Sinner come operetta morale


Il profilo con cui il tennista Jannik Sinner si è presentato sul palcoscenico della “massima fama sportiva” ha elementi di una certa novità. Colpisce, immediatamente, una facile correlazione con il “bravo ragazzo”, che guadagna la sua gloria senza uscire dalla “misura”: continue sedute di allenamento, relazione stretta con i genitori, riconoscenza verso gli allenatori, soprattutto “duro lavoro su di sé”. Proprio qui, tuttavia, appare un elemento trasgressivo, che non è soltanto “costruzione del personaggio”, ma credo vada anche ad incidere sulla forma cosciente, in lui e nel suo entourage, di una duplice trasgressione. Provo ad esaminarle entrambe.

a) Sinner e il lavoro

Apertamente e quasi senza schermi, Sinner ripete: devo ancora lavorare.  Lo dice sia prima della partita, sia durante la partita (ovviamente col corpo, non con la bocca) sia alla fine della partita. Il tennis è diventato, per Sinner, la sua “virtù”. Ma il tono con cui Sinner risponde in termini di “lavoro” corrisponde ad una cultura del “compito morale” che per la tradizione italiana non è così evidente come lo è per la cultura tedesca. Essere al 100% italiano non è perciò del tutto vero. Nessun dubbio sul piano della cittadinanza, qualche dubbio su piano della cultura. Questa differenza non ha a che fare con lo stereotipo del “tedesco impegnato” e dell'”italiano svagato”. Qui non conta il “lavoro”, che certamente accomuna tutti i tennisti (italiani, tedeschi, russi o argentini), ma il ruolo che il lavoro ha nella autocoscienza del tennista. Non deve stupire il fatto che ci siano italiani di cultura tedesca: il cosiddetto “alto Adige” (che  culturalmente è Sud-Tyrol) ne è pieno. Coltivare il tennis come una “virtù” significa strutturare la esistenza nel continuo perfezionamento dei singoli colpi, nel modo di reagire alle difficoltà, nel modo di esultare nei momenti felici. La misura che contraddistingue il comportamento di Sinner in campo è anch’essa il frutto di un “lavoro su di sé”. Questo non significa affatto che Sinner non si diverta. Anzi, parla spesso del “gusto della partita”, ma è come se volesse sempre comunicare che la gioia del gioco felice dipende dal lavoro precedente, quello che non si vede in televisione, ma che sta nel cammino lento e progressivo del giocatore, appunto come “abitudini apprese”, come virtù. Un giovane di 22 anni che parla tanto della virtù, più che un evento tennistico, è un fatto culturale. E le gustose geometrie, con cui la pallina gialla disegna trasversalmente il campo di gara, sono il frutto di un lavoro sulla racchetta che la trasforma in una sensibilissima prolunga della mano.

b) Sinner e le emozioni

Le domande che i giornalisti rivolgono sempre ai campioni, subito dopo il momento in cui vincono (lo scudetto, il giro d’Italia, una gara di canoa o un torneo di tennis) sono sempre le stesse. Soprattutto si concentrano su una domanda: “che cosa hai provato?”. Al campione si chiedono le emozioni. Mi ha subito colpito il fatto che Sinner non parla mai delle emozioni, ma del lavoro fatto, della bravura dell’avversario e dell’aiuto che ha ricevuto. Questo è davvero sorprendente. E questo tratto si compone, per differenza, con la insistenza sul lavoro. Se ti concentri sul lavoro, metti da parte le emozioni. O, meglio, le differisci e le trasferisci. La virtù, si potrebbe dire, è l’arte di differire le emozioni e di spostarle parzialmente sull’atto di lavoro su di sé. Sinner può restare così freddo nell’esercizio del suo “gioco” per il fatto di essersi emozionato prima, durante la preparazione, e per poter concentrare la emozione più piena alla fine, all’ultimo scambio, dell’ultimo gioco, dell’ultimo set. Forse in questo intreccio particolare tra emozioni e lavoro sta la particolare qualità del giovane tennista di nazionalità italiana, ma di cultura tedesca. Tra le cose più sorprendenti che ha dichiarato, vi è una frase sorprendente sul fatto che i genitori lo hanno sempre lasciato libero di scegliere. E che tutti i genitori dovrebbero essere come i suoi. Ma è chiaro che per Jannik Sinner la “libertà” consiste nel “lavoro su di sé”. Non è libertà emotiva, ma virtuosa.

Questi aspetti della sua persona, che può facilmente diventare stilizzazione “da personaggio”, credo possano essere un elemento di “trasgressione” delle evidenze comuni e di maturazione per molti giudizi, che vanno ben al di là di un semplice “evento sportivo”. Il fatto che uno “sport” diventi un “lavoro” – cosa che dovrebbe sempre anche stupirci – non impedisce affatto di leggere ogni lavoro come una forma di progressivo miglioramento di sé nella relazione con gli altri. Che un giovane campione del tennis ci faccia pensare alla relazione tra lavoro ed emozione, invitandoci ad uscire dagli stereotipi, non è cosa da poco. E’ quasi una operetta morale in forma sportiva.

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