Rito tridentino e nullità matrimoniale: le inattese analogie
Non vorrei che le discussioni e le necessarie polemiche intorno al “rito tridentino” fossero solo un diversivo, per concentrare la attenzione su un solo punto critico della vita ecclesiale e distrarre così da aspetti altrettanto urgenti di “riforma” della pratica e della dottrina della Chiesa. I recenti interventi su SettimanaNews di don Emanuele Tupputi, che è tra i più attivi nel recepire gli stimoli provenienti da “Amoris Laetitia”, mi ha convinto ad intervenire in modo chiaro su una distorsione interna alla tradizione, tanto grave quanto la nostalgia per i riti “di prima”. In particolare è l’ultimo articolo che l’autore ha pubblicato ieri sulla rivista on-line (e che si può leggere qui) a mostrare i limiti delle categorie impiegate per risolvere la questione della “coscienza” degli sposi in relazione alla loro storia di relazione matrimoniale. Per arrivare a discutere la impostazione, desidero partire da alcune premesse, con cui illustro la “strana” analogia tra nostalgia per il rito tridentino e discussioni in materia di “nullità matrimoniale”.
a) Il Concilio Vaticano II e la traduzione della tradizione
Il fatto che oggi una piccola parte della comunità cattolica voglia riferirsi al “vetus ordo” per celebrare la fede, non è anzitutto una questione di liturgia, ma di identità ecclesiale, di autorappresentazione dei soggetti e di comprensione della tradizione. La riforma liturgica ha modificato profondamente la comprensione della Chiesa che celebra, dei soggetti in essa implicati e della tradizione a cui essi riconoscono di appartenere. Lo spazio di una “actuosa participatio”, che il rito preconciliare aveva profondamente dimenticato, riappare al centro della esperienza e pretende nuovi soggetti, nuove azioni, nuovi spazi e nuovi tempi. Restare (o tornare) a Pio V significa non aver compreso questo profondo mutamento e/o volerlo esplicitamente contraddire. Come dice bene papa Francesco, in Traditionis Custodes 31:
“Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium.”
Questo, però, non vale solo per la liturgia. Vale anche per la comprensione delle fondamentali dinamiche di intelligenza della vita dei cristiani, tra cui vi è la dinamica matrimoniale, su cui non è possibile continuare a pensare e ad agire come si faceva 600, 400 o 200 anni fa. Per questo non vorrei che, impegnati giustamente a difendere la riforma liturgica dalle folate nostalgiche che la minacciano, finissimo per non accorgerci delle forme superate e inadeguate di comprensione della realtà e di soluzione delle questioni. Vediamo meglio in che senso la nostra comprensione della “nullità matrimoniale” è la eredità di una soluzione tridentina che oggi non regge più.
b) La soluzione tridentina della nullità
La riflessione intorno alla “nullità del vincolo”, che inizia con il pensiero giuridico e scolastico medievale e che subisce una inevitabile accelerazione dopo il Decreto Tametsi, si basa su alcuni presupposti di un mondo che non c’è più. Vediamo di elencare quelli fondamentali:
– tratta il matrimonio come un “contratto”. Come esiste una antica sapienza umana e giuridica intorno alla “nullità dei contratti”, basata sul difetto di elementi oggettivi o soggettivi, così per analogia si è elaborata una sapienza sulla “nullità matrimoniale”, che ha segnato la esperienza giuridica di tutte le comunità (civili e religiose).
– assume l’orizzonte della “conclusione del contratto” come l’oggetto della valutazione. Tutto è riportato al “momento originario” della espressione del consenso, dove il matrimonio, come qualsiasi altro contratto, sta o cade.
– dopo Tametsi questa competenza ecclesiale si è carica di un valore ulteriore, avendo la Chiesa assunto la autorità di garantire la fondatezza del consenso, che prima di Tametsi era affidato alle logiche naturali e civili. Questo ha reso l’ordinamento ecclesiale ancora più compatto e compiuto e ha sfumato progressivamente le differenze tra dimensione naturale, dimensione civile e dimensione ecclesiale del matrimonio.
– Con gli sviluppi moderni, la logica della nullità è entrata in conflitto con la logica del divorzio, vantando la pretesa di “scoprire oggettivamente” ciò che gli sviluppi moderni affidavano invece alla disponibilità dei soggetti.
– E’ evidente che in questo ambito la irrilevanza della “storia del vincolo” e della dimensione della “coscienza del soggetto” diventava progressivamente una questione che portava alla forzatura delle categorie medievali e moderne. Fino al punto di costruire inevitabili finzioni e mistificazioni pur di venire a capo delle storie di vita dei soggetti implicati.
Ciò che qui ho cercato di riassumere è il progressivo imbarazzo della tradizione cattolica di fronte al mutare della storia dei soggetti, del vincolo e delle famiglie. Ostinarsi a ricondurre tutto alle logiche del “nullità contrattuale” mi pare una forma di resistenza non più giustificabile, se non in un sistema autoreferenziale, che si immunizza dalla realtà e pensa di risolvere le questioni mettendo ordine sulla scrivania del canonista.
c) Amoris Laetitia e il nuovo orizzonte di soluzioni
Il grande merito di Amoris Laetitia è di aver preso coscienza, in modo limpido, della presenza, nel corpo ecclesiale, di coppie la cui storia matrimoniale è fallita e non può essere ricostruita mediante il ricorso alla “nullità originaria” del vincolo. L’autore del testo da cui ho preso le mosse, ossia E. Tupputi, non a caso muove la sua indagine dal n. 84 di Familiaris Consortio, in cui Giovanni Paolo II parla della situazione canonica dei fedeli divorziati risposati che «sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido».
Questa rappresentazione, che di per sé resta sempre possibile, diventa una sorta di “strettoia” o di “imbuto” se pretende di assicurare, come via principale, una possibile soluzione ad ogni crisi matrimoniale. L’idea che il matrimonio “mai sia stato valido” è la pretesa estrema e spesso la forzatura procedurale che orienta la ricostruzione della storia dei soggetti ad una logica distorta. Questo deve essere apertamente dichiarato: qui o si cambiano le categorie di interpretazione della storia dei soggetti o si resta vittime del sistema di cui si è perso il controllo. Onorare le storia dei soggetti significa predisporre categorie nuove e procedure diverse da quella della “riconoscibile nullità”.
d) La prospettiva non più tridentina
Il punto-chiave della novità sta nel superamento della “autosufficienza” dell’ordinamento guridico ecclesiale. Inaugurato all’alba delle modernità da Tametsi e poi consolidato, in tutt’altro mondo, dal Codice del 1917, questa opzione, storicamente contingente, non è stata veramente superata dalla versione “post-conciliare” del Codice (1983), ma solo dalle parole chiare con cui AL apre uno spazio ulteriore alla pastorale matrimoniale rispetto allo spazio giuridico. Questo è il punto su cui gli sviluppi successivi ad AL devono necessariamente lavorare. Ossia superata la “meschina” pretesa (AL 304) di identificare la volontà di Dio con la legge oggettiva, sorge per la Chiesa il dovere e il potere di operare in un contesto in cui giuridicamente si riconoscano “altri ordinamenti” (naturali e civili) diversi la quelli ecclesiali e nei quali si realizza, parzialmente ma efficacemente, la vita cristiana. Solo questo permetterrà di riconoscere che ci siano “fallimenti matrimoniali”, frutto di storie e di coscienze, e non semplicemente di “nullità originarie non ancora riconosciute”. E’ ovvio che uscire dalla soluzione tridentina non è affatto facile, né sul piano liturgico né sul piano pastorale. Ma il Concilio Vaticano II ci ha indicato con chiarezza una via sulla quale procedere, con pazienza ma anche con audacia. Riconoscere che oggi ci sono famiglie, la cui logica giuridica non è controllata dalla Chiesa, ma che realizzano forme del bene di carattere primario, impone l’abbandono di “regolamenti autoreferenziali” e la elaborazioni di forme nuove (procedurali e sostanziali) di riconoscimento del bene relazionale. Questo passa necessariamente non attraverso la messa tra parentesi dell’aspetto giuridico, ma mediante l’esercizio di una profezia anche da parte del diritto canonico nel configurare una presenza ecclesiale non più compresa come un ordinamento giuridico autosufficiente. Questa sfida è sicuramente molto più profonda e importante del conflitto con i nostalgici della liturgia di Pio V. E la nostalgia del Tametsi – di una competenza totalizzante della Chiesa, che non sa più distinguere tra logiche naturali, logiche civili e logiche ecclesiali – appare molto più insidiosa e paralizzante dell’attaccamento a liturgie che il Concilio Vaticano II ha voluto esplicitamente superare.
Orizzonti nuovi a tutto campo si stanno aprendo nella Chiesa. Ogni cosa può venire vista in modo nuovo. Ognuno può contribuire personalmente
https://gpcentofanti.altervista.org/una-via-nuova-e-feconda-a-tutto-campo/
Esisterebbero addirittura “altri ordinamenti naturali”!
Mi chiedo da dove mai tragga la bislacca idea che il Vaticano II chieda, anzi imponga, una ricomprensione totalizzante dell’istituto matrimoniale, di modo che la pecca del codice del 1983 sia stata quella di “non superare una opzione storicamente contingente” (…come se poi il riconoscere ogni relazione pretermatrimoniale per quello che è – adulterio – fosse un’“opzione storicamente contingente” nella storia della Chiesa, e non invece la posizione costante, fondata sulla Scrittura).
Qui, come in ambito liturgico, è chiaro che usa “il Concilio” come puro argomento retorico.
Quindi la sua analogia dimostra, semmai, che in certi ambienti c’è una visione “meschina” tanto della liturgia quanto dell’integrità del vincolo matrimoniale, sacrificabile a/giustificabile da quelle che sono a ben vedere considerazioncine piccolo-borghesi (“realizzazioni parziali ma efficaci della vita cristiana”). Esattamente come si è tentato di sacrificare il rito romano sull’altare di fantasie sociologiche anni ’60-’70 (per far uno degli infiniti esempi, l’idea che lo stringersi la manina in segno di pace potesse in qualche modo rafforzare il vincolo di carità nella comunità! Patetico).
Davvero “meschina” è piuttosto l’idea che la Volontà Divina possa *contraddire* i precetti che Essa stessa ha posto.
La analogia tra rito tridentino e nullità matrimoniale è basata sulla esigenza di tradurre la tradizione. Che così come ci è stata consegnata dal XIX secolo e dalla prima metà del XX non ha più alcuna evidenza strutturale. La “finzione” della nullità è solo un caso estremo di una teologia del matrimonio condizionata non dalla Scrittura o dalla teologia, ma dal Decreto Tametsi. La incapacità di distinguere tra questi livelli è la “meschinità” in gioco. Che solo il matrimonio giustifichi l’uso del sesso è una visione paolina che la storia ha profondamente modificato. E chiede un ripensamento profondo. Come il Concilio Vaticano II ha inaugurato con la riforma liturgica e il ripensamento della Chiesa, della Parola e del rapporto con il mondo.
“Tesoro, cosa sono queste macchie di rossetto sulla tua camicia?!”
“Cara, che solo il matrimonio giustifichi l’uso del sesso è una visione paolina che la storia ha profondamente modificato. E chiede un ripensamento profondo”
“Oh perdonami caro, hai ragione!”
Grazie professore, questa me la segno. Può tornare buona.
Banalizzando le questioni non si fa bella figura. Se legge l’ultimo testo di B. Petrà sul etica matrimoniale vedrà quanto profonde possono essere le idee che ci aiutano a comprendere non le “scappatelle”, ma la identità sessuale degli uomini e delle donne di oggi. Poi al bar lei può continuare a fare tutte le battute che vuole, ma le questioni serie non si lasciano ridurre a livello della chiacchiera.
Visto che su queste pagine si dà allegramente dello scemo a un cardinale o si usano epiteti non propriamente edificanti nei confronti di un ex papa, ho erroneamente pensato che le chiacchiere da bar fossero ben accette. Mea culpa.
La boutade vuole semplicemente sottolineare come la frase estrapolata appare centrar poco non solo con l’insegnamento costante della Chiesa, ma anche con un canone di elementare buon senso.
Lei me lo contesterà, ma trovo ci sia più serietà in una barzelletta che in onanismi intellettuali intorno a categorie ridicole come “identità sessuale” (l’identità umana è sessuata, sessuale è semmai la fissazione freudiana).
Vedo che non riesce proprio ad uscire dal clima del bar. RIdurre il sesso ad uno stumento della identità umana è tipico di una riflessione arretrata e incapace di cogliere le sfide più urgenti, di fronte alle quali non si risponde semplicemente citando il catechismo (a patto che lo si conosca davvero). Che la esperienza sessuale di uomini e donne sia legittima solo “nel matrimonio” è falso dal punto di vista del fenomeno. Lo è sempre stato per i maschi, da più di un secolo lo è anche per le donne. Che questo sia letto semplicemente come “fornicazione” (o come adulterio) è la forma di pensiero di una società tradizionale, che da almeno 100 anni non viviamo più così, in una parte significativa del mondo (anche se non ovunque). Di questo è serio occuparsi, come fanno teologi come Fumagalli o Petrà, il cui pensiero solo al bar può essere chiamato “onanismo”. Nessuno ha dato dello scemo a un cardinale, se lei legge bene il testo. Il titolo è solo la citazione di una frase “del” cardinale, con la quale concordo in pieno. Del “buon senso” da bar non bisogna fidarsi troppo.
[dato che non sembra possibile rispondere al suo ultimo messaggio rispondo ancora a questo]
Non c’è bisogno di citare il catechismo – men che meno quello del 1992, figlio del suo tempo e che non a caso indulge nell’uso di ridicole categorie postmoderne come, appunto, la “identità sessuale” (§2333) – per tener fermo che ogni atto sessuale fuori dal matrimonio è immorale (con buona pace di ogni considerazione fenomenologica).
Fumagalli, sulla scorta di pessima letteratura scientifica, ipotizza che “gli atti omosessuali corrispondano alla natura della persona ed esprimano l’amore personale”. Studiosi più seri (e la Chiesa) ritengono si tratti di una forma di erotismo figlia di una situazione contingente, e non così diversa dall’onanismo (di qui anche la mia espressione).
Le “sfide urgenti” le cogliamo benissimo. Sono le risposte che divergono radicalmente.
Contrapporre Fumagalli alla Chiesa è tipico dei peggiori reazionari. COn quale responsabilità si scrive questo di uno dei migliori moralisti? Io mi vergognerei, se avessi scritto metà della metà delle sue parole irresponsabili. La avviso che al prossimo insulto gratuito sarà inevitabilmente cestinato. Moderare un blog significa impedire che vengano scritte parole ingiuste.
Se nei precedenti messaggi avevo fatto dell’ironia, nell’ultimo mi sembra di essermi astenuto da ogni tono irridente.
Di Fumagalli ho solo riportato alcune citazioni tratte da una recente opera; e sottolineato come appaiano francamente inconciliabili vuoi con un’antropologia cristiana e personalista (per cui l’atto omosessuale è disordinato proprio in quanto non corrisponde alla natura della persona: non esiste una “natura omosessuale”), vuoi con un approccio scientifico serio (è pseudoscienza quella che considera l’omosessualità una mera variante della sessualità umana – basti pensare a tutti gli alchemici tentativi, caduti nel nulla, di trovare un “gene gay”).
Quindi non faccio torto a Fumagalli se sottolineo come su questo punto pare situarsi fuori dall’insegnamento della Chiesa: nessun insulto, lecitissimo per lui argomentare in tal senso, e lungi da me volerlo censurare; ma ci vorrebbe l’onestà intellettuale di ammettere, quantomeno, che sul punto la Chiesa insegna altro. Nulla di reazionario.
Questa opinione su Fumagalli è reazionaria nella misura in cui blocca la tradizione su posizioni che non riescono a comprendere le persone. Il personalismo che capisce ke persone è una ideologia. Fumagalli propone un personalisno ripensato, che supera la contrapposizione tra soggetto e azione. Non riconoscere questo apporto è grave e blocca il giudizio, trasformandolo in pregiudizio.
Condivido completamente, grazie per sollevare queste questioni.
Un refuso: “progressivamente loe differenze” -> “progressivamente le differenze”
Grazie per la segnalazione del refuso
Siamo ancora in moltissimi casi immersi nel drammatico razionalismo. L’intellettualismo conservatore non vuole cambiare nulla ideologicamente l’intellettualismo pseudo progressista, modernista, vuole cambiare secondo logiche terrene astratte.
https://gpcentofanti.altervista.org/la-recente-lettera-di-ratzinger/
Sexual activity is never permitted outside of marriage due to the Natural law.
You say ‘history’ has rejected this – that is because man mostly goes to hell.
http://www.fatima.org
La semplificazione della realtà diventa facilmente principio di ingiustizia. È ragionevole che si sia pensato il matrimonio come legge naturale. Più naturale oggi è la convivenza. Che non è solo inferno e dannazione.
Un racconto sintesi
https://gpcentofanti.altervista.org/un-racconto-breve-habemus-papam/
Segnalo, giusto per rilevare come si possa avere un approccio meno esclusivo su queste tematiche “tridentine” (ormai l’aggettivo è considerato un insulto in ambito cattolico).
https://www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/173742/la-comunione-ecclesiale