Rowan WIlliams sul Concilio Vaticano II


Dal discorso di Rowan Williams all’ultimo  Sinodo dei Vescovi

Traggo alcuni passi interessanti dal discorso di Rowan Williams all’ultimo Sinodo dei Vescovi, pubblicato integralmente in: La nuova evangelizzazione. Rievangelizzare noi stessi, “Il Regno-doc”,  n.19, 2012, 581-584.

“Per molti della mia generazione, anche al di là dei confini della Chiesa cattolica romana, quel Concilio ha rappresentato il segno di una grande promessa, un segno che la Chiesa era sufficientemente forte  da porsi alcune domande impegnative sull’adeguatezza della propria cultura e delle proprie strutture per il compito di condividere il Vangelo con lo spirito complesso, spesso ribelle, sempre inquieto, del mondo moderno.
Il Concilio ha rappresentato, in molti modi, una riscoperta della sollecitudine e della passione evangelica,
concentrata non solo sul rinnovamento della vita della Chiesa stessa, ma sulla sua credibilità nel mondo. Testi
quali Lumen gentium e Gaudium et spes hanno dato vita a una fresca e gioiosa visione di come l’immutabile realtà di Cristo vivente nel suo Corpo sulla Terra possa parlare con parole nuove alla società del nostro tempo e perfino a persone di altre fedi grazie al dono dello Spirito Santo. Non sorprende che, dopo 50 anni, ci stiamo ancora confrontando con molti interrogativi di allora e con le implicazioni del Concilio, e suppongo che la sollecitudine di questo Sinodo per la nuova evangelizzazione faccia parte di quella continua esplorazione del retaggio del Concilio.
Ma uno degli aspetti più importanti della teologia del Vaticano II è stato un rinnovamento dell’antropologia cristiana. Al posto di un resoconto neoscolastico spesso forzato e artificiale su come natura e grazia si relazionavano nella costituzione degli esseri umani, il Concilio si è rifatto alle migliori prospettive di una teologia che aveva operato un ritorno alle fonti primordiali e più ricche, la teologia di geni spirituali come Henri de Lubac, il quale ci ha ricordato cosa significava per il cristianesimo delle origini e per quello medievale parlare dell’umanità fatta a immagine di Dio e della grazia, che  perfeziona e trasfigura quell’immagine così a lungo oppressa dalla nostra abituale «inumanità». In questa luce, annunciare il Vangelo equivale a proclamare che in definitiva è possibile essere veramente umani: la fede cattolica e cristiana rappresenta un «vero umanesimo», per  prendere a prestito una frase di un altro genio dell’ultimo secolo, Jacques Maritain.
Eppure de Lubac è chiaro su quello che ciò non significa. Noi non sostituiamo il compito evangelico con una campagna di «umanizzazione». «Umanizzare prima di cristianizzare?» si chiede. «Se l’impresa riesce, il cristianesimo giungerà troppo tardi: il suo posto sarà già stato occupato. E chi pensa che il cristianesimo non abbia un valore umanizzante?», così scrive de Lubac  ella sua meravigliosa raccolta di aforismi Paradoxes of Faith (Ignatius Press, San Francisco 1987). È la stessa fede che modella l’opera di umanizzazione e l’iniziativa di umanizzare resterà vuota senza la definizione di umanità offerta dal secondo Adamo. L’evangelizzazione, vecchia o nuova che sia, deve radicarsi in una profonda  fiducia nel fatto che tutti noi abbiamo uno specifico destino umano da mostrare e da condividere col mondo”.
[…]
“Per citare ancora una volta de Lubac: «Colui che meglio risponderà ai bisogni del suo tempo sarà qualcuno il cui primo scopo non era di rispondervi» (Paradoxes of Faith, 111-112); e «colui che, nella dimenticanza di se stesso, cerca la sincerità invece della verità è come colui che cerca di essere distaccato invece di aprire se stesso all’amore» (114). Il nemico di qualsiasi annuncio del Vangelo è l’auto-consapevolezza e, per definizione, non è possibile superarla divenendo ancora più consapevoli di noi stessi. Occorre ritornare a Paolo e chiedersi: «In quale direzione stiamo guardando?». Stiamo guardando ansiosamente ai problemi di oggi, alle diverse infedeltà, alle minacce per la fede e la morale, alla debolezza dell’istituzione? Oppure cerchiamo di guardare verso Gesù, il volto senza veli dell’immagine di Dio, alla luce del quale vediamo l’immagine che si riflette ancora in noi e nel nostro prossimo?
Tutto ciò ci ricorda semplicemente che l’evangelizzazione è sempre una sovrabbondanza di qualcos’altro: l’itinerario del discepolo verso la maturità in Cristo, un itinerario non organizzato da un io ambizioso, ma il risultato degli impulsi e delle spinte dello Spirito in noi. Nelle nostre riflessioni su come fare affinché il Vangelo di Cristo torni ancora una volta a essere irresistibilmente attraente per gli uomini e per le donne del nostro tempo, spero che non perderemo mai di vista ciò che lo rende attraente per noi, per ognuno di noi nei nostri vari ministeri. Quindi, vi auguro ogni  gioia in queste discussioni; non semplicemente chiarezza, oppure efficacia nella pianificazione, ma gioia nella promessa della visione del volto di Cristo e nella prefigurazione della pienezza nella gioia della comunione degli uni con gli altri qui e adesso”.

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