Simulacro


Daniel Kahneman (Nobel economia 2002) e Amos Tversky, psicologi israeliani, fondarono nel 1979 l’economia comportamentale, contro la teoria dei mercati razionali che eliminò il Glass-Steagall Act, varato per regolarli dopo la Grande Depressione del 1929, meno ampia e grave di quella del 2008. Di questa teoria nel dicembre 2011 Kahneman così diceva: «Ricordo la prima affermazione: “L’agente della teoria economica è razionale, egoista e le sue preferenze non mutano”. Ero attonito. I colleghi economisti lavoravano nel palazzo vicino, ma non avevo capito la profonda diversità dei nostri mondi intellettuali. A uno psicologo è di per sé evidente che la gente non è del tutto razionale né completamente egoista, e i suoi gusti sono tutto meno che stabili». Lo citano, in un libro su derivati e crisi, T.V. Somanathan, direttore alla Banca Mondiale a Washington, e V. Anantha Nageswaran, esperto UBS e Credit Suisse [The Economics of Derivatives, Cambridge UP 2015, p. 97]. Fare della realtà un simulacro costa caro.
Viverla bene paga, spiega Fabrizio Benedetti, professore di fisiologia umana e neurofisiologia alla Università di Torino. «I neuroscienziati tedeschi Esther Diekhof e Oliver Gruber hanno scoperto nel cervello umano un’area nei lobi prefrontali, cioè nella parte più anteriore del cervello, che inibisce i comportamenti impulsivi. Il desiderio di una ricompensa immediata ci spinge a un comportamento, che tuttavia viene inibito dalla ragione, cioè dalla previsione di una ricompensa ancora più importante. La ragione prevale sul desiderio. Possiamo chiamare speranza tutto questo, l’aspettativa, cioè, che il futuro sarà migliore. Spero che la mia salute sarà eccellente, e allora evito il dessert, spero che quel lavoro mi farà guadagnare bene, e allora evito di andare in spiaggia e mi metto a studiare. La speranza è dunque correlata all’attivazione di una zona anteriore del cervello che nel presente mi impedisce di mettere in atto un comportamento che altrimenti risulterebbe deleterio» [La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Mondadori 2018, pp. 56-7].
«Diversi anni fa il mio gruppo di lavoro e io iniziammo a chiederci come fosse possibile che una ricompensa nel futuro potesse inibire la sofferenza nel presente. Per esempio, se fuggo da una guerra e sono disposto a affrontare ogni genere di sofferenza pur di migrare in un luogo sicuro, delle dosi pesanti di morfina potrebbero farmi sopportare il dolore causato dalle botte e dalle torture di un individuo senza scrupoli che approfitta della mia fragilità durante il mio viaggio della speranza. È possibile che la speranza agisca come la morfina? La scienza deve inevitabilmente utilizzare modelli semplici per studiare fenomeni complessi. Lasciamo quindi il migrante e torniamo alla pratica medica quotidiana. La situazione della routine sanitaria non è poi tanto diversa» [p. 58]. «La speranza, l’aspettativa, la previsione di un beneficio futuro possono attivare nel cervello almeno due vie biochimiche: quella della morfina e quella della cannabis. Cervelli differenti utilizzano l’una o l’altra, e ciò avviene probabilmente su base genetica. Il punto cruciale è che la speranza di beneficio e i farmaci utilizzano gli stessi meccanismi. Ed è questa la forza della speranza: effetti biologici potenti e capacità di condizionare il cervello, rendendolo pronto a raggiungere l’obiettivo prefissato. Immaginiamo di aver contratto una grave malattia, di stare male, tanto da non poterci muovere. Il desiderio di guarire è automatico; non c’è bisogno di pensarci, anche determinati comportamenti sono automatici, come restare a letto, immobili, oppure non muovere un arto dolente. Ma tutto il resto non è automatico. Lo dobbiamo creare noi, sia la fiducia sia il comportamento appropriato, e solo quando questi saranno consolidati nella nostra mente e nel nostro corpo, potremo avere forti aspettative di guarigione» [p. 61]. «I primi elementi della speranza di guarire sono il desiderio e la motivazione. Il termine ‘motivazione’ è emerso dall’esigenza di spiegare la grossa variabilità dei comportamenti, animali e umani». «La motivazione può essere considerata come uno stato del cervello che aumenta il livello di allerta, stimolando l’organismo ad agire, e organizza una sequenza coerente di comportamenti che mirano a raggiungere un obiettivo specifico. La motivazione è correlata con l’attivazione, nel nostro cervello, del neurotrasmettitore dopamina: maggiore la motivazione, maggiore il rilascio di dopamina, soprattutto in una zona del cervello che si chiama ‘nucleo accumbens’. Diversamente dal desiderio e dalla motivazione a guarire, che sono risposte quasi automatiche miranti a sopprimere o ad alleviare il disagio, e sono pressoché presenti in tutti, la fiducia emerge in modo differente nei diversi individui in base alle credenze personali, alla cultura e alla società in cui vivono» [pp. 62-3]. «Dal punto di vista biologico ed evoluzionistico, la fiducia è una proprietà del cervello umano che ha rilevanza determinante nell’innescare un comportamento prosociale o antisociale. Un comportamento prosociale è caratterizzato dall’avvicinamento verso la persona o l’oggetto, mentre uno antisociale consiste nell’opposto, cioè l’allontanamento» [p. 65]. «L’ultimo ingrediente cruciale della speranza è l’aspettativa, che è una vera e propria macchina del tempo che ci permette di prevedere un evento futuro. La previsione del futuro, ovviamente entro certi limiti, è una capacità propria di molti esseri viventi. In particolare, prevedere un pericolo ci permette di anticiparlo, mettendo in atto un repertorio comportamentale adeguato. In questo senso, la specie umana si differenzia da qualsiasi altro animale per il fatto che il pericolo può essere comunicato una volta per sempre». «Esiste una vasta area nella parte anteriore del cervello, i lobi prefrontali, responsabile dell’aspettativa di un evento futuro, e il meccanismo si basa sull’immagazzinamento di esperienze passate che, tutte insieme, ci permettono di anticipare un evento» [pp. 68-9].
Il cenno di Benedetti ai migranti è illuminante. Anche la previsione strategica non predice il futuro, ma la si elabora per renderlo migliore e decidere che cosa desiderare o cambiare per vivere un presente convulso, agitato da forze incerte, complesse, accelerate [Tuomo Kuosa, The Evolution Of Strategic Foresight. Navigating Public Policy Making, Gower 2012, p. 228]. La speranza migliora anche il futuro sociale, ma i comportamenti antisociali sono un mercato per gli imprenditori politici: «azione, fenomeni e eventi sono ‘contestuali’, cioè prodotto in certa misura di circostanze che li generano e formano» [Peter Dahlgren, Lund University, The Political Web, Palgrave Macmillan 2013, p. 148]. I paesi di Visegrad combattono migranti che non hanno e altrove «il processo va tanto lontano da costruire il potere politico sulla guerra: guerra e potere sono coessenziali» (in Somalia, Repubblica Centro-Africana, Congo, Yemen, Sud Sudan, Afghanistan, Iraq, Siria, Mali, Libia) [Bertrand Badie, professore di relazioni internazionali a Science Po, «Toward a Theory of Weakness Politics: Does Weakness Rule the World?», Global Society, 2/2018, p. 141].
In passato, «la volontà unica dell’America di guidare fondendo potere e legittimità l’ha portata all’egemonia eliminando l’Unione Sovietica. L’ordine mondiale che ha progettato è il veicolo di quella filosofia. Ma Trump preferisce andare indietro alla vecchia idea che il potere è diritto. Il suo istinto può avviare una nuova geopolitica, ma non servirà l’America o il mondo a lungo. Ricordatevi le parole di Henry Kissinger: l’ordine non può semplicemente essere ordinato; per durare deve essere accettato come giusto» [The Economist, «Demolition man», June 9th 2018, p. 13].
Figurarsi l’ordine ordinato da Visegrad, Austria, Italia, Baviera. Le destre europee non vogliono abbattere l’UE, ma dominarla tenendo sotto controllo noi cittadini e volgendo su capri espiatori la rabbia prodotta dal neoliberismo. Il populismo «fu un fattore centrale nello sviluppo del neoliberismo negli anni 1970 e 1980. Perciò, si può capire che un analogo populismo in mano alla estrema destra possa far parte della struttura stessa neoliberale» [Owen Worth, docente di relazioni internazionali e economia politica internazionale alla Limerick University, Rethinking Hegemony, Palgrave 2018, p. 157]. «Persino in Europa occidentale e Nord America le lezioni apprese dopo il 1945 sul mondo che generò l’Olocausto e le contromisure allora adottate, sono ora attaccate». «Una certa visione capitalista del libero mercato ha via via perso di vista il contratto implicito che per lo più le nazioni occidentali fecero coi loro popoli dopo la seconda guerra mondiale. Nel contratto c’era la promessa che il governo avrebbe provveduto i servizi fondamentali e la sicurezza in cambio della rinuncia dei cittadini all’estremismo politico» [Peter Hayes, Why? Explaining the Olocaust, W.W. Norton & Co 2017, p. 334].
La genealogia del populismo neoliberale è fondamentale. «Fu l’esperimento cileno a permettere agli economisti e agli strateghi neoliberali di volgere la loro attenzione al cuore del mondo sviluppato. L’elezione di Thatcher e Reagan diede luogo a esperimenti diversi sui principi del neoliberismo. Ciò che divenne evidente per entrambi fu che si impegnarono in una forma di populismo che fornì la base per una nuova forma di senso comune». Dopo il colpo di stato del 1973 «sostenuto da attori economici internazionali, sicurezza USA e economisti radicati nella logica neoliberale», «reprimendo ogni opposizione e con lo stretto controllo sulle forze di sicurezza, Pinochet radicalizzò la trama della economia del Cile secondo linee di riforma di mercato. Come molti liberali avevano sostenuto nei circoli della Mont Pelerin Society, lo stato doveva avere un ruolo centrale nel forgiare una società di mercato. In quel caso lo stato agì». «Il passo fu benaccolto da molti intellettuali centrali nel pensiero neoliberale. Milton Friedman divenne consulente stabile del governo Pinochet e con i suoi associati addestrò il gruppo di giovani economisti all’avanguardia della rivoluzione economica cilena dopo il colpo di stato. Anche Hayek fu un forte sostenitore del nuovo regime, dichiarando che preferiva una ‘dittatura liberale’ a un governo democratico carente di liberalismo» [Worth, cit., p. 92].
È la stessa formula del populismo europeo, già operativa nei paesi di Visegrad e in Austria.
Trump e destre europee sono populisti non per intesa, ma per emulazione in un azzardo economico e politico (Susan Strange, London School of Economics: Casino Capitalism, Basil Blackwell 1986, e Retreat of the State, Cambridge UP 1996). Secondo Michael Wolff «l’idea di Bannon è che Trump è un capitolo, una deviazione persino, della rivoluzione Trump, che da sempre attiene alla debolezza dei due partiti maggiori. La presidenza Trump – non importa quanto duri – ha creato l’apertura che fornirà ai veri outsider la loro opportunità. Trump era giusto l’inizio» [Fire and Fury. Inside the Trump White House, Little Brown 2018, p. 310]. Simulacri di potere, violenza reale.
Ciascuna per sé le ‘dittature liberali’ vogliono imporre il paradiso neoliberale con la violenza, in UE per ora ideologica e politica, pur se con perdite umane collaterali, non solo di migranti. Ma nel vicino Medio Oriente il potere è già diritto e rinvia all’intervista del febbraio 2003 (a Elsevier, settimanale olandese) di Martin van Creveld, professore di storia militare a Gerusalemme, Hebrew University: «Possediamo molte centinaia di testate atomiche e razzi e possiamo lanciarli ovunque … La maggior parte delle capitali europee è un bersaglio per le nostre forze aeree» [citato da Gwynne Dyer, già docente alla Royal Military Academy di Sandhurst, UK, After Iraq. Where Next For The Middle East?, Yale UP 2008, p. 211].
È tempo per l’UE di diventare una democrazia federale, con una vera politica migratoria, un onesto patto sociale e un’efficace politica estera. Ci ha dato la pace, non scontata, perché «lo stato moderno, dopo tutto, è sia il ‘protettore essenziale’ sia il ‘principale trasgressore’ dei diritti umani. In subordine, un esteso apparato coercitivo può sopraffare gli effetti ‘pacificatori’ della democrazia, banalizzando gli eccessi repressivi di regimi autoritari» [Wade M. Cole, University of Utah, «Does Might Makes Right? Coercitive Capacity, Democracy, and Human Rights», Journal of Human Rights, 2/2018, p. 148]. In Turchia, per dire. E l’euro ci ha protetti nella crisi finanziaria globale generata, partorita e allevata dal dollaro nel Nuovo Secolo Americano. Ma, anche qui, non basta.
«L’Occidente ha studiato la rabbia sprigionata dalle Primavere Arabe, ma non è riuscito a cogliere in sé il crescente rancore presto istituzionalizzato nell’elezione di politici che canalizzavano, forse persino condividevano, un’identità fissata anzitutto sulla negazione». «Entrambi i fenomeni sono stati provocati da radicati maltrattamenti e ingiustizie e la ‘civilizzata’ assenza di violenza del rancore, una volta istituzionalizzata, può finire col diventare più perniciosa e destabilizzante di manifestazioni violente e cruente» [Rupert Brodersen, PhD International Relations, London School of Economics, Emotional Motives in International Relations. Rage, Rancour and Revenge, Routledge 2018, p. 529]. «La vera prova delle missioni civilizzatrici, tuttavia, sta nei loro risultati non nei tempi buoni, ma in quelli cattivi» [p. 539]. «Se rendiamo giustizia alla realtà storica della democrazia moderna dobbiamo guardarci dall’opporre le istituzioni a chi le contesta, e dobbiamo invece sforzarci di capire il gioco che li lega reciprocamente. Dobbiamo riconoscere che non esistono diritti senza potere, anche se – ma sono casi limite – ci sono forme di potere che privano gli individui di ogni diritto» [Catherine Colliot-Thélène, professore di filosofia all’Université di Rennes I, Democracy and Subjective Rights. Democracy Without Demos, Introduction, schermata 521.2, ECPR Press 2018].
L’UE ha grandi poteri e responsabilità, con noi europei che nonostante tutto stiamo meglio del resto del mondo. «Le varie forme di blocchi regionali venuti alla ribalta dopo la guerra fredda non facilitano né combattono il neoliberismo. Sono invece istituzioni che possono essere usate a molti scopi e hanno il potenziale di integrare, gestire, limitare o respingere le pratiche egemoniche. Nel loro potenziale, le forme di integrazione regionale appaiono aperte nel loro potenziale» [Worth, op. cit., p. 176].
La speranza di migliorare, lo testimonia Benedetti, è uno strumento indispensabile.

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