Ripartire senza imparare (anche in Chiesa)? La messa in guardia di Giovanni Grandi
In uno dei suoi garbati video (che si trova qui), Giovanni Grandi pone una questione non di poco conto. La riassume lui stesso con queste parole:
“Ripartire è necessario, soprattutto per il lavoro e in generale per le relazioni, non c’è dubbio. Però stavano nascendo nelle professioni, nella scuola, nei contesti stessi del tempo libero (del “consumo”?) riflessioni interessanti sul senso delle cose, che forse rischiamo di accantonare nell’urgenza di ritornare in corsa. Pare anche a voi?”
Egli propone di aprire un dialogo su questo punto. Mi pare una cosa saggia. Per parte mia recepisco la bella provocazione. Provo anzitutto a focalizzare la domanda.
Una domanda preziosa, anche per la Chiesa
La domanda che ci e si rivolge Giovanni Grandi è radicale: egli si domanda se la condizione di “distanziamento”, che ci ha costretto per due mesi a “inventare una vita diversa” – anche sul piano ecclesiale e liturgico – sia soltanto una “fase di passaggio”, da accantonare subito, per rimettersi a fare quello che si faceva prima, anche se in condizioni diverse. E’ stata l’occasione per “ripensare quello che facevamo” o solo un “incidente di percorso” dopo il quale ci affrettiamo a “ripristinare tutto come prima”, anche se con condizioni di perdurante “distanziamento sociale”.
Proviamo a dirlo dal punto di vista della “liturgia della Chiesa”: la prova, che abbiamo dovuto attraversare – assenza di celebrazioni partecipate, ricorso a media sostitutivi (TV, streeming, Zoom, video-chiamate…), animazione litrugica delle case, lavoro sui linguaggi e sui gesti – possono essere semplicemente archiviate per tornare a “liturgie secondo il protocollo”, oppure ecclesialmente abbiamo imparato qualcosa che non possiamo perdere, e dobbiamo anzi custodire e riprendere, in vista di una “normalità ecclesiale” che non sia una “normalizzazione”?
Le emergenze della clausura: parole e cose
Possiamo dire di avere imparato molto, fino a qui, dalle cose che ci sono accadute? Mi limito a segnalare quelle rilevanti sul piano liturgico-pastorale:
a) Tutti sono rimasti spiazzati dalla novità di una “desertificazione” dello spazio pubblico, che ha risucchiato tutte le comunità, salvo le “case”. Anche la Chiesa italiana è stata risucchiata in una alternativa tra pubblico e privato. E ha giocato su entrambi con le carte che aveva. Pubblicamente ha “assunto responsabilità”, poi ha denunciato l’attentato alla Costituzione, poi ha siglato – da sola – l’accordo. Una cosa poco meditata, che in certi passaggi ha avuto toni da Cinque Stelle o da Aldo Maria Valli. Alla fine l’esito sul piano pubblico è una “assimilazione” della Chiesa a palestre, tabaccherie, librerie…ma è evidente che la questione del celebrare comunitario si pone al di là del protocollo. Esso rende possibile una cosa, la cui necessità deve essere attinta da altre fonti. Tuttavia su questo “oltre” pochissime parole autorevoli, forti, profetiche. Almeno per ora.
b) Sul versante privato, poco o niente, se non il ricordo al “registro devoto”, ma neppure troppo convinto. Una elaborazione sapiente delle risorse dei “luoghi privati di testimonianza ecclesiale” (le case, le famiglie, le comunità) è stata lasciata pressoché integralmente alla libera iniziativa “privata”. Quasi che gli sviluppi più nuovi e più ragguardevoli avvenissero “praeter hierarchiam”.
c) Proprio la “zona intermedia”, che è la più delicata, quella che dovrebbe essere più curata e custodita, sembra essere rimasta fuori del campo visivo ufficiale. Si salta, molto facilmente, dal livello “formale” alla “vita personale”. E questo taglia il ramo su cui stiamo seduti, nella grande pianta della tradizione.
d) L’indizio più limpido è stato il “registro verbale” su cui si è comunicato. Formalismi giuridici, norme disciplinari eccezionali nuove o classiche (coaì è stato facile trasformare la messa in cena domini in messa senza popolo e la confessione in desiderio della confessione). Ma della “res”, si è detto pochissimo: quasi si è sottointeso che parlasse il papa – che non ha taciuto – e poi tutti potevano limitarsi a ripeterlo (più o meno fedelmente). Ma una esplicita verbalizzazione della crisi e delle parole alte con cui la si può affrontare sarebbe stata la cosa più importante, perché toccava le corde delle vite recluse, ferite, abbattute, spaesate.
Verso una normalità non normalizzata: i segni del tempo
La domanda di Giovanni Grandi, dunque, risuona anche per la Chiesa: abbiamo imparato qualcosa? Ci siamo lasciati insegnare qualcosa? Ecco una serie di “segni dei tempi” da cui la Chiesa può imparare qualcosa di decisivo su di sé e sul proprio mistero:
a) Se, come si è ripetuto con una insistenza quasi ostinata, non possiamo vivere “senza eucaristia”, e la riconosciamo “fonte” della fede e del servizio, dovremmo almeno “esporla” con un minimo di correttezza, di pertinenza, di equilibrio e di pienezza. Se poni come tua “fonte” una arancia meccanica rituale, ti ritrovi mortificato dalla fonte stessa che non hai saputo custodire, almeno con le parole;
b) La sapienza ecclesiale sa che le prove della esistenza di Dio appaiono tante e numerose, quando tutto va bene. Ma è proprio nella “crisi” che diventano importanti, ed è proprio allora che scarseggiano. Così è per la messa: offrirne le ragioni quando la vita fiorisce, si può fare con le gambe rilassate sotto la scrivania, e quasi fumando la pipa. Ma proprio quando diventa difficile o impossibile, la celebrazione non sopporta di essere dipinta, raccontata o minacciata come un “diritto da pretendere” o come una “cosa sacra”, piuttosto che come un “dono senza merito, che coinvolge in radice ogni membro della comunità”.
c) Alle parole poco meditate corrisponde, ovviamente, il rischio di “cose improvvisate”. Se la eucaristia è pensata come un “dispositivo automatico”, può sopportare ogni livello di “presidio sanitario”: maschere, guanti, distanze, numeri chiusi, sanificazioni, servizio d’ordine…Ma se osi pensarne il significato corporeo, simbolico, che correla capo e corpo, corpo mistico e corpo vero, sacerdozio di Cristo e sacerdozio dei fedeli, puoi uscire dalla logica amministrativa e porre la questione: è davvero il caso? A priori la risposta non è né sì né no: ma sono le comunità reali – il gregge con i suoi pastori che camminano talora davanti, sempre dentro e spesso dietro – a dover decidere, soppesando bene ogni cosa.
d) I segni dei tempi sono i segni del nostro tempo. Essi possono insegnarci qualcosa di importante sia sul significato della celebrazione eucaristica, sia sulle “cose” che essa desidera o pretende o esclude. La Chiesa, che è madre e maestra, sa di dover essere anche discepola, di dover imparare dai segni che incontra. Se li ascoltiamo staremo dentro il grande discernimento a cui siamo chiamati per ripartire: non a ogni costo e non senza discrezione. Se abbiamo fretta di “archiviare il confinamento” e di tornare ad una pratica pastorale rassicurante perché comunque assicurata, perderemmo, come dice bene Giovanni Grandi, una occasione storica perché le parole diventino luoghi di reale presenza e perché le cose si facciano forti, alte e trasparenti.
In parte credo sia dovuto all’incapacità di interrogarsi sul tempo presente. La fretta di ‘ripartire’, tornare alla normalità. Come se l’annuncio del Vangelo fosse una cosa normale per tempi solo ordinari. La liturgia si dovrebbe adattare ai tempi mantenendo inalterata la sostanza; invece ho l’impressione che qui il rito si adatta alla circostanza perdendo di vista la sostanza. Resta il rito, mascherato. Abbiamo perso l’occasione di fare tesoro della pandemia; è come essere risorti senza essere morti. Questa sarebbe resurrezione?