Spigolature su incarnazione e pandemia (di Giordano Remondi)
Il caro Giordano Remondi – amico di lunga data e uomo di cultura veramente “politropa” – mi ha inviato questo intervento che s’inserisce bene nel dialogo filosofico tra Marcello La Mattina e Andrea Ponso (vedi post su questo blog del 25 luglio 2020). Il testo riguarda più l’incarnazione che la pandemia e ci ricorda che se cercheremo dapprima di avvicinarci il più possibile al racconto evangelico dell’evento del Figlio di Dio fattosi carne crocifissa, discesa agli inferi e apparsa risorta, potremo in seguito valutare con maggior lucidità anche l’attuale tragedia pandemica, purtroppo sempre più dilagante nel mondo, le cui ripercussioni nel nostro “particulare” non sono affatto semplici da decifrare con proprietà di linguaggio. Così la rilettura del rapporto avviene alla luce di due libri, uno contemporaneo e uno del 1925, il testo filosofico per eccellenza di R. Guardini, “L’opposizione polare”.
Il nesso intelligente e perspicuo tra incarnazione e pandemia, proposto da La Mattina e Ponso, mi ha richiamato un libro di Giovanna Morelli: Poetica dell’incarnazione.Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica, Postfazione di Romano Màdera, Mimesis (Collana Philo), Milano-Udine 2020. Come scrivo in una recensione pensata pochi giorni prima della pandemia ufficiale (il libro è uscito a gennaio) e poi ugualmente pubblicata sul numero 336-337 (marzo-giugno 2020) della gloriosa rivista napoletana «Il Tetto» – ringrazio gli amici della rivista per la gentile concessione di riprendere quasi integralmente alcuni capoversi –, Giovanna Morelli dialoga, tra gli altri, con Max Scheler, con Martin Buber, con Gregory Bateson, ma è soprattutto Ivan Illich a fornire la sponda del libro, non a caso a lui dedicato in esergo. L’autrice infatti si riconosce nella pratica illichiana della filosofia come askesis, «un’askesis che, contrariamente all’accezione penitenziale del termine, è volta alla riconquista del piacere conviviale della nostra umanità» (p. 19). Nel rilanciare il tema illichiano della incarnazione, l’autrice invita alla cura di uno «sguardo philo-reale», sintonizzato con il gioco sistemico delle tante dimensioni, attraverso le quali diamo forma a noi stessi e alla realtà; altrettante «esperienze di soglia o domîni aperti, permeati dal proprio oltre» (p. 48; corsivi miei).
Si tratta dunque dell’interdipendenza dell’io e dell’altro, della natura e della cultura, dell’uomo e del mondo, della mente e dei sensi… e infine, soprattutto, della carne e dello spirito, non opposti ma solidali nella densità irriducibile della persona. Oserei dire, con Romano Guardini, che la persona è simbolo di esteriorità e nascondimento, in quella tensione tra opposti che rivela l’autenticità del soggetto nel suo «essere-l’uno-di-fronte-all’altro». Per questo motivo, Morelli individua il vertice simbolico di tale orizzonte pluridimensionale nella vicenda terrena di Gesù di Nazaret che è “apocalittica”, ossia rivelatrice del compito messianico assegnato dal Padre di “incarnare” la comunione salvifica con l’umanità. Morelli la chiama, filosoficamente in modo originale, “trascendenza incarnata”, in quanto, avvicinandosi alla scrittura evangelica, ha trovato che glorifica la carne come nessun altro testo coevo (cfr. p. 63). Di questa prospettiva l’autrice argomenta le benefiche ricadute psico e socio biografiche, per superare le barriere interiori, innalzate dalla fuorviante contrapposizione tra le varie dimensioni del reale, che finiscono appiattite l’una sull’altra oppure disintegrate (un aggancio con la catastrofe pandemica potrebbe partire da qui, ma non è ancora maturo il tempo di farlo durante il lato buio della nostra “discesa agli inferi”).
“Trascendenza incarnata” è un sintagma concettuale che traduce il neotestamentario racconto dello “svuotamento luminoso” (kenosi gloriosa, detta in gergo teologico) vissuto dal Figlio di Dio Gesù di Nazaret. Si avvicina alla “filosofia del concreto vivente”, sostenuta da Romano Guardini, che Morelli non cita, ma con il quale potrebbe essere d’accordo, almeno nel suo nucleo originario. Guardini, infatti, non parla né di contraddizione, né di contrapposizione, ma di «figure in tensione», appunto opposizione polare, che è il titolo dell’opera in cui così si esprime: «Le coppie di opposti sono unità. Non meccanica, ma vivente. Non nel senso che l’uno venga appiattito, assimilato all’altro, ognuno resta nella sua forma particolare […]. L’unità non consiste nella coesistenza, poniamo, tra due opposti in quanto semplicemente legati fra loro. Si tratta di reale unità, così stretta e intima come due parti di un innesto: nessuna può esistere o essere pensata senza l’altra. Compresenza, non solo, anzi ognuna in-esiste nell’altra. Proprio questa è l’unità vivente» (L’opposizione polare [1925], Morcelliana, Brescia 2007, p. 151; trad. rivista).