Nuova teologia eucaristica (/2): eucaristia come pasto e come parola in Ghislain Lafont


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All’inizio del nuovo millennio, nel 2001, compariva un piccolo libro in francese, subito tradotto in italiano ( Ghislain Lafont, Eucaristia: il pasto e la parola, Torino, LDC, 2002) che segnava un passaggio importante all’interno della teologia cattolica. Per certi versi può essere considerato un testo fondamentale per uno sviluppo che in questi ultimi 15 anni è continuato e si è articolato, soprattutto in ambito francofono. Ne ripropongo la presentazione che scrissi 15 anni fa e che ne presenta le linee fondamentali sul piano antropologico, teologico, liturgico e spirituale.

 Presentazione ( di Andrea Grillo)

«Chissà che tutta la nostra teologia non sia altro che una faticosa rieducazione per popoli che hanno dimenticato le leggi primarie dell’arte del vivere?»

                                                                             Gh. Lafont1

Se è vero che «una certa emozione è la condizione della mia obiettività»2, bisogna ammettere che questo libro, proprio perché molto emozionante, appassionante e persino sconvolgente, perviene ad un grado sorprendentemente intenso di obiettività, proponendo – col suo «bello stile» – quell’atto di comprensione e di esposizione teologica dell’eucaristia cristiana, che rappresenta uno dei nodi più delicati da sbrogliare di tutta la matassa concettuale ed esperienziale della fede cristiana.

Emozionante, appassionante, sconvolgente: parole grosse, impegnative, eppure assolutamente pertinenti ad un opera che non lascia mai il lettore indifferente; ma parole anche unilaterali e distraenti, poiché l’operetta di Lafont risulta alla lettura almeno altrettanto sorprendentemente lineare, classica e persino elementare.

Forse è proprio questa una delle caratteristiche più singolari di questo autore, che di recente è stato riccamente recepito in ambito italiano con la traduzione di molte sue opere3: egli sa tenere insieme registri che ordinariamente appartengono a scuole, a stili, a esperienze e addirittura a persone diverse.

Vorrei cercare di introdurre a questo nuovo libro, così saggio e sapiente, muovendomi in parallelo col pensiero del suo autore: autore e opera si intrecceranno e si incontreranno continuamente, quasi applicando a questa presentazione la regola della Alleanza e della Condivisione che chiude il volume. Dopo una breve esposizione della struttura complessiva del libro, proverò ad entrarvi dentro secondo quattro percorsi (riflessione antropologica, speculazione dogmatica, approfondimento liturgico, meditazione spirituale), su ognuno dei quali incontreremo anche un particolare aspetto dell’intero magistero teologico di Gh. Lafont.

1. La struttura complessiva

Il libro si segnala dunque per una singolare originalità, per una brevitas e un à plomb di grande eleganza, per uno sguardo originale e profondo, per una «tatto» fine e delicato, ma anche per un piglio spregiudicato e immediato, per il modo diretto e originale con cui osa trattare il soggetto eucaristico.

Si comincia dall’uomo, in modo radicale. I primi due capitoli sono infatti consacrati a due azioni che qualificano l’uomo nella sua relazione al prossimo e a Dio. Il mangiare e bere e il parlare sono studiati come l’orizzonte umano e più che umano al cui interno può svilupparsi quella cena eucaristica, nella quale – bisogna ricordarlo – anzitutto si mangia, si beve e si parla.

A questi due primi capitoli segue un terzo, nel quale viene affrontato il «testo chiave» della eucaristia, la preghiera eucaristica, la cui struttura viene analizzata con precisione e ricondotta al suo significato fondamentale, concludendo con pagine intense circa la festa, come condizione della massima attivazione del senso profondo delle azioni più elementari dell’uomo.

Il quarto capitolo sposta poi l’attenzione del lettore sul Mistero Pasquale, ossia sull’evento di Morte e Risurrezione di cui l’eucaristia è memoria e presenza attuale. Ma ancora una volta le sottili indagini teologiche sono sorrette da un largo attingere ad una fenomenologia della morte umana, del «morire per» e della risurrezione della comunità insieme al suo Signore.

L’ultimo capitolo, infine, affronta il tema del Corpo e del Sangue, nel quale tutti i temi precedenti vengono riassunti: il mangiare, il bere, il parlare, l’unione coniugale e il morire trovano qui la loro sintesi. Proprio a questo punto, con grande profondità unita a singolare linearità, viene discussa la nozione teologica centrale che interpreta ancora oggi quel pane e quel vino in rapporto a quel Corpo e a quel Sangue: ossia il concetto di transustanziazione.

Le conclusioni riprendono tutto il filo della argomentazione, ripercorrendo tutta la trasfigurazione dell’uomo, che da una parte il cibo, la parola, il sesso e la morte rivelano in generale come «scambio» e come «dono», e che d’altra parte all’interno della particolare dinamica celebrativa della eucaristia assume tutta la sua evidenza.

Ma questo è, per così dire, solo l’aperitivo. Per entrare ancor meglio nella trama del volumetto si possono seguire quattro prospettive di lettura, e ognuna di esse ci mostrerà allo stesso tempo anche uno dei fondamentali «interessi» del suo autore.

2. La riflessione antropologica

Ghislain Lafont, come confessa anche nella Introduzione al nostro testo, si è lasciato dire una parola importante dalla antropologia del XX secolo: anche da quella meno «armonica» con il discorso teologico. Egli non si è lasciato distrarre da quella fondamentale diffidenza che la teologia ha largamente avuto e continua ancora ad avere nei confronti della produzione antropologico-culturale, fino ad assumere parole di fuoco, come quelle che risuonano sulla bocca di un filosofo così caro a Lafont come E. Lévinas, ma che a differenza del nostro esprime pensieri durissimi contro l’antropologo Lévi-Strauss:

 «L’atesimo moderno non è la negazione di Dio, ma l’indifferentismo dei Tristi Tropici, che ritengo il libro più ateo scritto oggi, assolutamente disorientato e disorientante»4.

 Lafont riconosce invece il suo debito verso le letture antropologiche, verso Mauss e Lévi-Strauss, verso Leroi-Gouran e Bachelard, verso Camporesi o Eliade e tutti cita nella sua ricerca, come autori essenziali per cogliere quello sfondo umano – e mai «troppo umano» – su cui l’eucaristia «lavora».

D’altra parte, queste «fonti» non sono nuove nel lavoro teologico di Lafont. Basterebbe pensare alla loro presenza importante in lavori precedenti5, per comprendere che non si tratta di un «maquillage» alla moda o di una tendenza à la page, quanto piuttosto di una istanza teologica di fondo del lavoro sistematico del nostro autore. Siccome non si può fare teologia al di fuori del concreto linguaggio della fede, e siccome la fede utilizza primariamente il linguaggio delle grandi simboliche del pasto, del sesso e della morte, poiché a questi simboli sono stati dedicati grandissimi studi da parte della antropologia culturale, la teologia non può fare a meno di interegire con queste scienze umane: programmaticamente Lafont può dire quanto segue:

«Nel saggio che segue vorrei tentare una lettura dell’Eucaristia a partire da questi grandi simboli, di cui le scienze umane si sono tanto occupate durante la seconda metà del secolo che si è appena concluso»6.

Concretamente ciò significa un interesse radicale per il «fenomeno» più elementare nel quale di imbattiamo nell’eucaristia. Ciò si spiega forse anche ricordando la base tomista del pensiero di Lafont, che nel suo interesse teorico per il «sensibile» lo spinge sempre ad essere curioso verso tutte le riletture che di esso propone la cultura contemporanea, dal «decostruzionismo» alle simboliche del cinema7.

3. La speculazione dogmatica

Pur con tutta la sua apertura alle scienze umane, questo che abbiamo davanti resta il saggio breve di un teologo dogmatico e sistematico. Questo fatto non deve sorprendere: il pensiero di Lafont resta anzitutto un «pensiero teologico», che in virtù del mistero centrale della fede – Incarnazione e Mistero Pasquale, Morte e Risurrezione, Corpo e Sangue, un Dio Padre, Figlio e Spirito – si apre ad ogni rilettura contemporanea nell’orizzonte di pensabilità del mistero cristiano. In un certo senso siamo sempre nell’orbita del titolo di una delle prime grandi opere del nostro autore: Peut-on connaitre Dieu en Jésus-Christ?8: Si può conoscere Dio in Gesù Cristo? Anche l’eucaristia è un modo di «conoscere», di conoscere l’assoluto di «Dio», ma in, con e mediante «Gesù Cristo»; quindi con tutta la umanità e la sensibilità, la storicità e la affettività che questo «Nome» comporta. Quel «Nome» non è e non può essere senza «legami». Anche nel disporsi a presentare in modo lineare il senso della eucaristia cristiana, Lafont non dimentica questa sua vocazione speculativa, tanto autenticamente cristiana, quanto necessariamente filosofica e dogmatica. Né possiamo tralasciare che la sua sintesi teologica, offerta nei grandi volumi già citati, aveva però sempre avuto un orizzonte che lui stesso non poteva chiamare meglio che «eucaristico»9. Per il nostro libro ciò significa che il grande «disordine» dell’approccio antropologico trova sempre un «criterio ordinatore» primo e ultimo, una Origine e una Fine, che è radicalmente e rigorosamente sistematica, e come tale funziona anche da principio organizzatore del materiale e della esposizione. Il lettore, che pure si sente tirare per strade sconosciute e dentro «selve oscure», ritrova sempre un orizzonte pacificato e una «diritta via» sulla sfondo.

 4. L’approfondimento liturgico

 Ma non basterebbe un principio digmatico a «produrre» il testo che abbiamo sott’occhi. Anche la sua struttura tradisce un elemento ulteriore: il «ponte» tra la prima parte (prevalentemente antropologica) costituita dai capitoli 1 e 2, e la seconda parte (prevalentemente teologico-sistematica) dei capitoli 4 e 5, è costituita da una sezione intermedia, di carattere prevalentemente liturgico, che permette appunto il passaggio dalla prima alla seconda parte.

Vi è infatti una terza componente della sensibilità di Gh. Lafont, che potremmo proprio definire «sensibilità liturgica», anche se egli non è mai stato liturgista in senso proprio10. Ha però colto come pochi altri che è nella concretezza dell’atto celebrativo che si può e si deve cogliere la ricchezza teologica e antropologica del «sacramento dell’altare».

Così la meticolosa analisi della III preghiera eucaristica del Messale di Paolo VI non è un esercizio di filologia o di archeologia liturgica, né semplicemente un commentario teologico del testo, bensì l’occasione per mettere alla prova quell’intreccio tra parola e pasto, che già di per sé rivelava qualcosa di essenziale sul rapporto tra Dio e l’uomo, ma che in questo III capitolo appare pienamente assunto dalla logica del testo ufficiale e capace di rivelarne sfumature altrimenti invisibili.

La logica stessa con cui invocazione, evocazione, intercessione e acclamazione si susseguono presenta in modo inestricabile – nello stesso tempo come assunto antropologico e come principio cristologico, senza chiusure nel primo e senza indebite imposizioni del secondo – la coimplicazione di teologico e liturgico, come ormai è sempre più chiaro anche alla stessa ricerca liturgica. Il Nome è cibo e il cibo è Nome: la prassi liturgica lo sa da sempre, anche se la teoria fa fatica ad ammetterlo e a riconoscerlo.

 5. La meditazione spirituale

 Proprio questa nuova coscienza dell’intreccio profondo di teologia e liturgia, mediato dalle simboliche culturali analizzate dalle scienze umane, apre anche sull’ultimo livello di interesse del volume: ossia sul suo profilo di teologia spirituale, in particolare mediato dalla sensibilità monastica dell’Autore.

Sullo sfondo vi è proprio la concretezza semplice e diretta della vita monastica, della sua «regolata devozione» (Muratori) e della sua «profondità superficiale» (Wittgenstein). Se il mangiare ecclesiale non è soltanto quello eucaristico, ma anche quello del «refettorio»; se il pregare non è solo quello della celebrazione domenicale, ma quello della «liturgia delle ore», fino a sette volte al giorno; se il parlare non è solo quello delle formule prescritte, ma quello della invocazione e della narrazione, della intercessione e della acclamazione nella relazione quotidiana, ecco allora la trasfigurazione cui l’eucaristia sottopone l’esperienza dell’uomo, non importa se legata ad un «principio monastico» oppure ad un «principio domestico» della sua esperienza cristiana.

Comunque sia, questo orizzonte spirituale è forse quello su cui Lafont dimostra meglio come l’uscita da una teologia «clericale» sia possibile soltanto quando la riconciliazione con il senso autentico della fede avviene anche sempre attraverso il corpo, attraverso il pasto, attraverso la parola, attraverso il sesso, attraverso la morte. L’esperienza della Spirito è una esperienza radicalmente corporea: questa antica verità trova qui parole nuove e immagini fuori dal comune, ma tanto più decisive oggi, perché tale esperienza continui ad essere l’esperienza possibile per tutti i cristiani. Che queste esperienze corporee – in quanto grandi simboliche elementari – siano le prime ad annunciarci Cristo e perciò a «rivelarcelo», è il segreto del grande testo che ora ci accingiamo a gustare.

 6. Conclusione

 Ciò che Ghislain Lafont ci propone in questa sua opera è veramente notevole. Il suo volumetto offre al lettore alcune prospettive di rilettura dell’esperienza eucaristica talmente originali da costituire quasi un novum assoluto all’interno del panorama teologico non solo di oggi, ma di sempre11. Mai nessuno aveva parlato teologicamente del Santissimo Sacramento utilizzando come base questo intreccio di «figure» e di «forme»: il cibo, il sesso, la parola, la morte sono le grandi porte attraverso cui Lafont ci porta non solo a rivisitare il grande museo ma a condividere la grande esperienza viva e vitale della eucaristia.

Un gesto semplice e parole poetiche costituiscono l’orizzonte in cui si profila e prende carne la Alleanza con Dio e la Condivisione col prossimo, la pace donata e la giustizia progettata. Ritornare a comprendere questa dimensione elementare dell’eucaristia significa anzitutto riscoprire la vera vocazione della teologia in tempo postmoderno – una teologia concepita come rieducazione alla ricchezza di ciò che è elementare – ma significa perciò anche tornare a rendere accessibile tutta la delicatezza e la profondità di quei gesti rituali nei quali è nascosto il senso originario del rapporto con Dio e col prossimo. Perché così ha voluto Dio e perché così è fatto l’uomo:

 «Una sola realtà si gioca, si raccoglie e si amplifica attraverso i grandi simboli di cui è intrecciata la nostra esistenza: procurare viveri e, semplicemente, accettarli; scambiare carezze, spandere e accogliere il seme; lasciare colare il proprio sangue e cambiar vita perché l’Altro è morto. Con variazioni di intensità, è sempre l’unico movimento della vita che si manifesta e si realizza»12.

Andrea Grillo

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1Gh. Lafont, Eucharistie. Le repas et la parole, Paris, Cerf, 2001, 38. Per le prossime citazioni dal volume useremo l’abbreviazione ERP.

2Lafont, ERP, 58.

3Mi riferisco a Storia teologica della Chiesa. Itinerario e forme della teologia, Cinisello B. San paolo, 1997, e a Immaginare la Chiesa cattolica. Linee e approfondimenti per un nuovo ‘dire’ e un nuovo ‘fare’ della comunità cristiana, Cinisello B., San Paolo, 1998. Già prima era stato tradotto – ahimé solo in parte – Dio, il Tempo e l’Essere, Casale Monferrato, Piemme, 1992.

4E. Levinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Brescia, La Scuola, 1986, 118.

5Su tutti bisogna ricordare Gh. Lafont, Dieu, le Temps et l’Etre, Paris, Cerf, 1986, dove tutta la prima parte sul «Tempo perduto e l’essere introvabile» è costruita su fonti abbondantemente antropologico-culturali.

6 Lafont, ERP 9.

7Non dimentichiamo il grande esordio teologico di Gh. Lafont, Structures et méthode dans la «Somme Théologique» de Saint Thomas d’Aquin, originariamente apparso nel 1961 e poi ripubblicato da Cerf, Paris, nel 1969 e ultimamente nel 1996. D’altra parte alcune note del nostro libro sulla eucaristia tradiscono abbondantemente il grande interesse di Lafont per il cinema contemporaneo…

8Paris, Cerf, 1969.

9Cfr. Gh. Lafont, Verso un rinnovato orientamento eucaristico del linguaggio teologico, in Il sapere teologico e il suo metodo. Teologia, ermeneutica e verità, ed. I. Sanna, Bologna, EDB, 1993, 257-270.

10Nella sua bibliografia (cfr. J. Driscoll, Imaginer la théologie catholique. Mélanges offerts à Ghislains Lafont, Roma, Studia Anselmiana, 2000, 15-20) manca un grande testo strettamente «liturgico», sebbene siano presenti numerosi articoli e diversi spunti impotanti nei grandi volumi. Né possiamo dimenticare il lungo insegnamento a S. Anselmo, presso la Specializzazione Dogmatico-Sacramentaria, a stretto contatto con tanti liturgisti.

11Lo stesso Lafont aveva anticipato il senso di questo suo ultimo volume nell’articolo Eucaristia, in A. Grillo – M.Perroni – P.-R. Tragan, Corso di teologia sacramentaria, vol. II, Brescia, Queriniana, 2000, 188-225. Su tutt’altro piano, e con minor interesse strettamente teologico, troviamo qualche tema simile nel volumetto di Rubem A. Alves, La cucina come parabola, Magnano (VC), Qiqajon, 1996.

12Lafont, ERP, 38. 

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