Nuova teologia eucaristica (/8): Eucaristia, questione di “forma” (L. Della Pietra – /2)


rituum

La seconda parte del contributo di L. Della Pietra trae le conseguenze attuali della ripresa del dibattito sulla “forma fondamentale” della eucaristia, rivelandone radici antiche e attuazioni pastorali di grande rilievo, in profonda continuità con il progetto conciliare di “riforma” della liturgia. Ne derivano considerazioni acute e di grande respiro.

Eucaristia: questione di “forma”.

L’amnesia di un antico dibattito e le sue attuali implicazioni (/2)

 

Quale forma per la partecipazione?

Lo sguardo a questo dibattito interno al Movimento liturgico permette alcune osservazioni importanti anche oggi per la riflessione teologica circa i sacramenti e l’Eucaristia in particolare.

  1. Innanzitutto il superamento del minimalismo nella pratica liturgica e nella teoria che induce a ripensare l’“essenziale” del sacramento. Solo una lettura distratta o distorta può cogliere in Guardini e Jungmann una presa di posizione unilaterale tendente a minimizzare o negare il valore del punto di vista altrui. Pur indicando come forma fondamentale uno il pasto e l’altro la preghiera eucaristica, entrambi non trascurano di ricordare la presenza significativa di altri elementi. Entrambi superano la concezione limitata delle parole essenziali o necessarie per il sacramento e abbracciano una visione ampia, estesa, ricca di forma (sia essa intesa come pasto o come testo anaforico). La ricerca della forma, quindi, ha permesso di superare la tendenza a esaltare del sacramento solamente ciò che consente la validità mantenendo, invece, tutto ciò che in esso viene chiamato in gioco. Il dato rituale si impone sulla preoccupazione meramente giuridica.

  1. Tale acquisizione o consapevolezza fa sì che si possa rivedere una certa teologia che dei sacramenti considera solamente il contenuto. Partecipare all’azione rituale significa innanzitutto accogliere la qualità formale della celebrazione ovvero accettare ed entrare globalmente nell’immediatezza del linguaggio rituale per poter accedere al di più teologico. Tale partecipazione a tutto il quadro rituale nel suo darsi formale è la garanzia dell’efficacia del sacramento1. Gesti e testi, per chi li attraversa corporalmente, sono innanzitutto esperienze e in quanto tali creano lo squarcio vitale sul mistero. In questo senso, sono forme sia il pasto, sia il discorso anaforico nei suoi contenuti e nel suo darsi formale dove l’agire si compie nel dire. Parole e gesti, entrando nel circuito vivo dell’azione simbolica, trasformano la realtà con nuove e inedite attribuzioni di senso.

3. È questo l’obiettivo audace dell’idea di partecipazione che emerge da SC 48 allorché si afferma che il mistero eucaristico necessità di essere compreso («id bene intellegentes») «per ritus et preces»: non soltanto e non tanto nei suoi riti e nelle sue preghiere, ma attraverso la complessa e delicata mediazione dei riti. La partecipazione attraverso il rito è la via regia per comprendere il mistero eucaristico mentre l’adesione puramente interiore e intellettuale risulta del tutto inadeguata allo scopo. Una partecipazione totale all’atto («conscie, pie et actuose») che non mira alla comprensione razionale dei concetti, ma che, piuttosto, si identifica con un “ingresso” globale nel mistero agendo secondo l’ordo stabilito. Oltre ogni tentazione intellettualistica e ogni attivismo partecipativo che indulge a ragioni politiche appiattendo la partecipazione liturgica sulla nozione di democrazia, l’actuosa participatio domanda alla comunità celebrante di aderire all’azione che si sta compiendo nella pluralità dei codici, dei ministeri, dei linguaggi. Solo in questo contatto di corpo e di cuore con la realtà del sacramento può darsi efficacia pastorale, un’efficacia garantita dalla stessa «rituum forma», come autorevolmente afferma SC 49. Il dettato conciliare e la concreta attuazione in termini di Riforma non fanno altro che recepire il lungo cammino del Movimento liturgico e la discussione sulla Grundgestalt eucaristica. Sarebbe un errore di imperdonabile miopia ritenere che la revisione rituale voluta fermamente dal Vaticano II sia fine a se stessa o ridurla ad un cedimento della Chiesa al mutare dei tempi e dei costumi. In realtà, proprio SC 49 afferma che in ragione dell’efficacia pastorale del mistero eucaristico che risplende e si dona nella forma rituale è necessario intraprendere un’opera attenta di rielaborazione rituale: affinché la forma meglio ancora possa rispondere a questa esigenza imprescindibile. Tra le righe il testo conciliare sembra ricordare che, se occorrono nuovi testi e nuovi gesti, è altresì urgente coltivare una migliore predisposizione all’azione rituale, al linguaggio liturgico, alla partecipazione al mistero salvifico «per ritus et preces». Non è stata la liquefazione dei riti nell’elargizione dei contenuti l’obiettivo della Riforma, ma l’acquisizione della capacità di stare nella forma rituale e non semplicemente davanti ad essa assumendola fino in fondo quale fons della vita cristiana e non secondaria espressione di una verità già data.

Da questo percorso di riflessione è possibile pervenire ad un punto irrinunciabile che sostiene tutta la questione della forma: ciò che viene solitamente emarginato in quanto ritenuto puramente esteriore e dunque accessorio, meramente espressivo e non necessario, viene finalmente riconsiderato in tutta la sua pregnanza antropologica e teologica. L’esperienza del pasto in quanto tale o il linguaggio non appaiono più semplicemente come mezzi per dire qualcosa, ma esperienze fondamentali, soglie vitali e non trascurabili attraverso le quali il credente può fare esperienza di fede. Ciò appare ancora più sorprendente se si pensa all’apporto singolare derivato dalla svolta linguistica e dalle scienze umane, in particolare dalla fenomenologia della percezione.

Scavare nelle riflessioni di uomini diversi per formazione e inclinazione come Guardini e Jungmann può essere uno stimolo fecondo anche per chi si interessa di liturgia nel XXI secolo. Il monito di entrambi, pur su terreni e punti di osservazione distinti, è quello di non pensare la liturgia al di fuori dell’azione liturgica e di non concepire il valore teologico del sacramento scavalcando il sacramento stesso. L’interesse per la forma è soprattutto opposizione ad una riduzione concettuale o teorica di ciò che per sua natura si dà all’uomo nella varietà e nella complessità delle mediazioni.

Eucaristia: questione di forma

Tale guadagno appare ancora più prezioso se si bada al fatto che la disputa sulla forma si è incentrata proprio sull’Eucaristia, apice dell’esperienza sacramentale della Chiesa.

Quali sono i guadagni di una teologia eucaristica che sappia guardare al sacramento a partire dal suo modo specifico ovvero quello rituale? Quali “contenuti” la “forma” riesce a lasciar passare? I punti seguenti sottolineano alcuni elementi teologici di rilievo che la forma rituale eucaristica consente di individuare.

  • «Prendete e mangiate». Il pasto come forma fondamentale. La considerazione del pasto come forma fondamentale dell’Eucaristia in Guardini ha contribuito alla valorizzazione della convivialità per la comprensione del sacramento. Le sue osservazioni mirano a salvaguardare il fenomeno per riportare alla luce il valore sacramentale insito nell’azione di prendere cibo comunitariamente. L’insistenza con la quale Guardini invita a riconoscere la forma in «ciò che appare ai sensi» indica appunto l’apprezzamento per il fenomeno rituale – e del mangiare e del bere in questo caso – come punto iniziale e imprescindibile di ogni edificio teologico. Sedere a mensa, spezzare il pane, condividere il calice, non sono segmenti superflui di una ritualità inutile e ininfluente, ma momenti “essenziali” della forma del pasto che domandano per loro natura la partecipazione ad essi per entrare in comunione di vita con il mistero di Cristo. Il riferimento al dato biblico non può essere disgiunto dal ricorso alle competenze che rileggono l’esperienza del pasto dal versante simbolico: nel mangiare in comunione, infatti, si ha una singolare forma di rapporto con il reale, di sintonia con il mondo, di donazione e di condivisione. Il frutto più maturo (e audace) di questa comprensione è il recupero vistoso, soprattutto con l’editio typica tertia del Missale Romanum. L’esperienza completa del mangiare e del bere, in obbedienza all’ordine di Cristo, oltre a far cadere la barriera tra la comunione del sacerdote e quella dei fedeli, sottolinea la dimensione conviviale sancita chiaramente da SC 47. Ciò che appare come una benigna concessione a ben vedere deriva dalla consapevolezza che l’atto del mangiare e del bere qualifica significativamente l’approccio all’Eucaristia.

  • «Rese grazie». L’anafora come forma fondamentale. L’attenta esplorazione di Jungmann sull’anafora come forma dell’Eucaristia approda a intendere la preghiera eucaristica come componente necessaria per stabilire il nesso tra l’azione rituale e l’evento pasquale che il rito celebra. Superato ogni contrasto tra cena e sacrificio in Jungmann rimane fondamentale il tentativo di cogliere il valore teologico dell’anafora nei suoi molteplici aspetti di memoria e rendimento di grazie, di epiclesi e di intercessione. Un contributo non indifferente alla teologia affinché si metta alla scuola della lex orandi per cogliere i “contenuti” a partire dalle strutture letterarie che consentono alla Chiesa di “fare Eucaristia”. Una teologia sacramentaria veramente all’altezza del suo compito non può esimersi dall’interrogare i testi delle preghiere eucaristiche e in essi le dinamiche di anamnesi ed epiclesi che raccordano l’agire ecclesiale all’agire di Cristo. Nell’intreccio letterario formato dalle espressioni di lode, di narrazione, di offerta, di invocazione, di memoria e di offerta, l’assemblea celebrante per bocca di colui che la presiede confessa la sua fede e si riconosce nella sua identità come comunità “graziata” da Dio. La preghiera eucaristica, quindi, è un dire/fare complesso, un’actio articolata, dinamica e al contempo rigorosa nel suo ordine, dove la Chiesa proclama la Pasqua del Signore e invoca il suo perenne attuarsi nel tempo.

  • Il sacramento tra forma e rito essenziale. La riscoperta della forma rituale ha notevolmente depotenziato ciò che nel regime teologico classico appariva centrale in quanto necessario ovvero la triade composta dall’unico ministro deputato a dire sulla materia le parole che costituiscono la forma. Il rimanente dell’azione non apparteneva al de necessitate del sacramento. Tale concezione, ancora presente nella tematizzazione dei sacramenti nel Catechismo della Chiesa Cattolica, segue una logica dogmatico-giuridica che nell’affermare l’esistenza di un’essenza del sacramento di fatto nega l’essenzialità degli altri elementi. L’interesse teologico per la forma, invece, riconosce che dove ci sono riti non c’è posto per le essenze e che la sostanza contenutistica del sacramento è sprigionata dalla ricchezza linguistica (verbale e non verbale) del rito mai riducibile ad un’essenza a priori. In questo senso, l’Ordo Missae presenta, conformemente alle ragioni esposte in SC 47-58, un’articolata scansione di sequenze rituali dove nessun elemento può essere ritenuto ininfluente in ordine alla efficacitas del sacramento. È singolare che nella costituzione liturgica l’abbondante ascolto della Parola di Dio, l’omelia come «par ipsius liturgiae», la preghiera universale, la lingua viva, la comunione «ex eodem Sacrificio» al pane e al vino, l’unità delle due mense e la concelebrazione, siano atti che qualificano teologicamente l’Eucaristia e non semplici accessori che rivestono un nucleo.

  • «Sollicitudo de omnibus expressionis formis»2. Che il dato teologico possa essere rinvenuto nelle forme rituali e non a prescindere da esse (o peggio sopportandole) è il guadagno fondamentale di questo percorso. Questo sguardo disinvolto sul rito domanda necessariamente di cogliere l’esperienza liturgica come realtà composita e articolata nella pluralità dei codici espressivi. Il “gioco linguistico” del rito non si assesta al livello minimo del verbale, ma intreccia tutta la gamma del non verbale nelle dimensioni dello spazio e del tempo e lo stesso verbale si fa parola detta, cantata, taciuta, nonché inno, acclamazione, invocazione. Contro ogni minimalismo, la forma rituale chiede all’uomo celebrante di attraversarla percorrendo le vie lunghe dei linguaggi certamente per esprimere la fede, ma prima ancora per lasciarsi imprimere la salvezza. In altri termini, nel rito la sensibilità e la percezione del mondo non vengono abbandonate per ricercare il trascendente, ma riorganizzate interrompendo l’uso ordinario nella logica della differenza. Solo un neo-imperialismo della parola intesa come unica custode e abile veicolo del contenuto può soffocare la forza del rito che, per sua natura, implica la presenza del corpo con tutte le sue facoltà.

Dare credito alla forma rituale del sacramento, e dell’Eucaristia in particolare, è un impegno audace che chiama in causa la Chiesa se non vuole smentire la dimensione celebrativa quale fonte e culmine della vita cristiana (SC 10). Non basta agire, ma occorre anche credere nel valore teologico dell’azione sacramentale. Sarebbe riduttivo circondare la prassi dei sacramenti di attenzioni meramente rubricali e poi nella riflessione teologica, nella catechesi e nei cammini spirituali trascurare del tutto l’incidenza del lato “apparente” del sacramento. Questo perché l’apparenza del sacramento è davvero il suo apparire, l’epifania della grazia. Per consentire ciò, è quanto mai urgente l’integrazione tra teologia, antropologia, storia, filologia e l’intreccio tra le rispettive competenze per indagare il fenomeno liturgico senza pregiudizi antirituali o preclusioni di carattere concettuale. È in gioco l’incontro con l’Eucaristia nel suo terreno originario e costitutivo, in quella trama di simbolico e narrativo, di gestuale e di verbale, che offre autorevolmente il contenuto del sacramento. Lo offre ad una comunità convocata che si lascia di volta in volta costruire dal Corpo del Signore, dalla Parola che ascolta, dalla lode che innalza, secondo l’esortazione di Agostino ad competentes a proposito della petizione sul pane contenuta nell’oratio dominica:

L’Eucaristia è dunque il nostro pane quotidiano, ma dobbiamo riceverlo non tanto come ristoro del corpo, quanto come sostegno dello spirito. La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti a essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo. Allora esso sarà veramente il nostro pane quotidiano. Ma anche ciò che vi spiego è pane quotidiano e così anche le letture che ascoltate ogni giorno in chiesa è pane quotidiano e l’ascoltare e recitare inni è pane quotidiano. Questi sono i sostegni necessari al nostro pellegrinaggio terrestre. Allorché saremo giunti nella patria, ascolteremo forse la Scrittura? Vedremo e ascolteremo lo stesso Verbo, lo mangeremo, lo berremo, come fanno gli angeli adesso. Gli angeli hanno forse bisogno di libri sacri, di commentatori, di lettori? Per nulla affatto. La loro lettura è la visione, poiché vedono la Verità in persona e si saziano alla sorgente dalla quale noi riceviamo solo delle gocce. Abbiamo dunque parlato del pane quotidiano, perché in questa vita ci è necessaria questa petizione3.

La conformazione a Cristo passa, dunque, attraverso la partecipazione al Corpo e al Sangue ricevuti nella celebrazione eucaristica dove accanto ai santi doni anche le letture bibliche, l’omelia, le preghiere e i canti sono pane quotidiano che alimenta il credente e lo irrobustisce nel cammino. È nella fedeltà all’«id quod sumimus», ripetuto nella forma eucaristica, che la Chiesa riconosce il suo Signore e diventa tutt’uno con lui.

La lezione che ci proviene da questo dibattito interno al Movimento liturgico del XX secolo, ma con sorprendenti radici nell’antichità e promettenti risvolti nell’attualità, induce ad una profonda considerazione dell’istanza fenomenologica. Solo la “sosta” nel dato fenomenico della forma rituale, la capacità di “pensiero totale” (Casel), la partecipazione piena all’azione possono garantire una degna appropriazione del contenuto teologico. Così la Chiesa grazie alle apparenze della forma rituale può riconoscere con rinnovato stupore, arrendevole confidenza e immutata passione per le cose di Dio e dell’uomo il mistero del suo Signore che a lei incessantemente si dona.  ( Fine /2 )

 

1 Cf. A. Dal Maso, L’efficacia dei sacramenti e la «performance» rituale. Ripensare l’«ex opere operato» a partire dall’antropologia culturale, Edizioni Messaggero – Abbazia di Santa Giustina, Padova 1999, 352-358.

2Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, Esortazione apostolica post-sinodale sull’Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa, n. 40.

3Agostino d’Ippona, Discorso 57, 7,7.

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