Sinodo e sacramenti: tra società dell’onore e società della dignità


“Initium ut esset, homo creatus est” (Agostino)

La stagione sinodale, che riguarda il percorso universale, i percorsi continentali e nazionali, talora anche gli itinerari diocesani, offre una occasione preziosa per riflettere a fondo sulla esperienza sacramentale, con riprese profonde, in cui ripensamento e riqualificazione si incrociano. Molto si potrebbe dire di ciascun sacramento: delle dinamiche di iniziazione e di guarigione, del rapporto tra i primi 5 sacramenti e le dinamiche degli ultimi due, matrimonio e ordine. Non vi è dubbio che, negli ultimi appuntamenti sinodali, proprio questo aspetto ha guadagnato una attenzione maggiore: eucaristia e penitenza in relazione al matrimonio, nei due sinodi sulla famiglia, mentre oggi si fa notare la domanda di partecipazione al governo della Chiesa e al ministero ordinato, di laici sposati e di donne. Per capire meglio che cosa viene messo in gioco nelle discussioni sinodali, vorrei mostrare alcuni punti di evidenza, in cui la dottrina tradizionale è costretta ad esprimersi in modo più efficace e più fedele, secondo quella “indole pastorale” che il Vaticano II ha provvidenzialmente riscoperto.

a) I sacramenti come persone in cammino

Una prima avvertenza, che oggi maturiamo non poco grazie al duplice sinodo sulla famiglia, può essere così espressa. La tradizione latina, a partire dal XII secolo, ma non prima, ha cominciato a pensare i sacramenti come “cose”. Certo “cose sacre”, ma pur sempre cose. Prima di allora non era difficile trovare elencati non i sacramenti, ma i soggetti impegnati nel cammino di iniziazione, di guarigione e di vocazione/servizio. Pensare la chiesa come l’insieme di catecumeni, di neofiti, di partecipanti alla messa e alla preghiera, di penitenti, di malati, di coniugati e di ministri al servizio della chiesa appare una prospettiva tanto antica quanto nuova, capace di disinserire tutti quei meccanismi burocratici e clericali che bloccano la esperienza ecclesiale. Uomini e donne in cammino verso la comunione con il Dio di Gesù Cristo.

b) Sacrementi non solo “propter homines”, ma anche “per homines”

Il secondo punto di evidenza è legato all’ampliamento di una nozione classica, che sa da sempre che i “media salutis”, le mediazioni della salvezza, sono “per l’umanità”. Gli uomini e le donne non sono però soltanto i destinatari della salvezza, ma sono anche implicati radicalmente nella mediazione. Per questo dovremmo aggiungere a “propter homines” anche “per homines”. La umanità non è solo “alla fine del sacramento”, ma è al suo interno. Per alcuni sacramenti questo è straordinariamente evidente, anche se spesso noi ce ne dimentichiamo. Tommaso d’Aquino ripete fino alla noia che nella penitenza e nel matrimonio il soggetto non è soltanto “destinatario del dono di grazia”, ma è implicato con il suo corpo, con la sua volontà, con la sua parola, dentro la struttura essenziale del sacramento. Ed è ovvio che se un sacramento implica il soggetto al suo interno, risente dei cambiamenti che il soggetto vive sul piano storico, culturale, coscienziale e sociale. Il “contratto” che istituisce umanamente la logica matrimoniale non è un concetto teologico, neppure quando si trasforma in patto o in alleanza. Il modo di pensare le “parti” del contratto non va da sé. E questo cambia il modo di vivere e di celebrare il sacramento. Lo stesso vale per la penitenza, in cui gli atti del penitente sono “materia” del sacramento. La espressione “atti del penitente” è formula sintetica di dimensioni visibili e invisibili che il soggetto rielabora a fondo nel sacramento. Se questo si formalizza troppo, il sacramento evapora. Dire che i sacramenti sono anche “per homines” significa assumere la umanità di Cristo e della Chiesa come parte costitutiva del sacramento.

c) Servizio alla chiesa e mutamento della autorità e del soggetto

Nel sinodo dei vescovi sulla sinodalità il confronto nazionale, continentale e universale mostra bene alcune cose importanti: se l’oggetto del confronto è la “forma sinodale” della chiesa, è evidente che il modo di esercitare la autorità e i soggetti che la esercitano diventano, bene o male, il centro della attenzione. Nella consapevolezza che si tratta di rendere la chiesa docile ai disegni dello Spirito Santo, le forme che questa docilità può assumere dipendono da una comprensione in parte nuova di come si esercita la autorità e di quali sono i soggetti abilitati ad esercitarla. Le sfide vengono, in larga parte, da esperienze extraecclesiali. Il mondo moderno, mediante grandi rivoluzioni sul piano del lavoro e sul piano politico, ha profondamente cambiato sia la concezione della autorità sia la visione dei soggetti autorevoli.

d) Divisione dei poteri e articolazione degli “ordini”

Le nuove acquisizioni che il mondo tardo-moderno ha conseguito sul piano della “divisione dei poteri” e sul piano della “dignità femminile” hanno già inciso sul corpo ecclesiale. Sarebbe sufficiente vedere la progressiva riorganizzazione degli “ordini” per notare come, in due generazioni, la prassi che risaliva, grosso modo, a 1500 anni fa, e che era continuata in modo pressoché indisturbato attraverso medioevo e prima modernità, abbia subito un radicale ripensamento almeno su tre punti rilevanti:

  • il cursus che iniziava con la tonsura e finiva attraverso 7 gradi con il sacerdozio è stato spezzato in due: da una parte i ministeri istituiti, dall’altra i 3 gradi del ministero ordinato;
  • L’episcopato, che per molti secoli era rimasto fuori dal sacramento, come ufficio titolare della “potestas iurisdictionis” viene reintegrato come pienezza del sacramento dell’ordine;
  • Alla distinzione tra “potestas ordinis” e “potestas iurisdictionis”, la prima attribuita al sacramento, la seconda all”ufficio episcopale, si sostituisce una differenziata partecipazione ai “munera Christi” (profezia, regno e sacerdozio) che è in capo ad ogni battezzato, ad ogni ministro istituito e ad ogni ministro ordinato.

Questo profondo ripensamento implica anche, parallelamente, una elaborazione nuova del modo di esercitare la autorità – con una nuova emergenza del “collegio” dei presbiteri e dei vescovi – e dei soggetti titolari di questa autorità.

e) La riserva maschile e il ministero ordinato

La caduta della riserva maschile nei “ministeri istituiti”, realizzata da papa Francesco nel 2021, è l’ultimo segnale di questo cambiamento di paradigma nel modo di pensare la autorità e i soggetti. Anche le donne possono diventare “lettore” e “accolito”. L’effetto appare minore, ma simbolicamente il fatto è della massima importante: attesta un mutamento di prospettiva, che recepisce ciò che papa Giovanni XXIII aveva registrato nel 1963, con l’ultima sua enciclica Pacem in terris: ossia la entrata della donna nello “spazio pubblico” (mulier in re publica interest). Questo può cambiare tutta la teologia cattolica intorno al soggetto del ministero ordinato. La domanda che nella storia si è posta sulla donna era dominata dalla assimilazione culturale del femminile all’incapace (sul piano pubblico). Una “minorità pubblica” del femminile era un dato scontato della cultura comune europea, fino al XIX secolo. La Chiesa è rimasta vittima di questa ideologia. Essa mostra talvolta di essersene a tal punto affezionata da confondere la fedeltà ad una ideologia con la fedeltà al vangelo. Una mediazione sarà necessaria tenendo conto che il passaggio tra società chiusa e società aperta non è per nulla identico nei 5 continenti. Per questo una parola “centrale” passerà necessariamente per una unità nella differenza.

f) Società dell’onore e ruolo della donna nella società della dignità

Quale sia la autorità della donna non è un tema definibile dalla sola tradizione ecclesiale: perché l’uomo, come la donna, sono “animali che hanno la parola” e si definiscono in relazione a Dio, al prossimo e al mondo e solo in questo rapporto trovano e compiono se stessi. Essendo “ad immagine e somiglianza di Dio”, né l’uomo né la donna sono “programmati”. Questo è un nucleo di fede molto più decisivo di parole autorevoli sul ministero sacerdotale. Per questo motivo creaturale, sulla autorità della donna la chiesa non ha il monopolio. Pensare così significherebbe restare legati ad una comprensione della chiesa come “societas perfecta” e come “societas inaequalis”, in cui le differenze di status (chierici/laici e maschi/femmine) sarebbero il modo con cui Dio può essere ancora creduto: insomma una delle forme più imbarazzanti di quell’antimodernismo che ritiene di non doversi confrontare con la cultura per alimentare la fede. La Chiesa che si identifica con la “società dell’onore” diffida di ogni nuova eguaglianza e lega il vangelo a differenze sociali cristallizzate. Invece, come “segno dei tempi”, la donna “senza complessi di inferiorità” deriva dallo sviluppo storico moderno e pone fatti nuovi da cui la chiesa impara qualcosa di essenziale. Sostanza del ministero ordinato è la autorevolezza di entrambi i sessi, non l’unico sesso autorevole. Questa antropologia e sociologia della società della dignità condiziona in radice il sapere sacramentale e dogmatico sul ministero ordinato. Negarlo significa o uscire dalla storia o identificarsi con una storia solo passata. Sarebbe una riduzione pesante del significato della creazione, in cui “initium ut esset homo creatus est” (Agostino).

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