Procedure da riformare. La guerra senza fine di isolati soldati giapponesi
Le dimissioni di Marie Collins dalla Commissione vaticana che si occupa di combattere la pedofilia nella Chiesa ha sollevato un giusto scalpore. Anche il Segretario di Stato Parolin l’ha definita “Un modo per scuotere l’albero”. A me pare che si debba leggere questo gesto a partire da una spiegazione che la stessa Collins ha allegato alla sua decisione: ossia la difficoltà ad ottenere ascolto e risposte adeguate da parte di organi vaticani, in particolare dalla Congregazione per la Dottrina della fede.
A tal proposito mi pare fondamentale ciò che Marie Collins ha detto (nella intervista ad A. Tornielli) a proposito delle “procedure”. Ecco il testo, che presenta apertamente il punto-chiave della questione.
Un passo della intervista
Lei ha parlato di resistenze interne. Crede che la Curia stia resistendo alle nuove norme contro questo il terribile fenomeno degli abusi sui minori?
No, non credo che ci siano resistenze alle norme o ad azioni specifiche contro la pedofilia. Si tratta piuttosto delle sensazione che il lavoro della nostra commissione venisse considerato da alcuni come un’interferenza. Non so dire se questo faccia parte delle resistenze al Papa. Ho riscontrato piuttosto una riluttanza generale a collaborare.
Almeno un caso specifico però lei lo ha citato, sostenendo che è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: il mancato impegno da parte della Congregazione per la dottrina della fede a rispondere a tutte le lettere delle vittime…
Non voglio fare nomi di dicasteri. Ma questo sì, è un caso specifico. Se sei una vittima, un sopravvissuto e scrivi per raccontare la tua storia chiedendo aiuto e giustizia, e vedi che non ti rispondono, tu vieni nuovamente ferito. Questo si fa fatica a capirlo.
Eppure sia Benedetto XVI che Francesco hanno incontrato le vittime, hanno dato loro ascolto, le hanno ricevute.
Francesco aveva detto di sì alla nostra raccomandazione. Chiedevamo che si rispondesse sempre e direttamente alle singole vittime. Il Papa era d’accordo, eppure alcuni non hanno voluto seguire questa indicazione.
Qual è la ragione del rifiuto?
Hanno la loro procedura interna per sbrigare la corrispondenza, e questa procedura non prevede che si risponda direttamente alle vittime, un compito che spetta ai vescovi locali.
Come ha reagito lei a questa notizia?
Non ce l’ho fatta a sopportare questo atteggiamento verso le vittime. Mi sembra una mancanza di rispetto e io non posso restare, la gente deve sapere che ci sono persone che fanno queste difficoltà.
Riforma della Chiesa e revisione delle procedure
Questo testo è molto interessante, perché mette in luce come vi sia una connessione decisiva tra “riforma della Chiesa” e “cura per le procedure”. Marie Collins ha colto con molta lucidità una contraddizione tra “affermazioni di principio” e “prassi acquisite”. Questa osservazione, che ritengo del tutto preziosa, ci permette di ampliare il discorso e valutare, alla luce di questo episodio, l’impatto complesso che le Riforme di papa Francesco hanno sul piano della “recezione ufficiale”. La reazione della Collins, riguardando un tema delicato come la “lotta alla pedofilia”, ha ottenuto immediatamente un risalto e un interesse particolare. Ma ciò che è stato da lei denunciato può essere esteso, con grande facilità, alla recezione pastorale e giuridica di “Amoris Laetitia”, al modo di valutare le procedure in campo educativo e formativo, al modo di considerare le procedure di iniziazione o di riconciliazione. Il punto su cui vorrei soffermarmi può dunque essere così riassunto. Riforma della Chiesa non è solo “riforma della mentalità”, ma “riforma delle procedure”.
La risposta alle vittime e la sanzione all’adulterio
Marie Collins è giustamente preoccupata per una Chiesa che non risponde. La Congregazione per la Dottrina della fede sembra non percepire che “il modo della risposta” fa parte del suo contenuto. E che una Congregazione che dice “per consuetudine a queste lettere (di denuncia di violenze su minori) risponde il Vescovo, non la Congregazione” fa una asserzione forse sensata, ma che suona come prova insopportabile di disinteresse e di indifferenza. Come è possibile che non si noti, proprio in Congregazione, questa differenza madornale? Come è possibile che un (altro) papa abbia dato ad una Commissione, nel 2007, il potere di rispondere da Roma a tutte le questioni che riguardano il Vetus Ordo, scavalcando tutte le competenze episcopali al riguardo, e che invece in materia di pedofilia il centro curiale lasci ai singoli vescovi di dire ogni parola di attenzione e di conforto? Quali priorità e quali dimenticanze propongono queste differenti procedure? E’ evidente che in questo caso la prima mentalità a dover cambiare è quella delle procedure.
Allo stesso modo si potrebbe notare una medesima inadeguatezza procedurale in tutti coloro che, di fronte ad Amoris Laetitia, ne hanno recepito il testo solo con la preoccupazione di “non toccare le procedure”. In realtà, legare la dottrina ad una procedura contingente è il modo più facile per renderla incomunicabile. Il lavoro dei Vescovi al Sinodo e poi il testo finale di papa Francesco innovano invece sul piano di un profondo rinnovamento di procedure di accompagnamento, discernimento e reintegrazione. Chi resta legato all’aut-aut comunione/scomunica – che è la procedura tipica con cui la Chiesa, in una società chiusa, affronta le crisi familiari – si perde tutta la bellezza del testo, la novità dell’approccio e la fedeltà alla tradizione. Ma il deficit è, ancora una volta a livello di “rigidità procedurale”. E il paradosso è che siano oggi proprio i giuristi – che di procedure dovrebbero essere maestri – a risultare particolarmente rigidi e miopi a questo proposito.
La resistenza esplicita e la resistenza implicita
Dunque la questione sollevata da Marie Collins va molto al di là della pur importante lotta alla pedofilia nella Chiesa. Essa riguarda un deficit strutturale della Chiesa contemporanea, che Francesco ha messo in chiara luce. E qui si deve fare una doppia considerazione, che aiuta a comprendere meglio anche le diverse resistenze al pontificato e al suo slancio riformatore.
Da un lato, infatti, e sarebbe ingenuo non accorgersene, vi è il numero di coloro che si oppongono apertamente e contenutisticamente alla Riforma. E trovano tutti i mezzi, procedurali o meno, per ostacolare il cambiamento e la conversione della Chiesa.
Ma vi è anche un certo numero di soggetti – a diversi livelli della gerarchia – che sono disposti a recepire i contenuti nuovi, ma lo fanno senza alcuna elasticità sul piano delle procedure.
Questo impone, evidentemente, di considerare che la Riforma della Chiesa si fa anche riformando autoritativamente le procedure. Se si lascia la procedura nella disponibilità dei singoli soggetti, è facile che il sistema si paralizzi. E che, in un sistema paralizzato, prevalgano, come sempre, gli istinti peggiori. La resistenza sulle procedure può essere in buona fede. Ma solo una normativa esplicita diversa è in grado di arginarla in modo sostanziale. E di consentire percorsi comuni di integrazione e di confronto.
Magistero negativo e magistero positivo
Va aggiunto che una certa prassi “tuzioristica”, che si dà una norma procedurale rigida a salvaguardia della “verità” (e della istituzione) corrisponde ad un modo di comprendere la stessa funzione del magistero che da secoli si interpreta come “magistero negativo”. Questa grande tradizione ha compreso e sviluppato la funzione magisteriale come “residuale”, lasciando un largo campo di libertà agli altri soggetti di autorità. Il magistero parlava poco e solo su cose importanti. Per lo più taceva. E questo era funzionale ad una società chiusa e ad una Chiesa che si identificava con la società. Oggi, da almeno un secolo, non è più così. Il Magistero parla molto, forse anche troppo, e ci si aspetta che dica la sua pressoché su tutto. Questo non è un fatto incontrastabile, ma del quale occorre tener conto. Se proprio in un campo delicato come quello della “lotta alla pedofilia” si assume – anche in buona fede – un approccio da “magistero negativo”, si sbaglia registro e si priva il soggetto che ha subito violenza di una parola diretta e immediata di conforto, senza nulla togliere alle inevitabili competenze locali, che tuttavia, proprio in questo campo, non possono essere mai l’unica istanza. Le “procedure magisteriali” fanno parte della storia del magistero. Oggi più che mai. E non è un caso che a presiedere la Commissione che si occupa di questa materia sia propria l’Arcivescovo di Boston: chiunque abbia visto “Il caso Spotlight” sa di cosa si tratta e ha capito che dietro ai casi di “pedofilia” vi è un problema di comprensione del ruolo della autorità della Chiesa in rapporto ai diritti dei giovani battezzati e alla parità di trattamento in campo civile.
Il bravo soldato giapponese e le “prassi di pace”
Vorrei chiudere con una immagine. Come negli anni 80, dopo quasi 40 anni dalla fine della II guerra mondiale, si trovarono, su atolli del Pacifico, fedeli soldati dell’Imperatore del Giappone, che ancora difendevano l’impero dal pericolo americano, così oggi nella Chiesa vi sono isolati funzionari, fedeli alla loro idea di papato (ma non al papa reale) che in buona fede applicano le procedure come se fossimo ancora in guerra con il mondo moderno, con i diritti delle donne e delle vittime, con le pretese degli immigrati e dei conviventi, con le confusioni dei divorziati e degli omossessuali, con le alterazioni delle nascite e delle morti. In realtà da 50 anni abbiamo fatto pace con tutto ciò. Non con le problematiche spinose e ardue che sollevano le novità, ma con la pretesa che una “procedura romana” sappia a priori inquadrare e giudicare ogni cosa. Riducendo ogni fenomeno alla sua struttura ideale, queste procedure tengono lontana la realtà e immunizzano la Chiesa dal sentire su di sé l’odore del proprio popolo.
Dobbiamo riaccompagnare i nostri fedeli soldati giapponesi, non importa se con cappa magna o con colletto romano, con giacca e cravatta o con maschera di vergogna, alla bella realtà di una Chiesa capace di accompagnare, discernere e integrare tutti. Proprio tutti, senza esclusione: soldati giapponesi compresi.