«Separatio potestatum», una lettera di Zeno Carra
La questione della interpretazione giuridica e teologica della nomina del Prefetto Brambilla solleva una gusta discussione. Le perplessità si uniscono a letture più positive. In questo testo Zeno Carra, teologo dello Studio Teologico S. Zeno di Verona, utilizza alcuni argomenti che aiutano a interpretare la nomina della prima donna Prefetto in senso più dinamico. Mi paiono considerazioni interessanti, che possono aprire un dibattito serio sulla interpretazione più adeguata della autorità nella Chiesa e del ruolo che in essa possono svolgere non solo gli uomini e non solo i chierici. Lo ringrazio di cuore per il contributo, aperto e dialogico, che ha voluto dare alla discussione comune. (ag)
Gentile professore,
ringraziandoLa delle Sue analisi sempre perspicue e che mostrano le radici profonde delle questioni, mi permetto di reagire sul punto che Lei denuncia come problematico: la separazione delle potestates che il CV2, con la dottrina sull’episcopato, aveva riunito. Lei vede la separazione come una pericolosa retrocessione a modelli superati. Mi chiedo invece se non possa essere foriera di scenari nuovi che permettano di portare avanti invece altre istanze conciliari.
L’unione delle due potestates nel solo ministero ordinato (CJC 1983, can. 129) non è stata de facto una causa, forse involontaria ma non meno reale, dei processi di clericalizzazione e centralizzazione che il postconcilio, a dispetto delle sue intenzioni, ha visto? Come Lei nota, la riunificazione è stata la ripresa di un modello antico, di età patristica: a tale ripresa non è corrisposto però un ripristino di altri parametri della stessa epoca come la de-centralità delle elezioni episcopali. Si è prodotto così uno scenario in cui ogni potere è, senza adeguati contrappesi, nelle mani dei vescovi; i vescovi sono tutti ormai di nomina papale e pertanto ogni potere alla fine fa capo, forse come non mai, al romano pontefice. È un caso che a tali spostamenti ecclesiologici sia corrisposto in epoca postconciliare un accresciuto ruolo della curia romana?1. Fare un passo indietro sull’unificazione delle potestates non potrebbe contribuire a disattivare l’allineamento “poterevescovipontefice/curia romana”?2
A ciò osterebbe quanto Ella denunciava nel Suo penultimo post3, ossia che il fondamento della potestas iurisdictionis sulla missio canonica sia comunque foriero di ulteriore accentramento di potere nelle mani del papa, da cui viene la missio canonica. Questo è vero de facto per la nomina di un prefetto di dicastero vaticano, ma non è una situazione de jure universalmente vera: non tutte le missiones canonicae vengono dal papa, o comunque dall’alto. Si pensi al superiore generale di molti istituti religiosi, o all’abate / all’abbadessa: lì la missio scaturisce da elezione democratica di un collegio elettorale a ciò deputato. Non per forza quindi la separazione della potestas iurisdictionis dalla potestas ordinis alimenta l’ipertrofia (de facto reale, realissima, e oggi forse non meno che nei pontificati precedenti) del potere papale: valorizzando realmente le possibili scaturigini altre di tale potestas nelle strutture ecclesiali ciò potrebbe (ri-)portare ad una reale amplificazione del luogo sorgivo dell’autorità.
Penso, ad esempio, alle competenze economiche e amministrative attualmente concentrate nelle mani di vescovo e parroco per diocesi e parrocchia, con il debole contrappeso delle “consultazioni obbligatorie” dei consigli preposti, che però restano prevalentemente luoghi a natura consultiva e non deliberativa. Una scorporazione dal ministero ordinato della potestas iurisdictionis potrebbe portare a figure di laici competenti che detengano responsabilità amministrative reali e non meramente delegate o consultive, il cui mandato risieda – che so – nell’elezione da parte dei consigli diocesani o parrocchiali? Forse anche la sussidiarietà (principio che sovente nella chiesa attuale resta relegato ai manuali di dottrina sociale) potrebbe così trovare più spazio ove certe responsabilità economiche, amministrative potessero legittimamente essere fondate sul riconoscimento di competenza e non sull’ordinazione.
(Questo suppone però di rimuovere quell’apriori mentale per cui il principio ecclesiologico dell’“omnis potestas a Deo” sarebbe garantito solo con la derivazione verticale e dall’alto dei conferimenti di potere. In virtù del principio di incarnazione Dio elargisce i suoi carismi, tra cui anche il carisma del potere istituzionale, in via mediata attraverso quei luoghi storici che la chiesa, corpo del suo Figlio, determina nelle sue diverse stagioni. Il caso dell’elezione abbaziale, ad esempio, è un chiaro esempio di come Dio conferisca un potere sulla chiesa mediante un processo democratico e dal basso).
Ma andando ancora oltre, la scorporazione della giurisdizione dalle altre potestà dell’ordine potrebbe essere fomite di ulteriori “scorpori” che “distribuiscano” ad altri soggetti ecclesiali le prerogative attualmente detenute dai soli chierici. Il potere di santificazione, ad esempio, potrebbe essere scorporato de jure da quello profetico, disattivando il blocco nato nel XIII secolo che impedisce a chi non è almeno diacono di predicare4, permettendo di far nascere un ministero di predicazione liturgica più legato magari alla competenza teologica e biblica che non all’ordine di prete, vescovo e diacono. Si potrebbe ancora scorporare ulteriormente la stessa potestas santificandi in diversi munera, come si era ipotizzato nel dibattito conciliare per il sacramento dell’unzione degli infermi, o nel sinodo amazzonico per i ministeri in terre senza clero: ministeri di presidenza eucaristica, ministeri di guarigione (col potere di assolvere e conferire l’unzione) … che non siano per forza concentrati nel prete e nel vescovo. E questo non più nella logica della delega e della supplenza “in assenza di clero”, ma nella logica di una diffusione de jure della ministerialità fondante la vita della chiesa.
Insomma: io credo che si possa riconoscere che una scelta, per quanto fondata, del CVII possa essere rivista anche alla luce degli effetti collaterali che in essa si radicano… E che riprendere un modello teorico medievale di concezione delle potestates non per forza significhi involuzione: anzi esso potrebbe essere foriero di scenari nuovi che magari una concezione toericamente virtuosa, ma un po’ archeologista (come talune delle riforme conciliari o del pontificato di Paolo VI), ha involontariamente bloccato implementando patologie della situazione preconciliare (come il clericalismo) invece che guarirle.
Capisco bene e condivido la Sua istanza, per cui un’altra strada feconda (e ormai adeguata ai tempi) sarebbe quella di togliere la riserva maschile all’ordine… ma forse partire dalla “scorporazione” delle potestates potrà preparare tale opzione con un quadro sul ministero rinnovato per altra via?
1 Sul centralismo romano e sul ruolo aumentato della curia papale nel postconcilio si vedano i saggi in Concilium 5/2013.
2 Un caso come quello del card. McCarrick avrebbe avuto la stessa portata se il potere di giudizio non fosse solo in mano ai chierici-vescovi e l’unica sede per giudicare canonicamente un vescovo non fosse la Santa Sede?
3 Cf https://www.cittadellaeditrice.com/munera/una-donna-prefetto-al-prezzo-di-una-confusione-normativa/
4 Cf J.M. Mayeur – Ch. Pietri – L. Pietri – A. Vaucheuz – M. Venard, dirr., Storia del Cristianesimo, vol. 5, Borla-Città Nuova, Roma 1997, 716-722. Documenti attuali: cf CJC 767 § 1; Istruzione Redeptionis Sacramentum 161; Direttorio omiletico, I, 5.