Nuova teologia eucaristica (/14): “Hoc facite”: verso un nuovo modello di presenza eucaristica nel XX secolo (Zeno Carra/3)


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Dopo aver presentato i fondamenti e i limiti del modello di comprensione e di celebrazione della presenza eucaristica, denominato “modello tommasiano-tridentino”, Zeno Carra nel suo volume Hoc facite (al quale abbiamo già dedicato due post qui e qui), propone uno sguardo su un nuovo modello, di cui presenta la “storia” (cap. II) e la teoria (cap. III). Occupiamoci ora del cap. II.

Le origini di un nuovo modello nel XX secolo (cap.II)

Anzitutto, Carra precisa che il “nuovo modello … è ancora lontano da essere elaborato sistematicamente”(121). Egli si limita ad identificare nel XX secolo “quegli snodi che hanno contribuito a destrutturare il modello ereditato e tuttora ufficiale”(ivi). Le fonti di questa “destrutturazione” sono due: da un lato il Movimento Liturgico e la Riforma liturgica, dall’altro il dibattito epistmeologico e le proposte di ridefinizione della presenza eucaristica tra gli anni 50 e gli anni 60, fino a Mysterium Fidei. Possiamo considerare in successione questi due grandi “apporti critici”.

1. Movimento Liturgico e Riforma liturgica

La riflessione sulla liturgia nel XX è stata segnata dalla scoperta del valore di “azione” dell’atto di culto: questo è il tema fondamentale sia per M. Festugière (122-127) sia per R. Guardini (127-132). In questo sviluppo accade una “ricentralizzazione del fattore tempo rispetto al fattore spazio: un ente consacrato in cui si dà una presenza sostanziale privilegia una accesso spaziale. Un’azione, invece, è un processo formale che si snoda nel tempo”(129). Secondo Carra, tuttavia, questa grande intuizione non giunge a porre in questione radicalmente il modello classico: “L’operazione di questi autori sta nel riportare a galla l’importanza della forma liturgica come azione, ma non arriva a far interagire esplicitamente tale operazione con quanto è ritenuto il cuore dogmatico del sacramento, il suo essenziale” (132). La scissione tra questo approccio liturgico e la riflessione sistematica, come vedremo, resta una questione aperta ancor oggi, nonostante ormai un secolo sia trascorso da quei primi tentativi di riflessione.

Ma il secondo filone che contribuisce alla “destrutturazione” del modello classico di comprensione della presenza reale viene dalla Riforma Liturgica, sia in quanto progettata da Sacrosanctum Concilium (=SC) , sia in quanto realizzata dal nuovo Ordo Missae.

1.1. Sacrosanctum Concilium

A proposito di SC, la riflessione di Zeno Carra osserva come, al di là della limitata coscienza che i padri conciliari avessero della incidenza della “pratica liturgica” sulla “sostanza dogmatica” dell’eucaristia – per molti di essi “la liturgia è dottrinalmente innocua” (194) -, la lettura del testo manifesta almeno tre livelli di revisione del modello classico di presenza eucaristica:

– la natura “storico-salvifica” della liturgia (SC 1-13), che fonda una definizione di eucaristia (SC 47) in cui “l’eucaristia è sacramento tanto quanto sacrificio, presenza del sacrificio pasquale di Cristo. L’eucaristia al suo centro è presenza di un atto e in virtù di questo è presenza dell’agente. Non più, come voleva il modello classico, presenza ontica (sacramento) da cui dipende una azione salvifica (sacrificio)” (196);

– in particolare SC 7, dove il testo presenta non tanto “diversi modi” di presenza di Cristo, ma la grande modalità dell’azione di Cristo nella liturgia, che permette di accedere a diversi “luoghi” o “poli” della sua presenza. Nel suo testo Carra, con grande finezza, mette a paragone la versione iniziale di SC, con quella di Mediator Dei e con il testo finale della Costituzione, offrendo con lucidità una lettura del valore “sistematico” del testo conciliare, sia pure riconoscendo la presenza di un doppio linguaggio, classico-sostanziale e attivo-formale.

– infine è decisiva la introduzione conciliare della nozione di actuosa participatio, che deve essere accuratamente distinta, sul piano sistematico, dalla “assistenza”: si tratta di affinare sul piano sistematico il valore della differenza tra “partem capere” e “ad-stare”. “Partem capere … sottolinea decisamente il fatto che l’inferenza al dato non è seconda e meramente consequenziale ad esso, definito e determinato nel suo in-sé essenziale. Essa si estende dentro il livello essenziale stesso, ne è partecipe e co-costituente. Questo per il fatto che la natura di tale livello essenziale, in quanto liturgia, è actio” (201). SC 11, 14 e 47-48 introducono profondamente in questa nuova nozione non solo di partecipazione, ma anche di liturgia e di eucaristia.

In sintesi, possiamo trarre da questo primo passaggio una importante conseguenza sul piano sistematico, che Carra esprime a chiare lettere: “Questo ci autorizza a vedere nel dettato conciliare un ulteriore spazio di operatività sul modello: se l’inferenza è co-essenziale al dato essenziale, questo va concepito altrimenti che un in-sé sostanziale posto davanti ai credenti. Esso va ricompreso secondo categorie che ammettano l’azione di chi accede quale intrinseca al dato cui essa inferisce. La nozione tomista di sostanza, visti gli esiti pratico-liturgici che essa ha consentito quanto alla posizione dei credenti, non è adeguata” (203, sottolineatura mia).

1.2. Il Novus Ordo Missae

Non solo il testo della Costituzione conciliare de liturgia, ma anche il nuovo messale agisce sul modello classico di comprensione della presenza eucaristica, introducendo sia una nuova descrizione della “forma missae”, sia elaborando una nuova “formula di consacrazione”. Anche su questi due punti Carra si sofferma in modo convincente e originale:

a) la “forma fondamentale” della messa

Il documento che apre il nuovo messale, IGMR, al numero 72, presenta la forma della eucaristia in 4 azioni di Cristo e della Chiesa. Se di Cristo si dice che “accepit, gratias egit, fregit et dedit” (prese, rese grazie, spezzò e diede), così la Chiesa ripete le 4 azioni come “presentazione dei doni, preghiera eucaristica, frazione del pane e comunione”. “Il cuore dell’evento eucaristico non è dunque la prolazione delle parole dichiarative sulla materia del pane e del vino e la conseguente conversione sostanziale. Il cuore dell’eucaristia è l’accadimento di un’azione, il darsi diacronico di una forma coerente e strutturata che unisce tra loro persone, parole, oggetti, tempo e spazio” (207). “Agire tale azione è la forma sostanziale della messa” (ivi).

b) la nuova “formula” di consacrazione

Anche in questo caso l’autore, ricorrendo ad una opportuna sinossi, che mette in parallelo il messale tridentino del 1962 e quello del 1969, confronta le parole del “racconto della istituzione” proferite sul pane e sul vino. Le differenze anche tipografiche sono rilevanti poiché i verbi di azione (prendete, mangiate e bevete) da esterni diventano interni alla “formula”. Dunque si può affermare che “nel cuore stesso del vecchio modello, nel punto di scaturigine di tutto quanto è eucaristia…come presenza nella conversione sostanziale della materia per la virtù delle parole dichiarative di Cristo sugli enti, entrano le istanze maturate nel corso del XX secolo: la centralità del sacrificio; quindi la fondamentalità non accidentale della pasqua di morte e resurrezione; l’emergenza del contenuto presenziato dal livello primario e non più consequenziale di una azione, di un processo evenienziale, dinamico, storico” (210).

Le grandi potenzialità di queste innovazioni strutturali ad avviso di Carra vengono però recepite secondo un “dualismo” che tende a relegarle nella insignificanza dogmatica di un rivestimento meramente esteriore.

2. Dibattito epistemologico e nuove teorie sulla presenza reale

Parallelamente a questa “elaborazione liturgica” del modello classico di comprensione della presenza eucaristica, a partire dagli anni 40 si è sviluppata una riflessione anche sul piano della teologia sistematica, di cui Carra considera due sviluppi: da un lato il dibattito tra Selvaggi e Colombo negli anni 50; dall’altro la comparsa di “nuove teologie della presenza” negli anni 50 e 60, fino all’enciclica Mysterium Fidei.

2.1. Un dibattito “autoreferenziale”? (Selvaggi vs Colombo)

Un teologo romano e uno milanese negli anni 40-50 si confrontano sull’impatto che la scienza moderna ha sul “pensiero eucaristico”. E giungono a soluzioni opposte, per cercare di salvaguardare il valore “ontologico” dell’eucaristia. In altri termini, emerge la domanda se la presenza eucaristica riguardi anche la “fisica” o solo la “metafisica”. Per Carra in questi dibattito appare chiaramente come ci si muova, con opzioni anche opposte, all’interno del modello ontologico classico, che sembra aver esaurito le sue possibilità e non riesce a “fondare intrinsecamente la dimensione escatologica dell’eucaristia” (147).

2.2. Proposte di riformulazione della “transustanziazione”

Negli stessi anni inizia in Europa un approfondimento della nozione classica di “transustanziazione”, che contribuisce alla revisione del modello classico di presenza reale. Carra divide in due “filoni”, corrispondenti a due convegni, la ricerca teologica più interessante: quello fenomenologico-religioso (Chevetogne 1958) e quello ontologico-relazionale (Passau 1959)

a) prospettiva fenomenologico-religiosa (Leenhardt, De Baciocchi, Ratzinger)

La prima linea di riflessione, frutto anche di confronto ecumenico, rielabora la tradizione dogmatica alla luce delle acquisizioni del movimento liturgico e sposta la “presenza” dal piano ontologico al piano della relazione, recuperando il fondamento pasquale della eucaristia. In particolare in Ratzinger la transustanziazione è tradotta escatologicamente e creaturalmente in “perdita di autonomia”. La soluzione attesta una profonda elaborazione del modello classico, anche se appare non priva di limiti. In sintesi Carra può affermare che in questo sviluppo “il proprio della presenza passa quindi dal Christus qui continetur sub speciebus al Christus qui usus est speciebus” (163).

b) prospettiva ontologico-relazionale (Welte, Schillebeecx, Rahner)

Questo secondo filone della ricerca teologica sulla presenza reale mette al centro il superamento di una “ontologia metafisica” mediante una “ontologia relazionale”, che ripensa la relazione tra soggetto e oggetto. Elabora soprattutto due categorie – quelle di “dono” e di “segno” – mediante cui tenta di tradurre il modello classico in forma nuova. Tuttavia anche questa linea non è esente da rischi. In particolare, nella versione offerta da K. Rahner, Carra vede i rischi connessi all’ “utilizzo di un un modello antico in un’epoca nuova, dopo lo spostamento cartesiano degli assi onto-gnoseologici” (179) il cui esito appare paradossale: pur volendo superare il modello scolastico-tridentino, questi tentativi rischiano di confermarne il dualismo e la relativizzazione della dimensione reale-storica, privilegiando ancora un accesso puramente “noetico” alla presenza.

2.3. La risposta magisteriale (Mysterium Fidei)

Infine Carra propone un’acuta considerazione della reazione del magistero, intervenuta nel 1965, con l’enciclica Mysterium Fidei (=MF) di Paolo VI. Pur avendo la intenzione di non scoraggiare lo sviluppo del nuovo pensiero, nell’intento però di arginarne i rischi, il testo finisce con l’avere un effetto di “blocco” sulla riflessione cattolica intorno al tema della presenza reale, poiché l’enciclica assume “tuzioristicamente” il modello classico come unico criterio di discernimento. Qui Carra segnala un problema davvero fondamentale, e lo fa con una chiarezza tanto rara quanto opportuna: “Non si è presa in considerazione l’istanza perseguita dai nuovi tentativi: di trovare cioè altre vie per pensare, dire e vivere la stessa fede che quelle formule, tanto solennemente ribadite, oggi non sono più in grado di tenere” (184). In realtà occorre considerare il rapporto tra storia e dogma in modo meno rigido: “la verità non sta in un flusso noetico di idee atemporali sotterraneo alla storia, ma nell’esperienza stessa della storia dei credenti” (ivi). Così con il testo di MF, “riproponendo …la transustanziazione, si è anche riproposto coerentemente il modello di accesso di cui essa, come abbiamo mostrato…, è parte e veicolo” (ivi).

Queste considerazioni permettono anche di guardare criticamente alla recezione del Concilio Vaticano II sul tema dell’eucaristia. Anche qui il giudizio espresso da Carra è assai convincente: “Riteniamo che l’operazione dell’enciclica apra la strada ad una prassi diffusa nella teologia e nel magistero successivi: quella di recepire i testi del concilio forzandoli negli impianti teologici che essi stessi tentavano di superare, avviando così una recezione lessicale ma non strutturale degli stessi” (186-187, la sottolineatura è mia).

Sulla base di questo “racconto” del XX secolo intorno alla presenza di Cristo nell’eucaristia, si apre necessariamente lo spazio per la elaborazione di una “nuova teologia eucaristica”, con la costruzione almeno embrionale di un nuovo modello, a cui Carra dedica il III ed ultimo capitolo, del quale parleremo nel prossimo e ultimo post di presentazione di questo importante volume.

(continua – 3)

 

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