Processo sinodale alla prova del codice/2


Ecco la seconda conferenza tenuta presso il “Centro Hurtado”, per il ciclo “Martedì alla Gregoriana”, nell’aprile del 2022 da parte di Andrea Grillo (la prima, tenuta dal prof. P. Consorti, si trova al post precedente, e si può leggere qui)

Due dogmatiche “sfasate” e il cammino sinodale

1. Premesse

Nel titolo generale, che comanda la conversazione di oggi (“Processo sinodale alla prova del codice”) ci chiediamo: chi mette alla prova chi? Il codice di diritto canonico mette alla prova il Sinodo o il Sinodo mette alla prova il codice?

Da un lato è facile farsi rassicurare dal codice, per intendere in modo riduttivo il Sinodo: un sinodo a misura di codice è una cosa troppo facile, che si maneggia in modo lineare e i cui risultati sono già tutti previsti in partenza.

D’altra parte è altrettanto facile idealizzare il Sinodo “veluti Codex non esset”, e pensare che la legge sia quasi un “valore residuale” nel cammino ecclesiale di riforma, una sorta di “conseguenza esterna”, una volta acquisita una nuova comprensione nel cuore o nella mente.

Per non cadere in queste due diverse ingenuità, vorrei muovere da alcune “auctoritates”, che hanno già riflettuto sulla stretta relazione tra “chiesa in uscita” e “competenza giuridica”, per esaminare poi non solo il “dispositivo di blocco” che paralizza la Chiesa cattolica, ma in quali ambiti la tensione tra “dogmatiche giuridica” e “dogmatica teologica” si mostra più evidente, fino a generare vere e proprie forme di “sfasatura” che chiedono, anzitutto al Sinodo dei Vescovi, di provvedere con saggia urgenza.

2. Due testimoni: Fantappié e Boeckenfoerde

Anzitutto vorrei soffermarmi su una affermazione di uno storico del diritto canonico, che da molti anni sottolinea la arretratezza del diritto canonico rispetto alla teologia (C. Fantappié, di Per un cambio di paradigma, Bologna, EDB, 2019, p. 175):

“Il paradosso storico è che, mentre il magistero della Chiesa, dalla fine dell’ottocento in avanti, si è aperto a una seria e impegnativa riflessione sull’interpretazione dei testi biblici e teologico-dogmatici, nel campo del diritto canonico questa assunzione di consapevolezza è rimasta lettera morta. Lo stridore si accentua ove si pensi che la scienza canonistica aveva per prima elaborato, insieme con la civilistica medievale, la teoria della interpretatio in senso creativo: ma oggi si trova ancora confinata nella lettera del codice”

La rievocazione di una “profezia canonistica”, che ha reso grande questa disciplina in un passato lontano, deve costatare una sorta di “chiusura positivistica” della canonistica cattolica contemporanea, che così risulta largamente incapace di proporre riforme, anziché eseguire esclusivamente compiti apologetici di ufficio.

Vi è poi la pretesa giuridica, inserita nel codice del 1983, di delimitare il campo di esercizio della parola teologica (W. Boeckenfoerde, Roma ha parlato, la discussione è aperta, Il Regno, 2005, 739-744)

Il lungo e dettagliato articolo presenta una sorta di “paradosso”, che scaturisce dalla analisi di un testo-chiave del Codice del 1983:

“Nel presente contesto va posto infine un quesito: in che misura la prospettiva qui delineata discorda o addirittura contrasta con il diritto canonico in vigore, in particolare con le norme che regolano l’esercizio del magistero nel Codice di diritto canonico del 1983 e con la categoria d’autorità ivi presupposta? Il can. 752 afferma: «Alla dottrina, che sia il sommo pontefice sia il collegio dei vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendendo proclamarla con atto definitivo» dev’essere prestato «un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà». A essere richiesta è un’obbedienza che presenta due aspetti intimamente connessi: sul piano intellettuale essa comporta un intimo consenso che sia in grado di far propria la dottrina enunciata; sul piano della volontà si traduce poi in un atto d’obbedienza di tipo esterno. Il legislatore si attende cioè che l’eventuale difficoltà a comprendere o condividere la dottrina enunciata venga superata grazie a un atto di volontà” (741).

È proprio quest’atto l’elemento che dovrebbe render possibile l’interiore assenso richiesto per garantire, a sua volta, l’ossequio religioso dovuto nel riconoscimento dell’autorità ecclesiale.

La doverosa prestazione d’ossequio prevista dal can. 752 rappresenta un elemento nuovo, introdotto nel Codice del 1983. Il codice pio-benedettino del 1917 stabiliva semplicemente l’obbligo d’evitare, oltre che l’eresia, tutti gli errori che fossero in un determinato modo a essa omologabili; la normativa comportava l’obbligo di attenersi alle costituzioni e ai decreti in cui la Santa Sede avesse condannato o riprovato come erronee determinate affermazioni dottrinali. Il codice pio-benedettino prevedeva cioè un obbligo limitativo e negativo: quello d’evitare eresie ed errori dottrinali condannati espressamente come tali; non contemplava invece l’obbligo positivo d’una prestazione d’assenso dovuta a tutti gli insegnamenti pontifici, senza ulteriore specificazione della rispettiva natura magisteriale” (742).

Se leggiamo infatti il testo parallelo nel Codice del 1917:

“Can 1324. Satis non est haereticam pravitatem devitare, sed oportet illos quoque errores diligenter fugere, qui ad illam plus minusve accedunt; quare omnes debent etiam constitutiones et decreta servare quibus pravae huiusmodi opiniones a Sancta Sede proscriptae et prohibitae sunt.”

Di qui Boeckenfoerde conclude con parole assai pesanti:

“L’obbligatoria prestazione d’assenso prevista dal codice in vigore è caratterizzata da una componente particolarmente significativa: comporta per i fedeli un obbligo d’omissione, cioè il dovere «di evitare tutto ciò che non concorda» con la dottrina enunciata (can. 752). Mentre nel codice precedente la normativa sulle affermazioni concernenti la fede contemplava solo l’obbligo d’evitare gli insegnamenti che vi fossero stati dichiarati come contrari, in quello del 1983 essa prevede l’omissione obbligatoria di tutto quello che «non concorda» con la dottrina insegnata. Ove si prendano seriamente in considerazione le conseguenze giuridiche che questa norma implica in quanto legge canonica, se ne dovrà dedurre che ogni parere contrario alla dottrina enunciata è del tutto irrilevante. Persino un’affermazione dottrinale attentamente analizzata e ritenuta tale da porsi come vincolante in coscienza può indurre, al massimo, alla sospensione interiore d’un assenso, cioè d’un atto che verrà poi comunque prestato in via eccezionale e sotto forma della cosiddetta obbedienza silenziosa. A esservi preclusa è ogni forma di critica o di obiezione esposta pubblicamente, persino nell’ambito di un dibattito scientifico.” (744)

E’ ovvio che questo modo di impostare la riflessione ecclesiale, se si estende al di là del magistero infallibile, determina una enorme riduzione della libertà di riflessione critica, di cui invece ha bisogno urgente il cammino del Sinodo. Una tale comprensione della “disciplina” può concepire soltanto che il magistero ascolti il popolo, e che il popolo ascolti il magistero, ma non prevede alcuna mediazione teologica per accompagnare tanto un ascolto quanto l’altro.

3. La questione centrale: la dogmatica teologica e la dogmatica giuridica sono sfasate

Occorre riconoscere che queste due testimonianze ci aiutano a distinguere tra la sfasatura “contingente”, che sempre si verifica nel percorso storico della Chiesa, e quella “strutturale”, che altera in modo fondamentale il ruolo stesso della mediazione giuridica in rapporto alla mediazione teologica. E’ stato proprio il processo di “codificazione” di inizio XX secolo ad aver persuaso settori rilevanti della Curia romana e dei canonisti, di aver conseguito, col codice, quella mediazione giuridica ultima, che poteva arrivare a capovolgere il rapporto tra teologia e diritto.

L’ombra dell’antimodernismo sulla codificazione canonica non è sufficiente a spiegare il fenomeno. Occorre considerare, in aggiunta, lo sviluppo “postconciliare” di un diverso antimodernismo, che ha assunto la figura della “ermeneutica della continuità” del soggetto ecclesiale, fino a teorizzare una sorta di “formula”, per bloccare in radice ogni possibilità di riforma e per controllare in modo efficace che anche la teologia si disponga a riflettere soltanto nell’ambito di questo recinto, predeterminato dal diritto. In questo modo, anche il Concilio Vaticano II veniva gradualmente svuotato.

L’antimodernismo di inizio secolo e il nuovo antimodernismo post-conciliare, che ha elaborato il “dispositivo di blocco”, trova nel codice una delle sue risorse più preziose: detto nelle parole di una sorta di “formula”, che compare sempre nei diversi documenti di una lunga fase della espressione magisteriale recente, si tratta di “negare di avere il potere, per mantenere tutto il potere”. Questo fenomeno ha assunto allo stesso tempo forma giuridica e forma teologica, creando, per così dire, una “sinergia” tra “dispositivo di blocco giuridico” e dispositivo di blocco teologico”. La sfasatura canonica così ha iniziato a diventare anche sfasatura teologica.

Da un lato il diritto sistematizzato nel codex diventa l’orizzonte normativo ultimo, rispetto a cui ogni riflessione teologica deve restare inclusa. Dall’altro la teologia del magistero tende a ridursi a “teologia di autorità”, fuori della quale non è dato riflettere pubblicamente al teologo. Il sistema si perfeziona per interventi progressivi, di volta in volta di carattere formale o di carattere tematico, tutti accomunati da questa sottolineature della “mancanza di autorità della Chiesa nel poter riformulare la propria classica autorità”. I documenti principali di questa progressione, che intervengono in materia sacramentale, o in materia morale, o in materia liturgica, sono: Inter Insigniores (1976), Nuovo Codice di diritto canonico (1983), Veritatis splendor (1993), Ordinatio sacerdotalis (1994), Ad tuendam fidem (1998), Liturgiam autenticam (2001), Summorum Pontificum (2007). Il ruolo che larga parte dei canonisti (ma anche di teologi) hanno svolto in questa progressione è a dire poco sconcertante. La esigenza di una “profezia canonistica” (e teologica) è stata tendenzialmente ridotta a zero. E si è attaccato l’asino dove voleva il padrone. Perché il Sinodo possa avere qualche speranza di incidere sulla realtà, occorrerà risvegliare la passione dei canonisti non solo per lo ius conditum, ma anche per lo ius condendum.

4. Tre “sfasature” da esaminare sinodalmente

Per chiarire meglio questo condizione di “sfasatura”, toccherò molto velocemente 3 campi di interesse giuridico e sinodale, che meritano un approccio diverso da quello al quale ci eravamo rassegnati per quasi mezzo secolo:

a) ministero e genere femminile: ogni riforma si è fatta con una “riforme del codice”. La preclusione al femminile è di autorità, diremmo “di default” e il codice, solo dal 1917, lo dice expressis verbis, trasformando una discussione “de impedimentis” in una definizione “di sostanza”. Tale definizione è fondata? O è fondata solo perché è ufficiale? Stando al Codice (can 752) ai teologi (e a tutti i cristiani) non resterebbe che accettare e o tacere…ma atto del legislatore e atto del magistero non si identificano del tutto: un “buco” magisteriale altera la compattezza giuridica e chiede che le nuove possibilità di ordinazione femminile (in primis al diaconato) non trovino come ostacolo una norma pensata con una mens da società chiusa e patriarcale.

b) matrimonio come atto e come processo. Lo sviluppo della teologia non corrisponde ad una evoluzione delle categorie giuridiche, se non in modo formale. Il “bene” del matrimonio contempla ora anche il “bonum coniugum”: questa novità sociale e culturale è stata integrata dal codice del 1983, ma in modo estrinseco, perché la considerazione del “male” del matrimonio prevede solo una attenzione per l’atto, non per il percorso personale della relazione. Un modello diverso appare con chiarezza in J-P. Vesco (ex avvocato civilista) che da Vescovo lavora sulla categoria sistematica di “adulterio” da ripensare, per capire il nuovo equilibrio tra dogmatica teologica e dogmatica giuridica. Solo una nozione “immediata” di reato di adulterio (e non “continuata”) è in grado di offrire una soluzione plausibile alla domanda di verità nella vita dei singoli e delle coppie. Una profezia canonistica al servizio di una nuova coscienza teologica.

c) Pena e penitenza: la dogmatica giuridica sul sacramento della penitenza e sul diritto penale è formalistica e premoderna. Questo impedisce letteralmente di “fare giustizia”, sia sul piano sacramentale, sia sul piano giudiziario. Curioso fenomeno: noi discutiamo delle grandi questioni con categorie del tutto inadeguate e con priorità sfasate. Se nella questione degli “abusi” ci si arrocca sul “segreto del confessionale” (con tutta la sua relativa serietà), si difende non la giustizia, ma il museo diocesano e si trascura il giardino della tradizione. Io non ho sentito un solo giurista (e nemmeno un solo teologo) recuperare il terreno più adeguato, ossia che la confessione (che resta segreta per il ministro) incide sulla vita del penitente. Si tratta di attivare due nuove (ma anche antiche) attenzioni:

– gli atti del penitente sono “materia” del sacramento, non si possono stilizzare troppo senza perdere il senso del sacramento, che non è solo “atto di perdono”, perché è diverso dal battesimo proprio per la sua “laboriosità”;

– il modo di pensare la relazione tra “crimine” e “peccato” implica una diversa rilevanza dei “terzi”. Pensare come “peccati contro Dio” i “crimini contro la persona” implica un difetto categoriale e istituzionale che non riesce più a “fare giustizia” alle persone: difende solo il “sacramento” come “cosa sacra”. Qui al canonista penalista è chiesto di aggiornarsi almeno alle acquisizioni del volume Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria.

Il sistema strutturato sul codice, così come è, appare in profonda crisi, perché alimenta in larga misura una pericolosa autoreferenzialità. Senza una profonda riforma del codice, il rischio è che esso, così come è, renda superfluo ogni intervento riformatore, ovviamente anche quello del Sinodo, che l’apparato burocratico non sopporta affatto, perché costituisce solo un elemento di disturbo, che minaccia di alterare quella “divina costituzione della Chiesa” che sembrerebbe custodita soltanto dal positivismo canonico, poco dinamico e per nulla lungimirante. Una “divina costituzione ecclesiale” che parlasse solo all’imperativo, per di più secondo imperativi troppo vecchi, e non conoscesse né l’indicativo, né il congiuntivo né il condizionale né l’ottativo, sarebbe solo una controfigura malriuscita della realtà di grazia e guarderebbe ad ogni “evoluzione”, ad ogni “segno dei tempi”, ad ogni “riformulazione” come ad un pericolo gravissimo, da evitare con la più grande determinazione.

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