riti che educano


Un nuovo agile volumetto, di 170 pagine, che presenta la “educazione rituale” del cristiano. Eccone la Introduzione.




Introduzione
Nel suo grande romanzo Hard Times (Tempi difficili) Charles Dickens ci offre una chiave preziosa per interpretare anche “questi nostri tempi”, civili ed ecclesiali. La “difficoltà” dei tempi sta essenzialmente – per lui come per noi – nei limiti strutturali di un modello educativo sbagliato. Un modello pedagogico che genera un uomo senza passioni, senza affetti, senza corpo, senza emozioni. Un modello solo mentale e solo calcolatore. Un modello di uomo disumano.
Anche noi, all’inizio di questo decennio dedicato al tema dell’educazione, possiamo facilmente riconoscere di vivere “tempi duri”. E siamo in difficoltà proprio a causa di una “maleducazione” troppo diffusa. La nostra “mala educazione” – oggi come allora – dipende da un punto cieco che gravemente emargina una zona dell’esperienza umana e cristiana che a torto abbiamo ritenuto secondaria, derivata, persino irrilevante. Manchiamo di educazione rituale. Per capire bene l’importanza di tale questione dobbiamo prestare attenzione a un elemento di grande rilievo. Perché, come accade nel romanzo di Dickens, assicurare che le nuove generazioni sappiano vivere la fede, attestare la loro vocazione, rendere testimonianza del Vangelo, è una condizione che ha bisogno di una rilettura viva e vitale della tradizione. Non ogni fedeltà alla tradizione è, da questo punto di vista, adeguata. Coltivare la passione per i pizzi e i merletti delle cerimonie, ridurre la teologia ad apologetica, considerare la morale solo nella prospettiva di questioni vecchie di 200 anni, non è un servizio alla vitalità della tradizione, ma solo un contributo alla sua fine: insomma ogni via breve e ogni soluzione semplicistica, per quanto bene intenzionata, fa solo il gioco dell’avversario. Abbiamo bisogno, anzitutto nella Chiesa, di non ridurre l’identità a formule quantitative o misurabili, a essenze o a definizioni, ma dobbiamo riscoprire l’immaginazione, l’affetto, la passione come componenti essenziali dell’identità cristiana. Per questo, ai “tempi duri” – e duri proprio per cattiva educazione – dobbiamo rispondere con il coraggio con cui il Concilio Vaticano II ha scelto la ricchezza e la ampiezza della tradizione piuttosto che la essenzialità e la ristrettezza delle definizioni o dei canoni (O’Malley). Chi pretende di difendere la tradizione in questo modo angusto, rifugiandosi nel passato, più o meno inconsapevolmente, ne diventa l’affossatore. Ai “tempi duri”, dunque, rispondiamo con la fiducia nella ricchezza inesauribile di una esperienza dello Spirito che nessuna dottrina e nessuna istituzione può semplicemente chiudere nei necessari, ma poveri linguaggi della ufficialità giuridica, istituzionale o dottrinale. Non a caso il Concilio Vaticano II ha voluto ripartire dalla forza vitale che si manifesta nell’atto di culto liturgico, nella Parola rivelata e attestata, nella Chiesa testimoniata e vissuta, nel mondo abitato dallo Spirito. Anche il rito cristiano oggi può essere difeso – se davvero vogliamo farlo – solo in questi termini e a questo prezzo. Se provassimo a ridurlo ad una dottrina da difendere, o a un cerimoniale da ripetere, avremmo forse trovato molte buone ragioni, ma saremmo già completamente fuori strada. Senza volerlo, faremmo il gioco di chi lo nega. No, una tradizione si difende solo vivendo aperti al futuro imprevedibile che Dio continuamente riapre nel soffio del suo Spirito, nel quale possiamo coltivare – rivolti al futuro – la nostra fedeltà al Cristo morto e risorto, che attendiamo dal nostro avvenire.
Proprio in questo risvolto “tradizionale” si colloca la piccola ambizione di questo libretto, dal titolo singolarmente “tradizionale”: riti che educano. Addirittura, il nostro potrebbe sembrare un titolo “tradizionalistico”: che cosa c’è di più apparentemente “tradizionalistico” dei riti religiosi? Questa domanda, che si affaccia ora alla nostra considerazione, merita qualche parola di chiarimento, forse anche con qualche sorpresa per il lettore. Perché, in verità, sono proprio i riti della fede cristiana che, quando veramente compresi, possono ostacolare e smontare dall’interno ogni pretesa tradizionalistica della fede. Persino la stessa “cura per l’educazione” credo abbia qualcosa da imparare da essi. Almeno nel senso per cui le liturgie della fede cristiana hanno precisamente la funzione di salvaguardare l’apertura della Chiesa rispetto alle novità dello Spirito di Dio.
Per questo oggi è tanto urgente che la grande mobilitazione “educativa” non si trasformi in una grande macchina pubblicitaria, in un motore che promuove eventi, spettacoli o ideologie, in una standardizzazione delle coscienze ora anche religiosa – o in una politicizzazione difensiva e sospettosa delle masse cristiane. Con una metafora calcistica potrei dire: si educa non anzitutto in difesa, ma giocando all’attacco, anticipando il progresso, piuttosto che giudicandolo restando dieci passi indietro. Interpretare la funzione educativa in senso pieno significa, appunto, rinunciare a dettare agli altri che cosa debbono fare e restare a guardare, limitandosi ad esercitare un giudizio più o meno severo su quanto accade. E’ vero, tuttavia, che una riflessione a 360 gradi sulla educazione comporta – ieri come domani – una certa dose di inattualità rispetto ad un mondo che vorrebbe – da sempre – che il soggetto umano fosse fin dall’inizio se stesso, senza dunque alcun bisogno di educazione, proprio a causa di una “somiglianza con Dio” confusa con una identità statica e autoreferenziale. Su questa strada un grande aiuto, da sempre, alla Chiesa è venuto dall’esperienza rituale. Qui tuttavia si oppongono, proprio oggi, nuove difficoltà. Anche il “rimedio” è in qualche modo catturato all’interno del difetto cui dovrebbe ovviare.
I riti infatti vengono oggi percepiti come un fattore di divisione, di identificazione identitaria, di separazione digitale di un gruppo dall’altro. Vi è poi anche un senso inadeguato con cui viene intesa la stessa parola “liturgia”. Le “inutili liturgie” sono diventate – purtroppo – la facile metafora con cui politici dichiaratamente improvvisati definiscono, di volta i volta, le sentenze dei giudici, gli articoli della costituzione, le votazioni del parlamento, le crisi di governo…Insomma, il vocabolario rituale-liturgico non gode di buona fama, nella lingua (o, forse meglio, nella chiacchiera) che pretende di assurgere al rango di “opinione pubblica”.
In questo spazio rituale – tanto ovvio quanto impensato – vorrei inserire le pagine di questo piccolo libro: nel riscattare la delicatezza e la decisività delle mediazioni rituali perché una Chiesa e un popolo, una cultura e una nazione, sappia ancora prendersi cura della educazione dei propri figli e delle proprie figlie. Il luogo originario di ogni cura formativa è quella “forma elementare” della relazione che si chiama, appunto, rito. Pertanto della educazione rituale voglio affermare anzitutto il suo doppio significato. Bisogna infatti richiamare certo oggi la necessità di una “educazione ai riti”. Ma tale obiettivo, pur con tutta la sua importanza, resta un compito secondo. La vera priorità è quella di affidare ai riti un ruolo decisivo nella formazione del soggetto cristiano . Per dire la stessa cosa, i riti ci comunicano anche contenuti, ma essi sono decisivi soprattutto nel “dar forma” a ciò che siamo. Per questo il titolo suona “riti che educano”. I riti sono perciò “forme di vita”, stilizzate e tipizzate, che istruiscono sensibilità ed emozione e sostengono l’intelletto e la ragione nel campo di incontro/scontro dello spazio e del tempo. Ma se i riti sono anzitutto “forme di vita”, e ad essi appartengono le pratiche rituali più centrali della vita cristiana – come la messa domenicale e la preghiera oraria, i funerali e i battesimi, le prime comunioni e i matrimoni, le processioni e la successione di feste dell’anno liturgico – allora è oggi del tutto fondamentale non ridurre queste pratiche fondamentali al loro contenuto, né accontentarsi di formalizzazioni puramente esteriori ed estetizzanti. Non ci bastano più né razionalismi senza forma né sentimentalismi senza contenuto.
Per questo vorrei tentare di parlare di “educazione rituale” attraversando tutta la regione dei 7 sacramenti, osservandone il profilo non tanto sul piano del contenuto, quanto sul piano della forma. I sacramenti annunciano la presenza viva, vitale, incarnata e dinamica del Figlio di Dio non come “pretesti per un discorso chiaro sulla salvezza”, ma come “contesti corporei di un incontro decisivo e salvifico”. Questa differenza ha bisogno di una specifica educazione. Ecco, di nuovo, l’intrecciarsi tra “educazione ai riti” ed “educazione da parte dei riti”. Questo intreccio, proprio perché non è a senso unico, ma è bidirezionale, appartiene al patrimonio comune di tutti gli uomini e le donne. Se il rito, con la sua forza simbolica, plasma le vite e le coscienze, insegna le giuste distanze e protegge dalle illusioni più pericolose, crea gli schermi e supera le resistenze, come tale esso parla un linguaggio elementare che chiunque può ascoltare, ammirare, lasciar lavorare su di sé. Nel prendersi cura dei riti che le sono stati consegnati e di cui non è mai stata padrona, la Chiesa svolge anche un ruolo importante nel permettere ad ogni uomo e ad ogni donna di scoprire, nelle pieghe di una sequenza rituale, una sapienza più antica dell’uomo stesso, una forza superiore alle intenzioni di chi la sperimenta e una profondità superficiale che ogni contenuto profondo non riesce mai ad esaurire. In tal modo sono proprio le “forme simbolico-rituali” a risultare strutturalmente ospitali, comunicative e universali. E per il soggetto di diritti moderno, così appassionato per la libertà ma anche così fragile nel custodirla, questa risorsa rituale non è affatto una sfida da poco.
Savona, 5 maggio 2011
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