Onore al bambino Monti che grida: il calcio è nudo


Il gioco, il rito e il vizio
Da tempo si riflette sul valore rituale della “partita di calcio”. E questo è bene. Come buona è la forza con cui si può giocare una partita di calcio, da protagonisti, o assitere a una partita di calcio, da spettatori. Ma l’intreccio insano tra interessi finanziari sproporzionati, asservimento alle logiche delle scommesse e verbalizzazione a oltranza sulle gare, con previsioni, discorsi in diretta e commenti emozionati  a non finire per ore, per giorni e settimane, questo è non solo troppo, ma è oggettivamente un male. Il potere simbolico del calcio è diventato esorbitante e deve essere arginato, ostacolato, sanzionato. Questo ha bisogno anche del coraggio istituzionale: è evidente che ogni uomo politico, se si mette di traverso al mondo del calcio, perde consenso, perde voti, nell’immediato. Per questo, da molto tempo, è davvero stucchevole vedere la corsa con cui molti uomini politici “si mostrano” allo stadio o alle infinite trasmissioni che ne derivano e che lo amplificano. E bisogna rendere onore al coraggio con cui l’attuale Presidente del consiglio si è esposto a ipotizzare un campionato “fermo per due o tre anni” in modo da provvedere con calma alle sue perversioni. 

      Il problema, tuttavia, va ben al di là di un pur giusto e caraggioso atto di lucidità istuzionale. Occorre guardare più direttamente alle coscienze e ai sentimenti dei molti “tifosi”. Qui, io credo, dovremmo tutti assumere un atteggiamente diverso.  E sarebbe necessario non soltanto non lasciarsi ingannare da una grande messa in scena di rivalità che non esistono e di eroismi incosistenti, ma anzitutto non permettere alla nostra testa e al nostro cuore di applicarsi per più di qualche minuto alla settimana a tutte queste cose da poco. Tutte le parole, tutti i sentimenti, tutti gli atti di culto che ruotano intorno al mondo del calcio devono essere profondamente ridimensionati, rivisti, riequilibrati, comunque moderati. Una ecologia della mente e del cuore lo richiede. Non sono le scommesse o le violenze il problema più grosso del calcio. Sono il nostro analfabetismo rituale, la nostra fragilità simbolica, il nostro essere così irrimediabilmente “creduloni”. Da un lato è il “sistema” a chiedercelo: dovremmo sempre poter comprare uno shampoo o un gelato, se è un “campione” a farne uso in uno spot. Se invece sapessimo moderare il nostro investimento simbolico nel calcio, potremo forse rialzare la nostra testa anche nel resto della nostra esperienza, orientando il nostro sguardo dagli idoli alle persone. Forse la icona più promettente di questo passaggio è proprio anticipata dalla “mossa” del nostro attuale Presidente del Consiglio. Da Capo del Governo invita a considerare di non giocare il campionato per alcune stagioni. Quanta differenza dal suo predecessore, che aveva portato linguaggio e denominazioni calcistiche (azzurri, forza italia, scendere in campo…) dal calcio al Governo, con tutta la dose di mistificazione e di illusione che questa terminologia ha potuto determinare. Grazie al fatto che poteva contare su un popolo anzitutto di “tifosi”.
      Per resistere a questa pressione violenta occorre resistere alla ipersimbolizzazione del calcio. Occorre ridimensionarne le immagini e l’immaginario. Occorre recuperare una sobrietà e una magnanimità da tempo perdute. E questo lo dico perché il calcio mi piace. Ma mi dispiace quando esorbita dalla sua funzione di gioco di socializzazione e diventa ideologia, mistificazione, trucco per far soldi o principio di conflitto insuperabile. Per tutto questo occorrono “simboli più forti”. A questi simboli più alti e più grandi devono oggi essere iniziati non tanto i bambini, quanto soprattutto gli adulti. 

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