Nuova teologia eucaristica (/13): “Hoc facite”: il modello classico di presenza eucaristica (Zeno Carra/2)
Come abbiamo visto nella prima parte della nostra recensione (qui), il bel volume di Zeno Carra presenta due modelli teorici e pratici di “presenza eucaristica”. Il primo è quello della “transustanziazione” ed è riferito alla tradizione tommasiana e tridentina; il secondo – che non è ancora pienamente definito e al quale il libro vuole dare un esplicito contributo – si articola intorno al Movimento Liturgico e alla Riforma liturgica, elaborandone teoricamente e praticamente le acquisizioni. In questa seconda parte della mia recensione vorrei mettere in luce i punti che qualificano il modello classico di “presenza eucaristica”. Va detto che l’autore dedica a queste descrizioni dei modelli una attenzione particolare, e in questo aspetto risiede forse il tratto più originale e più significativo della sua ricerca.
Il modello tommasiano-tridentino (capitolo I)
Questo modello di comprensione e di attuazione della presenza eucaristica è stato generato da cause molteplici: in particolare risente delle grandi dispute medievali e moderne, per rispondere alle quali prima Tommaso e poi il Concilio di Trento mettono a punto una ratio sacramenti che può essere sintetizzata in un sistema di relazioni, fatto di “punti di riferimento” e di “legami formali” tra di essi, che vengono definiti “assi”.
I punti di riferimento sono: “il fondamento cristologico, l’evento celebrativo o rito del sacramento, la chiesa che celebra il sacramento, l’uomo credente che sta nel fatto sacramentale” (112).
Ognuno di questi “punti” viene analizzato e talvolta duplicato: ad esempio la celebrazione viene distinta in due livelli, quello degli enti e quello del rito.
Il modello si presenta come una serie di “raccordi” (detti “assi”) tra i diversi punti, che disegnano la forma complessiva della esperienza eucaristica, così come pensata e attuata dal tardo medioevo al XX secolo. Analizziamoli sinteticamente.
a) Asse ente – rito: “il punto di ancoraggio solido del fatto eucaristia è l’ente. Esso governa il livello del rito” (113). Il rito viene estromesso dalla dimensione ontologica della eucaristia. “I quattro snodi rituali consegnati nella forma della cena di Gesù alla tradizione (accepit, gratiam egit/benedixit, fregit, dedit) si subordinano al secondo di essi. Il quale a sua volta è ridotto alla sua dimensione anamnetico istitutiva (dicens: Hoc est…hic est), ridotta alle sole parole omogenee alla predicazione sugli enti (le parole di azione – accipite et manducate/bibite – vi sono esautorate). Gli altri tre nodi perdono pertinenza ontologica, in particolare il polo della comunione: il fatto eucaristia è già compiuto con la consacrazione; la comunione ne è una conseguenza, definita uso del sacramento” (113-114)
b) Asse Cristo – ente: “Cristo è presente prima che (/anziché) agente” (115). L’analisi metafisica degli enti (il passaggio da sostanza a sostanza) è garanzia della presenza. “Gli eventi storico-salvifici del Cristo (Mistero Pasquale) sono ultimamente irrilevanti al dato oggettivo della presenza” (115). Se l’ente, e non la celebrazione, media l’accesso a Cristo, “ciò conduce ad una rappresentazione linguistico-mentale per cui Cristo è interno agli elementi consacrati” (115). Il frutto delle controversie medievali e moderne vuole salvaguardare la mediazione reale effettiva sul livello della sostanza metafisica.
c) Asse Cristo – rito: le categorie patristiche di “figura”, “immagine”, “similitudine” perdono rilevanza. Ciò appare evidente nella “teologia del sacrificio”, dove l’indebolimento della figura medievale porta la giustificazione sul piano degli “enti”, producendo una “moltiplicazione dei sacrifici”. “Se anche ciò che è di pertinenza del rito (il fatto eucaristia in quanto agito come sacrificio) si deve spostare sul nuovo centro ontico, il rito rimane esautorato anche di ciò che gli è proprio: essere azione mediatrice della azione salvifica di Cristo. Il rito rimane un guscio vuoto, mero supporto cerimoniale ad un nucleo che gli sta incastonato al centro” (116). Di qui si spiega la deriva dell’allegorismo.
d) Asse uomo – ente: La centratura ontica del fatto eucaristico determina una centratura noetica dell’accesso dell’uomo alla eucaristia. “Data la particolare natura degli enti dopo la consacrazione…la mediazione sensi>intelletto non può essere diretta…Assieme alla svalutazione dell’azione si ha anche la svalutazione del livello sensibile” (117). Anche sul piano del rapporto reciproco (ente – uomo) la contrapposizione tra “cibo spirituale/cibo corporeo” corrisponde a questa nuova centralità ontica e noetica della eucaristia.
e) Asse uomo – rito: “il rito sta all’uomo coinvolto nel fatto eucaristia come una sacra rappresentazione che gli si para dinanzi proponendoglisi come segno di ciò che sta collocato al suo centro: la presenzializzazione ontica…In quanto segno più che simbolo il rito si colloca davanti all’uomo, non l’uomo dentro di esso” (118). Anche la efficacia del rito è ridotta alla magnificenza sensibile, ma “è sufficiente che l’uomo stia davanti al rito, acconsentendo per fede al fatto che lì dietro/dentro si opera qualcosa di importante per la sua salvezza” (118). Così il beneficio della messa, basato su una logica ontica e non sensibile, può prescindere persino dalla presenza dei beneficiari.
f) Asse Eucaristia – Chiesa: “In epoca patristica il fatto stesso che l’eucaristia sia letta come spazio della presenza agente di Cristo alla sua chiesa ingloba in sé il fatto che la celebrazione del sacramento rende concomitantemente presente la chiesa stessa, ossia la genera, la edifica, la compagina. Ma tale reciproca compresenza della presenza di Cristo e del suo corpo, inteso come chiesa, si radica sulla centratura misterico-rituale del fatto eucaristia: l’eucaristia è rito, è actio” (119). Quando si esclude, come fa il modello tommasiano-tridentino, la rilevanza attivo-rituale del fatto eucaristia, a vantaggio di una centratura presenziale-ontica, la Chiesa diventa estrinseca alla eucaristia. Questa trasformazione – che è frutto della teoria “transustanziale” – trova le cause (e determina effetti) sugli altri “assi”: il fondamento cristologico è inteso in senso statico-naturale; il rapporto ente-rito conosce “la posizione secondaria della comunione rispetto alla consacrazione”, l’accesso individuale piuttosto che comunitario alla Chiesa, il primato di un approccio intellettuale piuttosto che sensibile alla eucaristia.
“Da qualsiasi parte di acceda al modello, la chiesa ne risulta esclusa, collegata solo come conseguenza seconda (e secondaria): lo sviluppo dell’intimismo devoto come via privilegiata di partecipazione alla messa si colloca qui come sintomo eloquente” (120).
Non è difficile ammirare la profondità e il rigore di questa analisi. Il modello classico di “presenza eucaristica” è passato ai raggi X e viene mostrato nella sua grandezza, ma anche nei suoi limiti. Il gioco di questi “assi”, come raccordi incrociati tra gli elementi costitutivi della esperienza eucaristica, è assolutamente chiaro nel mostrare la esigenza di elaborare un nuovo modello di teologia eucaristica, che, custodendo il meglio del modello medievale-moderno, sappia tradurlo in categorie capaci di salvaguardare il ruolo fondamentale della dinamica rituale. Sarà questo l’oggetto della terza parte della mia recensione.
(segue – 2)
[…] 1 Per un quadro più completo di tali riduzioni si veda la sintesi operata dal prof. A. Grillo su questo medesimo sito internet: http://www.cittadellaeditrice.com/munera/nuova-teologia-eucaristica-13-hoc-facite-il-modello-classic… […]