combatterlo non costituisce un problema morale, né interpella posizioni di partito. A differenza, ad esempio, della ricerca della sicurezza focalizzata attorno alla problematica delle migrazioni internazionali.

In questa situazione, siamo spontaneamente portati a convergere. E per questo può generarsi una risposta collettiva, nell’ordine della responsabilità e della solidarietà, creando le condizioni per il nostro riscoprirci comunità. Possiamo, cioè, percepire che la nostra insicurezza esistenziale non è in carico solo a se stessi, ma è collocata nella “stretta di mano” tra individui, che possono riscoprirsi persone, e comunità, con le sue istituzioni. Ognuno qui fa la sua parte, disponibile anche a portarne gli oneri impegnativi, alla ricerca di soluzioni adeguate e possibili. Così può accadere, stranamente, il risveglio di una diffusa fiducia e gratitudine verso le istituzioni e verso chi si pone in linea con gli orientamenti elaborati, probabilmente impensabile e improducibile fino a qualche settimana fa. E contemporaneamente la stigmatizzazione di chi si colloca su una posizione di irresponsabilità.

 La Chiesa, come sta accadendo?

Insicurezza esistenziale, integrità del corpo, comunità. Se estrapolassimo queste parole dal contesto sociale e ne parlassimo in contesto ecclesiale, le sentiremmo profondamente nostre: le legheremmo spontaneamente alla qualità salvifica della Buona notizia che è il Signore Gesù, ai nostri articoli di fede, alla nostra stessa identità. È la strana sensazione di trovarci come non accadeva da tempo a parlare la stessa lingua della gente, di una collettività più ampia di chi frequenta le nostre assemblee, e di cui – se non facciamo astrazioni – condividiamo la stessa carne esistenziale.

Ma questa sensazione di “linguistica esistenziale” in realtà non ci accomuna come Chiesa. Scegliamo infatti (forse, non tutti) la correttezza e la corresponsabilità con le autorità civili, ma a volte la percezione è che sia una scelta solo formale. Tradisce questa posizione l’utilizzo di un lessico spesso coattivo: “siamo impediti”, “siamo costretti”, esplicitando talvolta, anche a livello istituzionale, che lo facciamo “controvoglia”. Stiamo quindi, in un certo senso, subendo disposizioni di un altro che sta tirando le redini di una carovana da cui vorremmo poterci sottrarre, e, non potendo, sopportiamo o ci nascondiamo. La Chiesa non converge oggi sulla percezione della comune insicurezza esistenziale e dell’urgenza di tutelare l’integrità dei nostri corpi, e non riesce a fare comunità con la collettività nella forma di una comune responsabilità. Se non fosse così, cioè se non si fosse posizionata passivamente in questa vicenda (quando non in aperta opposizione), avrebbe avvertito l’urgenza di elaborare suoi decaloghi da diffondere, suoi modi di prossimità e di cura, perché le distanze non si facciano isolamento ma condizioni di possibilità della comunità. Chi è in isolamento, infatti, per ordine delle autorità civili, non è abbandonato a sé. I fedeli sembrano esserlo profondamente. Perché i pastori – in questo caso la responsabilità è anzitutto loro – non riescono ad aiutare le comunità (che non ci sono) a fare esperienza, dentro questa insicurezza esistenziale, di non essere soli, di essere (sensatamente) esposti alla custodia del Padre, che tutto può e opera per la vita dei suoi figli, il cui agire prende forma nell’agire da fratelli e sorelle. In un tempo di nostalgia di comunità, diamo risposte vecchie a domande nuove, continuando a ragionare da individui e come individui: seguite la messa celebrata da individui, come individui piazzati davanti alla tv, e pregate da individui, con tutte le devozioni di cui siete capaci. Forse questo è davvero il tempo per noi di riconoscere che istituzionalmente e pastoralmente siamo ancora in fuga mundi. Ma il non essere del mondo parte sempre dall’essere nel mondo. Questa strana situazione fa percepire ai fedeli di far più corpo con le autorità civili e sanitarie e con la gente di tutti i giorni, che con i fratelli e sorelle di fede.

 E come può diversamente accadere la Chiesa?

La Chiesa può accadere diversamente se prova ad abitare queste tre dimensioni – insicurezza esistenziale, integrità del corpo, nostalgia di comunità – riconoscendo che compiere questa profonda trasformazione è il kairos che ci presentano contemporaneamente la situazione vitale e la situazione quaresimale.

Se riscopriamo la quaresima come iniziazione alla Pasqua, ci accorgiamo di quanto la strada ci sia stata preparata da un Altro, attraverso la mediazione della sapiente Tradizione della Chiesa.

La quaresima è sospensione, perché è (ri-)iniziazione. Sospensione della vita così come è stata vissuta fino a quel momento, per i catecumeni, perché si possa dare inizio a una vita nuova. Sospensione della prassi cristiana ordinaria, per esporla a “guarigione”, a livello personale ed ecclesiale, ed essere reintegrati – riconciliati e perdonati – nell’ordinario. Perché possa darsi una reale iniziazione deve esserci una sospensione, un tempo e uno spazio intermedi in cui i processi iniziatici diano forma all’identità, ai legami sociali, e alle visioni della vita, a partire dalla Pasqua. Questo ha bisogno, dentro la sospensione, di figure autorevoli della comunità che accompagnino, compiendo precisi gesti e parole su/a/per/con coloro che devono essere (ri-)iniziati: tutti noi. Un tempo limitato di sospensione, ma da cui si ha la garanzia di uscirne nuovi.

La quaresima è anche un tempo di percezione corporea, emotiva, dentro gli atti che poniamo, della nostra fragilità, che ci riposiziona nel nostro reale, perché solo lì Dio può raggiungerci, anzi ci precede, ci accompagna, e ci conduce oltre.

La quaresima è garanzia dell’abitabilità della nostra fragilità solo nella forma della esposizione all’Altro/altro, pregando e amando.

La quaresima è cammino: certezza che fino alla fine siamo chiamati a rimettere in discussione la nostra sequela, non potendoci mai dire arrivati, ma sentendoci sempre bisognosi di liberazione, e sperimentando di essere efficacemente liberati (si parla di “sacramento quaresimale”, no?). Quindi: non si può perdersi d’animo in questo cammino!

La quaresima è la grazia di essere (ri-)iniziati alla Pasqua, perché la Pasqua costituirà sempre per noi un inaudito, da cui solo alla fine prenderemo definitivamente forma. Perché noi non sappiamo né vogliamo “maneggiare” la morte, ma così ci impediamo di scoprirla come squarciata dalla vita che la abita. Perché noi immaginiamo e vogliamo, invece, “maneggiare” la vita, mentre una banalità può strapparcela via. La quaresima è la grazia di essere (ri-)iniziati alla Pasqua, perché l’annuncio di poter abitare la vita e la morte come esperienze di senso e di libertà può avvenire solo nella forma del dono, e dunque di un tu che dona, venendoci incontro, strappandoci da questa esperienza di non senso, grazie al volto dei fratelli e delle sorelle, in cui possiamo riconoscere qualcosa di comune, che ci fa percepire comunità. La comune percezione (nel corpo, nelle emozioni, in ciò che compiamo) di essere tutti esposti alla presenza di un Altro che ci viene incontro per aprirci una porta altra sulla vita, dentro la vita. La sospensione, potrà allora essere grembo di sovrabbondanza di vita, come la Pasqua.

Lungi dal rappresentare un’utopia, tutto questo ha e può avere il sapore del digiuno, della carità e della preghiera, anche della preghiera liturgica. Se attivando logiche simboliche e corporali tentiamo vie per abitare e rielaborare la nostra insicurezza esistenziale e la nostra – sì, anche nostra – nostalgia di comunità.

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