Populismi senza mediazioni: contro il politico di mestiere


salvini-grillo-00065

Tra le diverse caratteristiche del populismo, due balzano agli occhi in modo dirompente: la pretesa di “soluzioni immediate e immaginarie” ai problemi reali, e la critica superficiale al politico di mestiere. Da un certo punto di vista sono argomenti che anche si sovrappongono: poiché penso di avere una soluzione facile che il politico non considera, posso allo stesso tempo far valere la mia soluzione contro la sua e contestare il suo “mestiere” a favore della mia “inesperienza”. Nei primi due giorni di campagna elettorale abbiamo già visto presentarsi due dei 4 volti del populismo italiano: la intervista di Salvini dell’altro ieri e le dichiarazioni di Beppe Grillo di oggi meritano un commento. Per ora sia il repertorio navigato e piuttosto ingiallito di Berlusconi, sia lo stile più diretto e più politico di Meloni non si sono ancora troppo scoperti. Merita invece fermarsi sui primi due.

La rassicurazione corporativa di Salvini

Quando abbiamo visto, fino a tre anni fa, M. Salvini ministro degli interni, ci eravamo tanto stupiti di una singolarissima forma di “adesione” che il ministro ostentava a (quasi) tutti coloro che incontrava. Vestiva come loro. Come ministro diventava, di volta in volta, pompiere, finanziere, carabiniere, paracadutista, agente di polstrada, guardia giurata, forestale, oppure crocerossino, volontario della protezione civile o tassista. Come Zelig “diventava coloro che incontrava”. Questo è un aspetto fondamentale del populismo, che identifica la politica con il soddisfacimento di tutti i bisogni. Non c’è alcuna mediazione. La cosa appare tanto più chiara per il fatto che io, Salvini, non sono “vestito da  ministro”, come fa una “alterità istituzionale”, chiamata a mediare essendo “diversa”, ma Io stesso mi identifico in ogni categoria che merita tutela. Questa tecnica, nel giro di una generazione, può far sparire completamente la rilevanza delle istituzioni, che qui vengono confuse con il soggetto che tutela le singole categorie. E’ un modo di far politica che rinuncia a fare politica, la quale è, appunto, contemperamento di diversi interessi.  La illusione che ogni categoria inizia a coltivare, ossia quella di essere “immediatamente assunta come criterio politico”, corrisponde ad una “tecnica narrativa” che demonizza ogni mediazione come “gioco sporco”, come “azione sottobanco”, come “menzogna” o “interesse privato”. Perché la politica non cada in queste accuse, si riduce ad essere semplice somma di interessi privati. Per questo non ha statura pubblica e si appiattisce sulle singole comunità, su chi ha la voce più forte. Se gridano i tassisti, li compiace, ma se gridano di più i dipendenti Ama, compiace anche loro, e se gli autisti della metro alzano la testa, via accontentati…e avanti così. I vincoli di bilancio si scavalcano e si demonizza pure chi li ha messi. Le lobby diventano la misura della politica.  Questa non è una novità, mentre la forma estenuata del populismo deriva sempre da un “tradimento” del mestiere politico, che si riduce ai “conti del mestierante”. D’altra parte sarebbe ingiusto negare che il “linguaggio populista” sia trasversale a tutte le forze politiche e contamini moltissimi tratti delle politiche nazionali, internazionali e locali. Un severo controllo delle “derive populiste del linguaggio” (“un milione di posti di lavoro”, “la buona scuola”, “1000 euro di pensione  minima a tutti”…) dovrebbe essere una disciplina comune a chi fa politica per mestiere. La irruzione di schemi commerciali e pubblicitari, almeno a partire dal 1995, non ha fatto bene alla paziente mediazione politica italiana.

La critica di Beppe Grillo a Di Maio

Oggi abbiamo letto una battuta pesante e vendicativa con cui il “garante” del M5S ha liquidato Luigi di Maio, dicendo questa frase, che non è parola di un illuminato, ma cionondimeno risulta pur sempre illuminante:

“C’è gente che fa questo lavoro, entra in politica per diventare poi una “cartelletta”. Giggino “a cartelletta” ora è di là che aspetta il momento di archiviarsi in qualche ministero della Nato.Ed ha chiamato decine e decine di cartellette che aspettano come lui di essere archiviate a loro volta in qualche ministero”.

Il secondo tratto tipico del populismo è la denigrazione della politica come mestiere. Il primo, nel recente passato, è stato Berlusconi. La stessa cosa fa da tempo Grillo. Ora anche verso i suoi. Tutti “cartellette”: con lo stesso moralismo di Travaglio, ma con molto più potere del giornalista. Il giudizio del comico padrone, però, è singolare. Al di là del giudizio che si può dare sulle molte opere di L. Di Maio, non si può negare che, dopo i suoi inizi solo aggressivamente populisti, esattamente come il suo padrone, l’attuale ministro degli Esteri ha capito che “non si nasce imparati” e che in politica non vale il proverbio marinaresco ligure: “stuccu e pittua, bella figua” . E che quindi, per fare politica, ci vuole un mestiere, ossia l’esercizio di un ministero che chiede disciplina, preparazione, criteri di discernimento, conoscenza delle lingue, contatti, influenze, attese e decisioni. Forse per fare il comico se ne può fare a meno, ma per fare politica, o si entra in una disciplina di mestiere o si fanno continui danni, sempre maggiori. La storia del M5S è la storia di un populismo che ha voluto “fare politica” senza fare politica. E che poi ha capito che, per fare politica, bisogna sottoporsi ad un duro apprendistato. L’ accusa che Grillo rivolge a Di Maio contiene una violenza, che è tipica del populismo. La pretesa di fare politica senza imparare come si fa.

Il mestiere del politico

Non si fa politica travestendosi come Zelig, per dare ragione a tutti quelli che alzano la voce (e solo a quelli); non si fa politica con una certa patina mistica sovrapposta ad un pensiero comico.  Occorre una mediazione, un distacco, un rispetto e una dedizione che non trapela mai né dalle parole rudi e ruvide di Salvini né dai vaticini poco elevati del “garante”. Abbiamo bisogno di politici “di mestiere”, contro queste derive tanto più piene di illusioni quanto più violente e laceranti. Anche Giuseppe Conte, che non è politico di mestiere, ma che è rimasto nella sua stessa autocomprensione “avvocato degli italiani”, dopo la crisi del governo Draghi è sembrato a tutti sintonizzato più su una “causa per risarcimento dei danni morali” che sul piano di una elaborazione del giudizio politico su quanto era avvenuto. Una dimensione impolitica, che non vuole “sporcarsi le mani col mestiere” diventa la illusione di una possibile immediatezza dell’atto politico. “Abbiamo abolito la povertà” era il linguaggio del Di Maio “prima maniera” (ma forse la battuta gliela aveva scritta Casalino, che sa comunicare,  ma non ha la responsabilità di quello che comunicano gli altri per sua grazia (o colpa).  Ora di Maio ha imparato a “portare la cartella”, e parla in modo molto più misurato, perché sa di doversi preparare e di non poter “sparare battute” davanti a Lavrov o a Biden o a Draghi. Oggi di Maio assomiglia più a Mastella che a Di Battista. Ha capito che per fare politica non basta viaggiare, raccontare e twittare. Questo non è poco, anche se nell’immediato non gli garantisce nulla. Forse è vero che la conversione durerà finché è ministro…ma non escludo che possa incidere più a fondo.

I 4 populismi (di Berlusconi, di Salvini, di Meloni e di Grillo) sono finzioni parapolitiche. Per difendersene bisogna smontarle chirurgicamente. E prenderne le distanze con assoluta determinazione. Perché le illusioni di immediatezza e di spavalderia incompetente facilmente diventano lacerazioni, alimentano false certezze e finiscono per degenerare in violenze, molto prima di quanto potremmo pensare. Ad un finto politico che dice “abbiamo abolito la povertà”, un vero povero, che non si sente affatto abolito nella sua povertà, potrebbe rispondere alla provocazione non solo a parole. Ma ad un Innominato Di Maio che forse ha iniziato a convertirsi, (se possiamo parlare di conversione in giacca e cravatta o professionale), pur a rischio di scivolare verso il Principe Mastella, non corrisponde un cambiamento di sorta né nel “bravo” Salvini, né nel “griso” Grillo. Vedremo che cosa diranno e faranno Berlusconi e Meloni e a quali personaggi potremo avvicinare anche le loro prossime “fictions”.

 

 

Share