Sociologia del teologo cattolico: questioni aperte (di Italo de Sandre)


treteologi

Poco dopo metà di agosto, avevo pubblicato una riflessione sulla incidenza di una certa tendenza dei teologi al silenzio anche sulle più brucianti questioni liturgiche (cfr. Un equivoco e le sue ragioni: il largo consenso a papa Francesco e il silenzio di troppi teologi). Italo de Sandre, professore emerito di Sociologia della religione, con il suo testo qui pubblicato, amplia la questione e suggerisce importanti riflessioni sociologiche e istituzionali, che stanno alla radice di molte perplessità teologiche e epistemologiche. Mi pare un ottimo contributo ad un dibattito inaggirabile e da incentivare, anche in prospettiva sinodale. Italo de Sandre cita due grandi teologi P. Visentin e L. Sartori, che sono stati suoi e miei maestri. Del secondo ricorda la triste circostanza che gli ha impedito, per la sua parresia, di diventare “docente ordinario”. Vorrei ricordare che lo scandalo di questa incomprensione è arrivato non solo a non riconoscerne il ruolo fondamentale per la teologia italiana, ma anche a ridurre la sua teologia, addirittura nella omelia delle esequie, soltanto ad “alta divulgazione”. Anche questa parola singolarmente ottusa è causa ed effetto di un assetto istituzionale ed epistemologico che merita di essere convertito con assoluta urgenza.

TEOLOGI: RUOLI DEBOLI NEI RAPPORTI ECCLESIALI

di Italo de Sandre

Ho letto la riflessione di A.Grillo sul peso del silenzio dei teologi anche in questioni delicate come la tensione nella trasformazione tra l’impostazione della Summorum Pontificum e della Traditionis Custodes, così rilevante in campo cattolico non solo per la liturgia. Condivido del tutto la critica dura che capisco anche emotivamente, ma vorrei esprimere nello stesso tempo comprensione e com-passione per il ‘mestiere’dei teologi E allora non posso non allargare la riflessione – pur parzialissima – alla loro condizione sociale dal mio punto di vista di sociologo, laico, che ha insegnato per decenni come docente di ruolo all’università ed ha vissuto per quasi altrettanti anni rapporti di insegnamento e di amicizia con un liturgista come P.Visentin nell’Istituto di Liturgia Pastorale benedettino e con un teologo come L.Sartori alla Facoltà teologica di Padova. La mia esperienza strutturata in università l’ho vissuta con rapporti normalmente autonomi e peer (salvo certe cordate ai concorsi), mentre mi è sembrato in concreto di osservare delle ben diverse condizioni dei teologi, come docenti e studiosi, nella loro impegnativa situazione di vita, anche se a molti cattolici può sembrare privilegiata rispetto all’impegno pastorale quotidiano dei parroci in mezzo alla gente. Mi limito a quattro ambiti. Il tipo di autorità (regolata) e di potere (non regolato) che governa la cultura e le dinamiche organizzative in cui sono strutturati. Il tipo di relazioni interpersonali e di rapporti tra ruoli nell’istituzione ecclesiastica-accademica. L’emergere di persone non più solo presbiteri o religiosi, cioè laiche e laici sempre più motivati e preparati, che si specializzano in teologia e insegnano nelle scuole e nelle Facoltà teologiche (o vorrebbero farlo). Infine, il modo di interagire in generale con l’epistemologia e la ricerca scientifica in continua trasformazione.

Nella chiesa e nelle diocesi è ancora prevalente un modello di autorità del tutto piramidale, in cui il vescovo è il centro di tutto, nel senso che al di là della sfera di autorità che gli compete di fatto egli ha un forte potere di orientare informalmente pressoché tutte le scelte, difficilmente criticabili se non in sedi confidenziali. Questa struttura piramidale spesso si riproduce anche nei sotto-settori della diocesi e dell’accademia ecclesiastica. Al di là della cultura teologica personale del singolo vescovo – che a volte può essere carente – sono essi che debbono vigilare sulla correttezza ‘di fede’ dei lavori dei teologi, dei loro libri, in commissioni dottrinali previste dalle norme ecclesiastiche con la presenza esclusiva di vescovi, senza presenza peer di teologi accreditati. Così può essere che in vari casi si tenga più presente la fedeltà gerarchica del teologo rispetto all’acutezza o criticità del suo pensiero (non sono sicuro che a suo tempo D.Luigi Sartori sia mai diventato professore stabile), influenzando le procedure di valutazione per la stabilizzazione delle persone, specialmente quando c’è molto bisogno di docenti. Comunque capita spesso anche in università che venga premiata più la fedeltà di un candidato all’ordinario di riferimento della materia che non l’originalità del pensiero. Discorso in parte diverso può essere fatto per gli Istituti teologici di congregazioni religiose importanti, che pur all’interno delle norme canoniche generali, hanno una comprensibile maggior autonomia nella motivazione e selezione dei/delle docenti.

Questa diffusa impostazione ed esperienza dell’autorità influenza ed a sua volta è influenzata dai tipi di relazioni personali che si vivono negli ambienti ecclesiastici. Le relazioni interpersonali improntate all’amicalità e la trasparenza dei rapporti di ruolo dovrebbero essere vissuti come fondamentali in ogni ambito della vita ecclesiale, cosa che purtroppo non avviene nonostante il comando della carità. E dovrebbero essere ancor più importanti negli ambienti di studio e formazione teologici, dove il dialogo critico dovrebbe essere quotidiano e cordiale. Ma spesso i teologi (continuo ad adoperare il maschile plurale, dopo vedremo le implicazioni) sono caricati di altri incarichi, di collaborazione o direzione di associazioni o di settori di vita della propria diocesi. E può capitare, come in università, che diventino narcisisti, per cui non sviluppano dialoghi né dentro né fuori l’orto teologico, non abituandosi a lavori di gruppo e sensibilità condivise. Il rischio in ogni caso è che la produzione scientifica diventi molto individuale-individualistica, accademica in un senso non positivo del termine.

Negli ultimi vent’anni nelle Facoltà teologiche sono entrati più laiche (rare) e laici, e contemporaneamente la crescita degli Istituti superiori di scienze religiose ha visto moltiplicarsi non solo persone impegnate come insegnanti della religione cattolica nelle scuole statali ma anche come teologhe e teologi con una propria produzione teologica ed una presenza pubblica rilevante. Vent’anni fa nel nordest fu fatta un’indagine sui diplomati negli ISSR, la netta maggioranza era costituita da donne, che però non erano né si sentivano valorizzate e seriamente utilizzate da parroci e vescovi, se non in ruoli subalterni o poco rilevanti. Con il passare degli anni le cose sono migliorate, ma nelle Facoltà teologiche le donne sono ancora poche, e comunque i ruoli non sono ancora sufficientemente robusti anche dal punto di vista della stabilità e della remunerazione, per cui la prevalenza di presbiteri (secondo le retribuzioni ecclesiastiche) e religiosi/e (secondo il proprio ordine) è ancora del tutto ovvia.

Il problema a mio avviso più delicato riguarda l’epistemologia normalmente alla base dei ragionamenti di molti teologi e teologhe. Lo si è evidenziato quando il nuovo pontefice ha diffuso la sua prima esortazione apostolica, ‘Evangelii gaudium’, nel 2013. Molti l’hanno presa come una buona esortazione, appunto, bella, da citare per ossequio ma senza darvi culturalmente troppa importanza, altri l’hanno sezionata staccando un paragrafo da un altro ed evidenziandone le conseguenti incongruenze, oppure prendendo certe asserzioni e giudicandole secondo logiche filosofiche o teologiche tradizionaliste. Forse non molti si sono accorti che nell’impostazione del lavoro di Bergoglio c’era una chiara anche se incompleta impostazione ispirata al ‘pensiero complesso’ (si pensi agli ampi lavori di E.Morin con le caratteristiche e apparentemente paradossali espressioni ‘il tutto è più della somma delle parti’, ‘è meno della somma delle parti’, e infine, ‘il tutto è nella parte che è nel tutto’ come suo codice sorgente). Nell’ottica della complessità si osserva l’interazione riflessiva e ricorsiva di tutti i fenomeni, delle azioni e dei pensieri, si recepisce in modo costruttivo l’affermazione della ‘razionalità limitata’, del senso permanente del limite di qualsiasi realtà ed azione aperta perciò al dia-logo, alla ri-cerca, all’innovazione. Mi pare non siano molti in Italia i teologi che hanno compreso – in modo non retorico – questa impostazione epistemologica aperta alla complessità, denotando forse poca dimestichezza con gli sviluppi continui delle scienze e del loro metodo di sviluppo aperto e inter-agente. Penso che anche il modo di riflettere in teologia debba essere ‘complesso’, consapevole della propria razionalità limitata, aperta a dialoghi non solo con altra teologia, a confronti con il pensare delle altre scienze, senza avere la tentazione di sentirsi o voler diventare ‘dogmatica’.

 

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