Riforma della Chiesa e diverse tradizioni spirituali: parole, opere e omissioni


missavetus

Esattamente 100 anni prima della elezione di papa Francesco, nel 1913, usciva in Belgio “La liturgie catholique”, il libro che inaugurò la “fase accademica” del Movimento Liturgico (Brémond). In quel libro il suo autore, Maurice Festugière, faceva due operazioni parallele e profondamente correlate: poneva le basi per la riscoperta della liturgia come “fonte e culmine” di tutta la azione della Chiesa e riprendeva una dura polemica con Ignazio di Loyola e con la spiritualità gesuita del suo tempo.

Per il primo motivo fu un profeta, per il secondo subì, dal 1919, fino alla sua morte, il divieto di scrivere una sola ulteriore riga sulla liturgia, proibizione che osservò scrupolosamente fino alla sua morte, nel 1950.

Perché oggi è importante rievocare questo episodio di più di un secolo fa? Non certo per alimentare nuove polemiche, ma per recuperare il tessuto complesso con cui è nata e si è sviluppata la rilettura teologica della liturgia nel XX secolo, che con il Concilio Vaticano II è diventata addirittura paradigma della riforma della Chiesa.

Che cosa rimane attuale, di quella vicenda traumatica? Non solo una certa idea di liturgia, ma anche un certo modo di concepire la riforma della Chiesa. Proviamo a scoprirne brevemente le caratteristiche

1. Lettura gesuita e lettura benedettina della tradizione

Se guardiamo al di sotto della polemica tra un teologo benedettino e i discepoli di S. Ignazio, che Festugière con durezza scatenò attraverso il suo scritto, troviamo una antica differenza tra spiritualità della interiorità e spiritualità della mediazione esteriore. In fondo, la grande differenza tra benedettini e gesuiti – che si è articolata con forza tra XVII e XIX secolo e che perdura, sottotraccia, non tanto come polemica, ma come differenza di stile e di vita – sta nella valorizzazione della mediazione corporea dei primi e nel primato del cuore e dello spirito dei secondi. Forse dovremmo parlare di uno “stile antico” – regolato e istituzionale – che nel medioevo mendicante (soprattutto francescano) e poi nella modernità gesuita viene riletto in modo immediato, sentimentale, spirituale. Anche la pretesa attuale di intendere la riforma della Chiesa al di qua (e al di là) della sua portata istituzionale deriva da questa lunga e complessa tradizione. Dentro la quale è bene comprenderla, nei suoi meriti e anche nei suoi limiti.

Ciò che Festugière diceva, sia pure a suo modo, più di 100 anni fa è: la mediazione liturgica non si lascia ridurre al suo contenuto interiore. Lo stesso potremmo dire oggi della riforma della Chiesa: essa non si lascia del tutto includere nella “conversione dei cuori”. Che resta una passaggio del tutto necessario, ma non sufficiente.

2. La liturgia e la Chiesa da riformare

La incomprensione della riforma liturgica, anche da parte di chi la difende, avviene per lo più nel modo di comprendere (o di fraintendere) le sue logiche corporee, sensibili e istituzionali. Ciò appare del tutto evidente, proprio come proiezione di questa “semplificazione” della questione. Un esempio dell’altro ieri mi pare del tutto chiarificatore dei rischi di una lettura “immediata” della liturgia e , mutatis mutandis, della Chiesa. Anzi, vorrei dire che proprio su questo punto la tensione tra intenzione e realtà di fa grande e talora drammatica.

E’ infatti dell’altro ieri la notizia di un Vescovo USA (Diocesi di Madison) che ha celebrato il 27 agosto scorso ben 102 cresime “in rito antico”. La possibilità di “iniziare” più di centro giovani fedeli prescindendo totalmente sia dalla riforma liturgica, sia, per conseguenza, dalla riforma della Chiesa diventa principio di scandalo, direi quasi “struttura di peccato”, che è frutto di “parole, opere e omissioni”. Proviamo ad identificarle, nella loro imbarazzante esteriorità, mai riducibili soltanto alle intenzioni del cuore.

a) Parole che perdono le evidenze di comunione

Negli ultimi decenni abbiamo permesso a parole ambigue e prive di chiarezza di alimentare l’idea che “lo stesso rito romano” possa essere mediato indifferentemente dalle forme nuove o dalle forme vecchie della liturgia. La comunione ecclesiale viene ferita da simili parole, che aprono uno spazio di indifferenza liturgica, di autoreferenzialità comunitaria, e di deriva settaria. Se un Vescovo, oggi, può celebrare le cresime in rito antico, cui poi far seguire la Santa Messa secondo lo stesso “ordo”, di fatto colloca se stesso, e tutti i neofiti, dentro uno spazio di pericolosa ambiguità, che parole irresponsabili hanno dischiuso e continuano oggi a confermare. Siamo responsabili tutti di queste parole poco chiare.

b) Opere che alimentano le divisioni

Non solo le parole, ma anche le opere/azioni hanno dato a questo un ulteriore contributo. Se esistono normative che chiamano “comunione” la divisione, allora è evidente che la confusione diventa massima. Soprattutto quando il cammino con cui la Chiesa si è data nuovi stili celebrativi viene apertamente smentito e ciò disorienta il cammino comune. La comunione viene subordinata alla ideologia e la deriva settaria (per non dire scismatica) si lascia confortare da normative che la “derubricano” a semplice “pluralismo di forme dello stesso rito”. Qui ci sono “pratiche ecclesiali” che lavorano contro la comunione e che devono essere esplicitamente corrette.

c) Omissioni che creano indifferenza verso la mancanza di comunione

Ma non ci sono solo parole e opere, ci sono anche omissioni. E sono di due tipi: sia di chi “fa finta di niente” e gira la testa dall’altra parte, sperando che il fenomeno si esaurisca da sé. Sia di chi ha tutta la autorità per intervenire, e non lo fa. La degenerazione della comunione è qui il frutto di una duplice omissione. Di chi non parla, pur avendo il potere di parlare e di chi non agisce, pur avendo la autorità di agire. Per questo occorre che, ad ogni livello, la cura per la riforma della Chiesa, che passa attraverso la riforma della liturgia, non sia lasciata da parte. Il discernimento di cui abbiamo bisogno, per questo obiettivo, attraversa non solo il cuore e la mente, ma anche il corpo e le istituzioni.

3. La riforma, il cuore e le istituzioni

Come era chiaro già un secolo fa, la riscoperta della liturgia come “azione comune di Cristo e di tutta la Chiesa” sarebbe diventato principio di una rilettura che la Chiesa dava di sé e della propria missione. La riforma della Chiesa non si riduce mai alla conversione del cuore, che ne è una parte necessaria, insostituibile, ma non sufficiente. Ciò è evidente anzitutto sul piano liturgico, dove non c’è in gioco soltanto un’ “anima” o un “cuore” capaci di culto, ma un “uomo/donna”, un “corpo”, “mani”, “occhi”, “suoni”, “spazi” capaci di entrare in una azione liturgica. Se trascuriamo l’aspetto corporeo, sensibile e istituzionale della Riforma liturgica, riducendolo a “optional”, perdiamo in un colpo non solo il senso della riforma liturgica, ma anche quello della riforma della Chiesa. Le parole forti con cui Festugière, più di 100 anni fa, metteva in guardia dalle “soluzioni immediate” al problema del culto cristiano, valgono anche oggi, ma in un campo molto più vasto. Non per alimentare una polemica che è ormai obiettivamente datata e superata, ma per mettere a fuoco una intelligenza della questione della riforma, che deve mediare tra interiorità e esteriorità, con una sapienza tanto antica quanto nuova. Se non cambia il cuore, le istituzioni non cambieranno mai. Ma senza una disciplina rinnovata dei corpi e delle forme istituzionali, i cuori possono girare a vuoto e chiudersi. Perché l’uomo non è mai soltanto la sua ragione e il suo cuore, ma anche il suo corpo, la sua bocca e le sue mani. Una riforma liturgica e una riforma ecclesiale che dimenticasse questa meravigliosa complessità sarebbe condannata a restare al di qua del proprio compito.

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