Si può cambiare la Costituzione? Come? // Verso il referendum, n. 2
Manca un mese al referendum sulla riforma costituzionale.
Con i prossimi post vorrei addentrarmi ad esaminare metodo e merito della proposta di revisione. Però prima è necessario fare un passo indietro: perché questo referendum? Come si cambia la Costituzione? È possibile cambiare la Carta?
L’articolo che si occupa della “revisione costituzionale” è il 138 della Costituzione.
Prima di spiegarne il contenuto e la logica, vorrei partire dall’ultima domanda che ci siamo posti: se è possibile o meno (giusto o sbagliato) mettere mano alla Costituzione, in particolare alla sua seconda parte (dedicata all’ “Ordinamento della Repubblica”). Per rispondere all’interrogativo – senza però con questo voler intestare a personaggi illustri questa o altre riforme – faccio mie alcune parole che pronunciò Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione, nel 1951. Esiste – affermava –
«una disparità di situazioni fra la parte dichiarativa (che è parte rivelativa o parte di indicazioni programmatiche dei fini che lo Stato deve raggiungere) e la parte organizzativa della Costituzione stessa, cioè, meglio, la parte in cui essa costituisce gli organi attraverso i quali lo Stato – cui la prima parte, la parte dichiarativa, impone quei determinati fini – dovrebbe precisamente perseguire e raggiungere i fini stessi. Questo è il problema fondamentale che dovrebbe esser posto in termini giuridici»[1].
Dalle parole di Dossetti emerge chiaramente che i Costituenti avevano ben presente come la parte “organizzativa” delle istituzioni necessitasse, già allora, di una manutenzione.
Dalla citazione però si ricava un altro importante criterio per discernere le riforme: che la prima parte, quella dei principi, non è separabile dalla seconda e che anzi si deve giudicare l’architettura costituzionale in base alla capacità che essa ha di attuare i principi fondamentali. Separare dunque prima e seconda parte della Costituzione è sbagliato, come lo è pensare che l’ “ingegneria costituzionale” non abbia influenza sul complesso dei fini che la Carta pone.
Veniamo ora all’art. 138 che disciplina il procedimento per adottare le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali.
La nostra Costituzione, come quasi tutte quelle moderne, non è modificabile con legge ordinaria: per questo si dice che essa è “rigida” (e non “flessibile” come lo Statuto Albertino). Per poter modificare il testo costituzionale si fa ricorso ad un “procedimento aggravato”.
Il procedimento di revisione costituzionale si innesta sulla struttura del procedimento legislativo ordinario, dal quale si distingue per due profili, uno necessario ed uno eventuale:
– l’iter di revisione cost. richiede quattro approvazioni parlamentari ad intervallo non minore di tre mesi (due per la Camera, due per il Senato) e la necessità di conseguire la maggioranza assoluta (cioè la maggioranza dei componenti di ciascuna Camera) nella seconda deliberazione;
– l’art. 138 prevede la possibilità di referendum costituzionale, qualora non si sia raggiunta nella seconda deliberazione la maggioranza dei due terzi.
Il disegno di legge costituzionale Boschi è stato approvato con la maggioranza assoluta nella seconda deliberazione e, pertanto, si è aperta la via al referendum popolare. Le caratteristiche del referendum costituzionale sono queste:
– ha carattere eventuale e facoltativo perché deve essere richiesto, entro tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta, da un quinto dei componenti di una Camera, o da cinque consigli regionali, o da cinquecentomila elettori;
– il testo sottoposto a referendum deve essere approvato dalla maggioranza dei voti validi;
– non c’è quorum per la validità del voto (a differenza di quanto avviene per il referendum abrogativo).
Il referendum è quindi uno strumento eventuale nel procedimento costituzionale che, nel caso italiano, ha una funzione di garanzia: esso cioè permette, alle minoranze qualificate, di opporsi al testo costituzionale approvato dal Parlamento. In realtà lo strumento referendario, oltre alla funzione garantista, ha assunto nel tempo connotazione “oppositiva”, “di controllo”… fino a giungere ai nostri giorni in cui il referendum è utilizzato come mezzo “confermativo” della revisione.
Nel caso della riforma Boschi è stata, infatti, la stessa maggioranza che ha sostenuto la riforma a richiedere la sua sottoposizione al corpo elettorale, per rafforzare la propria legittimazione.
Vi è inoltre chi ha giustamente sottolineato, sia sul piano politico che su quello strettamente giuridico, la scarsa legittimazione dell’attuale Parlamento, eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale (sentenza 1/2014), a modificare norme di rango costituzionale. Il referendum autunnale, in questo senso, avrà, almeno in parte, un valore “sanante” perché andrà a conferire quella legittimazione democratica di cui i rappresentati, in questa fase transitoria, sembrano non disporre. È evidente però che ciò distorce il senso del referendum, nato come strumento di garanzia.
[1] Così Giuseppe Dossetti in un intervento durante il III Convegno dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, in Aa. Vv, Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, «Quaderni di Justitia» n. 2, Studium, Roma 1953, p. 146.