“Seppellire i morti”: misericordia alla fine della vita


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Una riflessione sulla “opera di misericordia corporale” del “seppellire i morti”: la tradizione ecclesiale e la cultura comune, anche cinematografica, entrano in relazione e rivelano cose antiche e cose nuove. Riporto alcuni stralci dal testo (pp.28-32):

Il lutto divenuto impossibile

La presa di parola, di fronte alla morte, appare particolarmente ardua, soprattutto quando si pensa di dover incominciare sempre daccapo. Anche in questo campo il registro tradizionale del cordoglio, della condoglianza, della partecipazione al dolor appare particolarmente logoro e inespressivo. Non abbiamo parole per dire la autentica comunione fraterna nella morte. Ed è il registro individuale spesso a prevalere, con tutte le sue fragilità e afasie.

La cultura tradizionale aveva parole e gesti comuni. Il lutto comportava un processo rituale che coinvolgeva necessariamente la comunità dei parenti e dei vicini. Tutte le forme della prossimità – parentale e sociale – erano convocate intorno al defunto e alla sua famiglia. Non ovunque abbiamo perduto questa sapienza. Le forme di vita conservano, spesso molto più in periferia che al centro, questo senso per la comunione che scaturisce da una morte. L’intensificarsi della prossimità proprio sulla soglia della più terribile delle solitudini è fenomeno ricco e complesso. Il ricordo di alcuni funerali nel sud Italia può essere qui di grande utilità.

Al di là della verbalizzazione ostentata della disperazione – con pianti, grida, invocazioni, memorie ad alta voce – non si può trascurare la “strategia sociale” che invade la vita dei parenti prossimi del defunto. La casa è trasformata per “accogliere”. Proprio in occasione di un “abbandono” ci si prepara, ci si apparecchia per l’ospitalità. E tutti coloro che arrivano, da ogni angolo del paese, portano caffè e zucchero, e restano lungo tempo a chiacchierare, nelle stanze vicine a quella dove è vegliato il defunto. Ma anche dopo le esequie e la sepoltura questa “forma sociale del lutto” continua a “non lasciare soli” i più colpiti. Per alcuni giorni il “consolo” è il pranzo che “altri” preparano, portando letteralmente “tutto” da fuori. Non solo i cibi, ma anche le posate, i bicchieri, le bottiglie, le tovaglie, i tovaglioli…Una sorta di “affido” dell’intera famiglia viene assunto dai parenti e dai vicini, che consolano anzitutto con una presenza quasi invasiva, ma confortante e riabilitante. E nel pranzo al ritorno dal cimitero il tema dei discorsi, intenzionalmente, deve essere quello delle “opere e giorni” del defunto, senza censure e senza riserve.

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Sussurri e grida

Un modello ben diverso, quasi una chiave di autoriflessione della evoluzione “secolare” della sepoltura, ci viene da una pagina indimenticabile del cinema di I. Bergman, nel suo capolavoro “Sussurri e grida”, dove si narra della malattia e della morte della giovane Agnese, che richiama nella casa della infanzia le altre due sorelle, con mariti e figli.

Il discorso del pastore che visita la sorella defunta, Agnese, rimane un capolavoro di intensità e di potenza. Esso riassume, in uno stile potente e severo, un intero mondo di “esperienza del morire”, che contraddistingue la tradizione europea, non solo di fede evangelica. Ecco il testo di questa memorabile “orazione funebre”:

Dio nostro Padre, nella sua infinita saggezza e misericordia, ha deciso di chiamarti nel fiore degli anni, non prima di averti ritenuta degna di sopportare una lunga e pesante sofferenza. Tu l’hai accettato umilmente e senza ribellarti, certa che i tuoi peccati sarebbero stati perdonati in virtù della morte in croce del nostro Signore Gesù Cristo. Che il Padre celeste abbia pietà della tua povera anima quando sarà alla sua presenza e consenta ai suoi angeli di spogliarti del ricordo delle tue sofferenze terrene.

Se hai ottenuto di chiudere tutti i nostri patimenti nel tuo povero corpo, se hai ottenuto di farlo rinascere attraverso la morte, si hai ottenuto di poter vedere Iddio nel suo regno celeste, se hai ottenuto che Egli volga il suo sguardo verso di te, se hai ottenuto di esprimerti nella lingua cche solo Dio onnipotente capisce, se hai ottenuto di parlare direttamente con Dio, se hai ottenuto questo, prega per noi.

Agnese, mia cara bambina, ascolta quello che ora ti dico: prega per noi ancora rimasti su questa terra oscura e immonda, sotto un cielo vuoto e impassibile; deponi il tuo pesante fardello pieno di dolori ai piedi di Dio e supplicalo di darci il suo perdono; imploralo che ci liberi dalle nostre angosce e debolezze, dai nostri dubbi più profondi e pregalo di dare un senso alla nostra vita.

Agnese, tu che hai sofferto così atrocemente e così a lungo sei certo meritevole di intercedere per noi”1.

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Al testo manca il “contesto” cinematografico accuratamente ricostruito da Bergman: ossia la intensità del volto e il tono di voce del pastore, i primi piani delle sorelle e della “serva” che scorrono mentre egli parla. Ma riusciamo a comprendere bene il senso di questa “lettura della morte”. Ciò che il film attesta, con la potenza di un vero capolavoro, è la incapacità di “fare il lutto”. Talmente forte è la resistenza delle sorelle a lasciarsi toccare dalla morte che Agnese, già morta, non riesce a morire e piange. Le sorelle, Karin e Maria, non hanno parole e non hanno gesti. Sono bloccate nella loro tragica insensibilità: rifiutano la morte della sorella, anche quando essa le chiama “dalla sua morte”. Quasi ricche epulone, neanche se una cara defunta viene a chiamarle per nome riescono a uscire dalla loro ermetica autoreferenzialità. Sono infelici, deluse, frustrate, incapaci di un vero soprassalto di umanità. Non possono “dare sepoltura” perché non riescono a far memoria della comunione da cui vengono e che le attende. Solo la “serva” Anna può ascoltare il richiamo e denudarsi di fronte alla defunta, per consolarla e nutrirla, come una madre con la figlia.

 

1 Ringrazio i miei figli Margherita e Giovanni Battista per aver “sbobinato” il testo, con attenta trascrizione davanti allo schermo. Incantati dalle parole e dalle immagini.

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