Nuova teologia eucaristica (/3): Il miracolo e la parabola (M. Rouillé d’Orfeuil)


Lieu, présence, résurrection. Relectures de phénoménologie eucharistique

 

Una lettura originale e profonda della tradizione patristica e medievale sulla eucaristia ci viene proposta da un giovane teologo francese, che utilizza cose nuove e cose antiche per costruire una meditazione raffinata e toccante. Matthieu Rouillé d’Orfeuil è formatore presso il Pontificio Seminario Francese di Roma, docente incaricato all’Università Gregoriana. Ha pubblicato la sua tesi di dottorato: Lieu, présence, résurrection – Relectures de phénoménologie eucharistique, nella collana “Cogitatio Fidei” 300, le Cerf, Paris, 2016.

Presenza eucaristica: il miracolo e la parabola

Ciò che i vangeli sinottici chiamano “miracolo” (dunamis), Giovanni lo denomina “segno” (sèmeion) per sottolineare che il fatto straordinario rinvia anche a cose del mondo quotidiano, che non è soltanto un’argomentazione da attribuire alla potenza taumaturgica di Gesù, ma che contiene una chiave di lettura del reale ed indica, a chi sa vedere, una verità in più, di natura spirituale. Vorrei, quindi partire dal primo dei “segni” che Gesù compie : cambiare l’acqua in vino a Cana (Gv 2,1-11). Se si preferisce rimanere incantati dal “miracolo”, si pensa che non è possibile cambiare in un istante dell’acqua naturale ed insipida in una bevanda forte e piena di sapori, a meno di essere un prestigiatore di grande talento. Ma se si vuole contemplare il “segno”, uno diventa libero di vedere anche un’altra cosa. Non c’è forse, nel nostro mondo ordinario, qualcosa che sia capace di cambiare dell’acqua in vino, dell’acqua piovana, fredda e triste, in vino delizioso ed allegro ? La risposta ci sfugge per la sua evidenza : per cambiare dell’acqua in vino, basta una vite e un vignaiolo. Ciò richiede di solito un po’ più di tempo rispetto a ciò che fecce Gesù a Cana ; ma questa conversione dalla pioggia sgradevole in bevanda di festa non ha nulla d’inconsueto. Questa transustanziazione (giàcché si può giustamente chiamarla così) che cambia tutta la sostanza dell’acqua nella sostanza del vino è un processo che avremmo torto a non riconoscere prima di tutto nella vita ordinaria degli uomini del Medio Oriente che sapevano per esperienza autentica come la pioggia è rara, come la vite è fragile, come la fermentazione dell’uva è delicatissima, e com’è preziosa la gioia. Per cambiare l’acqua in vino, occorre dunque una vite e un vignaiolo.

Proseguendo la mia lettura del Vangelo di Giovanni, trovo questa parola di Gesù, al termine dell’ultimo pasto : « Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo » (Gv 15,1). Se il quarto vangelo non presenta il racconto dell’istituzione dell’eucaristia nello stesso modo in cui lo fanno i sinottici, sarebbe comunque uno sbaglio non capire tale dichiarazione d’identità di Gesù prima di morire, come una parola eminentemente eucaristica. Nel consegnare ai suoi apostoli la parola fine delle nozze di Cana, Gesù dice chi è lui, la vite, indica chi è il vignaiolo, suo Padre, e suggerisce che il pasto pasquale che ha voluto come rivelazione del suo amore eccessivo, « fino alla fine » (Gv 13,1) era il compimento gioioso di un’alleanza, la celebrazione di nozze nuove ed eterne alle quali il vino e la gioia non sarebbero mai venute meno.

Laddove il “miracolo” affascina come una cosa straordinaria, il “segno” rinvia alla Chiesa-Sposa, come segno dell’alleanza, « il sacramento dell’unione intima con Dio e dell’unità di tutto il genere umano » (cf. LG 1).

Nutrizione e metabolismo.

La questione successiva appare assai prevedibile : che cosa può cambiare del pane in corpo, del vino in sangue ? Esiste forse un fenomeno naturale, ordinario, che realizza ciò ? Così formulata, l’enigma diventa semplicissimo : ciò che cambia il pane in corpo ed il vino in sangue è ovviamente questo processo vitale che assimila i prodotti alimentari che mangio per farli – non soltanto “miei” – ma per farli “io”. Ciò che si chiama il “metabolismo” (cioè : ultra-cambiamento) può molto bene dirsi anche transustanziazione. Tutta la sostanza del pane che mangio è cambiata nella sostanza del mio corpo ; e tutta la sostanza del vino che bevo è cambiata nella sostanza del mio sangue. Parlare così sembra una astuzia ; ma bisogna chiedersi se tale linguaggio sia realmente tradizionale. Veramente i teologi hanno riflesso in questa direzione sull’eucaristia e su questa conversione stupefacente di sostanze ? – oppure è soltanto uno gioco sottile ma così innovativo da non poter pretendere di spiegare nulla della storia dell’eucaristia ? Lo sappiamo bene, l’eucaristia è, nella Chiesa, una realtà del tutto tradizionale : Paolo ci ha trasmesso ciò che lui aveva ricevuto (cf. 1Cor 11,23), ed occorre dunque in sommo grado collegare anche il pensiero eucaristico, il discorso eucaristico, la spiritualità eucaristica ad una continuità di interpretazioni, a rischio di vedere ridotta tutta la teologia del sacramento che costituisce (secondo la parola di Ireneo, IV, 18,5 ; cf. C.C.C. 1327) la norma della nostra dottrina, ad una pericolosa leggerezza. No, mio compito è illustrare tutte le conseguenze patristiche e scolastiche delle immagini e dei simboli. Vorrei tuttavia indicare alcune pietre miliari, descrivere così la logica di tale tradizione che parte dal metabolismo per arrivare alla transustanziazione.

Inizio da un’osservazione di Tertulliano :

« Cosa è la carne, se non terra cambiata in forme proprie ? » « Quid [est] caro quam terra conversa in figuras suas ? » (Tertulliano, De carne Christi, IX, 2).

Tale osservazione sembra colpevole di ingenuità, se viene interpreta soltanto come un commento alla creazione di Adamo dall’argilla… ma supponendo tale credulità infantile da parte del teologo geniale, non siamo forse noi stessi ad essere ingenui ? Tertulliano non parla di una carne fatta di terra, ma di una terra cambiata in carne. Lui sa molto bene che la materialità dell’uomo non è quella di una statuetta ; ma vede bene anche, aldilà di ciò che sembra, che c’è un’affinità : una continuità e un cambiamento. Cosa cambia la terra in carne ? Il processo resta forse misterioso per l’uomo delle città ; ma un uomo della campagna lo sa molto bene. Il grano di frumento caduto in terra, che ivi muore, trae da questa tutto ciò che occorre per diventare spiga (Gv 12,24) ; la spiga raccolta e schiacciata fornisce la farina ; la farina mescolata d’acqua e cotta al fuoco diventa pane commestibile (Is 55,10) ; ed il pane mangiato diventa carne dell’uomo. Cosa è dunque la carne dell’uomo, se non un po’ di questa terra dalla quale il grano di frumento ha tratto la sua prima metamorfosi ; e fu condotto poi fino a diventare, in ultima e sublime transustanziazione, l’istanza biologica di un essere spirituale ? Se uno vuole usare un poco di filosofia scientifica, può andare a rileggere cosa dice Aristotele sulla nutrizione, e anche il commento di Tommaso d’Aquino su questo tema.

Aristotele, Della generazione e della corruzione, I, 5 ; 320 a 8 – 322 a 33. Tommaso d’Aquino, In libros De generatione et corruptione, I, 16, 3. J. Maritain, « Philosophie de l’organisme – Notes sur la fonction de nutrition » (1937), in Jacques et Raïssa Maritain, Œuvres complètes – VI, Edition publiée par le Cercle d’Etudes Jacques et Raïssa Maritain, Editions Universitaires de Fribourg – Editions Saint Paul, Fribourg – Paris, 1984 ; p. 981-1000.

Sarebbe del tutto sbagliato pensare che Tommaso d’Aquino, quando parla di “transustanziazione”, si interessi soltanto ad una trasmutazione fisica di un genere assai strano, cioè il cambiamento di una briciola di pane, qui posta sulla patena, in un boccone di carne (cambiamento tanto più paradossale per il fatto che, visibilmente, nulla viene mai cambiato). Tommaso sapeva molto bene ché l’eucaristia non è un caso d’illusionismo, ma vita di un corpo. Sapeva che la transustanziazione è anzitutto la realtà vitale, intima, di una carne visibile e sensibile, e non un gioco di prestigio sacerdotale, per quanto possa essere pio.

« i prodotti alimentari corporali sono cambiati nella sostanza di quello che se ne nutre » « alimentum corporale convertitur in substantiam eius qui nutritur » (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiæ, III Q. 73 a. 3 ad 2m ; cf. I Q. 119 a. 1).

E Bonaventura non dice altro :

« Non c’è vita per il corpo senza incorporazione dei prodotti alimentari che gli sono adatti (…) I prodotti alimentari mangiati passano nella sostanza del mangiatore per operare la sua nutrizione » « non est vita corpori absque incorporatione cibi convenientis ei (…) cibus comestus transit in substantiam et nutrimentum comedentis » (Bonaventura, De præparatione ad Missam, 13) « il pane nutre la carne o il corpo ; e il vino viene cambiato in sangue, che è la vita stessa » « Nam panis nutrit carnem sive corpus, et vinum transit in sanguinem, qui est sede animæ » (ibid., 2).

 

Una fenomenologia della carità.

Il corpo di cui parliamo, ovviamente, è la Chiesa. Pensando che, per i Dottori scolastici, la transustanziazione fosse un affare di cambiamento della “cosa-posta-là”, il pane in carne, il vino in sangue, si interpreta in modo erroneo ciò che era stato inizialmente pensato come un’immagine eloquente della vitalità del corpo ecclesiale. Se la Chiesa è viva, e se la Chiesa è organica (cioè strutturata in comunione gerarchica ove l’unità di missione suppone la diversità dei ministeri) – in una parola : se la Chiesa è un corpo, trae la sua vitalità, la sua crescita, la sua coesione, da alimenti che essa transustanzia e che diventano lei. Giacché la Chiesa è corpo “di Cristo”, ciò che essa transustanzia diviene appunto corpo di Cristo. Cosa dunque viene così transustanziato da questa materia del pane? Non sono certamente gli atomi di carbonio né le molecole d’acqua che, fisicamente, restano nello stesso stato prima e dopo della consacrazione. È piuttosto « il frutto della terra e del lavoro dell’uomo », questa convergenza di un’abbondanza della natura e di uno sforzo agricolo, la collaborazione del mondo puramente creato in una logica di fecondità naturale e di un uomo, operaio nella creazione, che dà a sé stesso i mezzi della sua sussistenza e della sazietà della sua famiglia, laddove il pasto è luogo di piacere e di parola, di convivialità e di rendimento di grazie. Se la nostra società del consumismo ha rimosso questa dimensione festosa, se la gioia del pasto e dell’amicizia è in gran parte scomparsa dalla nostra epoca individualistica, sembra opportuno che il rito eucaristico ne rimanga come un segno esistenziale e vivo, più di un mero vestigio : un “memoriale”. In cosa viene transustanziata quest’opera comune del mondo e dell’uomo ? Le definizioni dogmatiche del Concilio di Trento, cosí riprese da Paolo VI in Mysterium fidei, forniscono su questo argomento una vera chiarezza :

“corpo, sangue, anima e divinità” di Cristo sono presenti nel sacramento. « il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e, quindi, il Cristo tutto intero ». « corpus et sanguinem una cum anima et divinitate Domini nostri Iesu Christi ac proinde totum Christum ». Concilio di Trento, Decreto sull’eucaristia [11 ottobre 1551] ; can. 1 ; C.O.D. 697. « Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente ». « totus atque integer Christus, Deus et homo, fit præsens ». Paolo VI, Mysterium fidei [3 settembre 1965] ; EE – 7, 883.

Nel passare attraverso la preghiera della Chiesa, l’abbondanza di questo mondo e gli sforzi degli uomini diventano Dio. Di nuovo, uno potrebbe stupirsi in perpetuum su questo miracolo metafisico : una sostanza inanimata e minimale che diventa l’atto puro stesso, che materializza in se il Dio-Spirito… Risulta ovvio che tale fascino per l’oggetto eucaristico fa perdere di vista la realtà stessa. La transustanziazione non produce nel nostro mondo “una-cosa-che-è-Dio-increato”. Instaura piuttosto nel corpo della Chiesa questa coerenza armoniosa, questa relazione reciproca che è la carità – e Dio è carità. Una parola di sant’Agostino lo spiega con un’eloquenza breve che sembra meglio di ogni discorso :

« “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, poiché l’amore è da Dio e chi ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, poiché Dio è carità”(1Gv 4,7-8). Questo modo di parlare è abbastanza chiaro, che mostra, con tale autorità, che questa carità fraterna (poiché la carità fraterna è questa con cui ci amiamo l’un l’altro) non soltanto viene da Dio, ma che è Dio ».
« “Dilectissimi, diligamus invicem, quia dilectio ex Deo est ; et omnis qui diligit, ex Deo natus est, et cognoscit Deum. Qui non diligit, non cognovit Deum ; quia Deus dilectio est”. Ista contextio satis aperteque declarat, eadem ipsam fraternam dilectionem (nam fraterna dilectio est, qua diligamus invicem) non solum ex Deo, sed etiam Deum esse tanta auctoritate prædicari ». Agostino, De Trinitate, VIII, viii, 12.

Si può ancora fare finta di dimenticare che Tommaso d’Aquino se ne ricordava, e cercare in lui una metafisica della transustanziazione, che, in verità, sembra molto vicina ad un’idolatria della presenza. Ma si può riconoscere anche che, nella riflessione immensa e geniale sistemata da lui per provare a spiegare razionalmente l’azione sacramentale, non ha mai trascurato che la “res” dell’eucaristia, cioè la sua realtà più significativa, è l’unità della Chiesa nella carità. Ghislain Lafont commenta così un brano della Summa Theologiæ (III Q. 67 a. 2) :

« Vi troviamo all’inizio una definizione dell’eucaristia nella sua relazione alla Chiesa : “sacramentum ecclesiasticæ unitatis” ; ed il testo ci indica poi in quale senso reale, intenso, bisogna intendere quest’espressione : della celebrazione eucaristica viene detta “operari totum”. In altri termini, se l’eucaristia significa l’unità della Chiesa, ne è anchè la causa, ciò essendo del tutto conforme alla teologia sacramentaria di san Tommaso. L’unità della Chiesa è il frutto della celebrazione eucaristica, o anche : l’eucaristia fa la Chiesa nella sua unità. Tutte quest’espressioni indicano una dottrina costante presso l’Angelico : la “res” dell’eucaristia non è nient’altro dall’unità della Chiesa ». G. Lafont, Structures et méthode dans la « Somme Théologique » de saint Thomas d’Aquin ; (1961), Cogitatio Fidei n° 193, le Cerf, Paris, 1996 ; p. 457 ; cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiæ, III Q. 67 a. 2 ; Q. 73 a. 2-5 ; 74, 1…

Non si tratta dunque di vedere solo che cosa opera la sussistenza vitale della Chiesa ; occorre piuttosto riconoscere, con uno stupore molto più lucido e profondo di un mero prodigio della materia, che l’unità della Chiesa è, per il mondo e nel mondo, una grazia di presenza. La teologia eucaristica ha così compiuto un passaggio, un “transitus” ammirevole che ha rilievo per la definizione della teologia “tout court”. Si può dire, in un certo senso, che la teologia è un’indagine sul credere, un’introspezione del credente (un’ « analysis fidei », come diceva Gregorio di Valenza). In questa prospettiva, ci si può chiedere : “cos’è credere nella presenza di Cristo nell’eucaristia ?” ; si può trarre da tale domanda una conoscenza adeguata, scientifica, del dogma eucaristico. Vengono esaminati allora i testi ; ci si interroga sul significato preciso di questo « est », così misterioso nell’asserire che « questo è il mio corpo » e nel realizzare allo stesso tempo che questo sia il corpo di Cristo. Ma sarebbe assai insufficiente. Poiché la teologia è più ancora una fenomenologia della carità e l’atteggiamento primordiale del teologo è questo meravigliarsi, ancor più esclamativo che interrogativo. In un mondo così violento ove la costatazione dell’amore non può passare se non per lo stupore, « da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,35). La teologia si fa così.

P.A. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di Teologia fondamentale, BTC85, Queriniana, Brescia, 2000 ; p. 70-77 ; su Gregorio da Valenza, p. 72 ; n 24) Id., « L’affidabilità dell’amore », Anthropotes 33 (2017) ; p. 25-43.
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