Quale Riforma della Chiesa vuole Francesco? Dubbi e testi in vista della nuova Enciclica


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Mentre si avvicina il 4 ottobre, quando verrà resa nota la nuova enciclica “Fratelli tutti”, cresce nel dibattito ecclesiale e acquisisce autorevolezza una lettura del pontificato, in cui la Riforma della Chiesa si indentifica – e sostanzialmente si riduce – alla “conversione del cuore”. Una sovrabbondante interpretazione del profilo “gesuita” di papa Francesco tende a concentrare tutta la attenzione sul versante spirituale, interiore, conscienziale della sua azione pastorale. Certamente una riforma della Chiesa che non si fondi su un profondo cambiamento spirituale della coscienza e che non sia capace di meditazione e discernimento orante, sarebbe del tutto vana. Ma altrettanto vero è il contrario: del tutto vacuo sarebbe pensare ad una riforma della Chiesa che non si prendesse cura delle mediazioni delle istituzioni, dei sacramenti, dei ministeri, dei linguaggi e della sensibilità, in tutta la loro esteriorità. Forse la tentazione di volgere lo sguardo solo alla dimensione interiore deriva dalle difficoltà che sul piano istituzionale la Chiesa sta sperimentando quasi quotidianamente: scandali, inadeguatezza, arretratezze si presentano ripetutamente e dolorosamente alla comune attenzione. Ma proprio di fronte a queste manifestazioni di fragilità del sistema occorre non cadere in forme troppo ingenue di fuga e di rimozione. Un disegno di riforma, che non assumesse il versante istituzionale come mediazione decisiva, non potrebbe avere alcun futuro.

Proprio perché siamo sulla soglia di un nuovo documento autorevole – la preannunciata Enciclica “Fratelli tutti” – può essere utile verificare, anzitutto sul piano dei testi già pubblicati in questi 7 anni, che cosa abbia detto Francesco della Riforma della Chiesa. Vorrei esaminare soltanto tre grandi testi – EG, LS e il discorso alla Chiesa Italiana di Firenze – per identificare come venga trattato il termine “riforma” e “riforma della Chiesa”.

a) Evangelii Gaudium (2013): “la riforma missionaria della chiesa”

La “Magna Charta” del magistero di Francesco – l’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”, enciclica pubblicata nel 2013, a inizio pontificato – parla in molti passi di “riforma della Chiesa” e non lo fa soltanto sul piano spirituale.

Tutto il primo capitolo, che copre i nn. 19-49, che ha per titolo “Trasformazione missionaria della Chiesa”,  viene però indicato, poco prima, al n.17, quando si elencano i temi del documenti, col titolo “La riforma della Chiesa in uscita missionaria”. Il contenuto di tutto il capitolo non si lascia comprendere soltanto come una riflessione spirituale, ma indica, apertis verbis, esigenze di carattere istituzionale e strutturale, del tutto inaggirabili. Le caratteristiche della “apertura missionaria” sono fotografate anzitutto da 5 verbi inequivocabili: “prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare”. Questo stile, per affermarsi, esige una vera mobilitazione di riforme: “Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una «semplice amministrazione». Costituiamoci in tutte le regioni della terra in un «stato permanente di missione»(EG 25). Di qui, discende, al numero successivo, la indicazione chiara e limpida della correlazione tra riforma della coscienza e riforma strutturale: “Ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore; ugualmente, le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica. Senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza “fedeltà della Chiesa alla propria vocazione”, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo” (EG 26). Perciò la riforma delle strutture della Chiesa appare come il “sogno” di Francesco: “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia.” (EG 27). E tuttavia, confrontandosi con la realtà strutturale “di base”, la parrocchia, Francesco dice: ” dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione” (EG 28). Neppure si trascura la esigenza di riforma del linguaggio e dello stile: “se un parroco durante un anno liturgico parla dieci volte sulla temperanza e solo due o tre volte sulla carità o sulla giustizia, si produce una sproporzione, per cui quelle che vengono oscurate sono precisamente quelle virtù che dovrebbero essere più presenti nella predicazione e nella catechesi. Lo stesso succede quando si parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di Dio.”(EG 38). Una “riforma del linguaggio” è avvertita come decisiva per la riforma della Chiesa: “San Tommaso d’Aquino sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio «sono pochissimi». Citando sant’Agostino, notava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posteriormente si devono esigere con moderazione «per non appesantire la vita ai fedeli» e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando «la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera». Questo avvertimento, fatto diversi secoli fa, ha una tremenda attualità. Dovrebbe essere uno dei criteri da considerare al momento di pensare una riforma della Chiesa e della sua predicazione che permetta realmente di giungere a tutti.” (EG 43). Così lo stile della “uscita in missione” acquisisce nuove evidenze e perde rigidità: ” l’impegno evangelizzatore si muove tra i limiti del linguaggio e delle circostanze. Esso cerca sempre di comunicare meglio la verità del Vangelo in un contesto determinato, senza rinunciare alla verità, al bene e alla luce che può apportare quando la perfezione non è possibile. Un cuore missionario è consapevole di questi limiti e si fa «debole con i deboli […] tutto per tutti» (1 Cor 9,22). Mai si chiude, mai si ripiega sulle proprie sicurezze, mai opta per la rigidità autodifensiva. Sa che egli stesso deve crescere nella comprensione del Vangelo e nel discernimento dei sentieri dello Spirito, e allora non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada” (EG 45).

b) Laudato Si’ (2017): “la ferma decisione di riformare l’intero sistema”

Al chiaro dettato che abbiamo riconosciuto nel I cap. di EG corrisponde, con diversi accenti, il richiamo alla “riforma” contenuto in Laudato si’. Del tutto programmatico è, all’inizio, il parallelo con EG: “ Nella mia Esortazione Evangelii gaudium, ho scritto ai membri della Chiesa per mobilitare un processo di riforma missionaria ancora da compiere. In questa Enciclica, mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune.” (LS 3). Qui, come risulta evidente, EG, guardato dal punto di vista di LS, appare orientato a “mobilitare un processo di riforma missionaria della Chiesa”. Un secondo aspetto considerevole per capire le intenzioni di papa Francesco è proprio questo diverso livello del discorso su cui LS si sviluppa. Dovendo occuparsi del “dialogo sulla casa comune”, il testo può riferirsi con maggiore serenità anche alle riforme, che in questo caso non riguardano anzitutto la Chiesa, ma le istituzioni pubbliche. Anche in questo caso, se non si afferma una “mens” corretta – nella quale la ecologia integrale e il rispetto del creato sono decisivi – il cambiamento esteriore servirà a poco. Ma è altrettanto vero che, proprio al fine di diffondere una nuova mens, la esteriorità istituzionale non è affatto secondaria. Anzi! Così, secondo questa logica equilibrata, troviamo scritto al n.181 “Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose. Tuttavia, bisogna aggiungere che i migliori dispositivi finiscono per soccombere quando mancano le grandi mete, i valori, una comprensione umanistica e ricca di significato, capaci di conferire ad ogni società un orientamento nobile e generoso.” (LS 181) La uscita da un “paradigma efficientista” esige decisioni strutturali assai nette: “Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura” (LS 189). L’attenzione per le “strutture” è del tutto vivace e non può essere ridotta, semplicemente, ad un discernimento interiore.

c) Il discorso di Firenze (2015): la tentazione pelagiana

L’ultimo testo che vorrei considerare è il grande discorso pronunciato a Firenze nel 2015, in occasione del Convegno della Chiesa italiana. Nel delineare una chiesa “umile, disinteressata e beata” Francesco ferma la sua attenzione su due tentazioni: quella pelagiana e quella gnostica.

Presentando la prima, Francesco pronuncia due frasi di alto peso specifico e decisive per comprendere il suo pensiero. Le riporto integralmente:

“La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo. La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività”.

L’invito ad uscire da una visione rigida della dottrina corrisponde ad una lettura non semplicemente formale della riforma della Chiesa. Una visione dinamica non esagera il ruolo delle istituzioni, ma neppure lo sottovaluta. Sarebbe paradossale che noi leggessimo questo testo come se Francesco volesse dirci che l’unica riforma sarebbe quella del cuore. Senza una reale incidenza sulle cose, senza un “fare le cose insieme” non c’è dialogo con Dio e con gli uomini. Riformare le prassi ecclesiali è condizione per poter ascoltare fino in fondo la parola del Vangelo. La tentazione non è progettare una riforma della Chiesa, ma pensare di risolvere il problema della Chiesa semplicemente con una diversa esteriorità. La riforma strutturale è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per maturare una Chiesa umile, disinteressata e beata.

In conclusione, le caratteristiche “nuove” di Francesco sono di essere il primo papa “figlio del Concilio”, il primo papa “non europeo” e il primo papa gesuita. Così è giusto dire che il magistero di papa Francesco risente, oltre che delle sue specifiche caratteristiche genealogiche e geografico-culturali, della sua identità gesuita, ma non è giusto giudicare il papa solo come se fosse anzitutto un gesuita. Il papa “non europeo” e “figlio del Concilio” ha, oltre alle caratteristiche del gesuita, anche quelle di colui che riprende la “indole pastorale” con cui è stato inaugurato il Concilio Vaticano II. In EG egli cita infatti, in modo plastico, dal testo inaugurale del Concilio proprio la definizione di “indole pastorale”: “gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità. Poiché, nel deposito della dottrina cristiana «una cosa è la sostanza […] e un’altra la maniera di formulare la sua espressione».” (EG 41). Questo modo di considerare la “missione” implica una riforma delle istituzioni e dei linguaggi, non soltanto una conversione interiore. La esteriorità non è solo conseguenza, ma anche causa di riforma.  Il padre gesuita e il Vescovo di Roma sono figure diverse: si tratta di identità e di forme di vita differenti, che dialogano fruttuosamente, e si arricchiscono a vicenda, ma che non sono riducibili o sostituibili una all’altra.  Francesco sa  bene di fare il papa come padre gesuita, ma sa altrettanto bene di non potersi ridurre (e di non poter essere ridotto) a padre gesuita come papa.

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