Sui 4 principi di papa Francesco: il dibattito prosegue
Nei post precedenti le critiche ai “4 principi” di papa Francesco hanno aperto un dibattito tra G. Meiattitini, S. Biancu e chi tiene questo blog. Ho voluto riprendere, in questo post, alcuni “commenti” degli stessi autori, per dare loro il dovuto rilievo e alimentare riflessioni necessarie sul magistero di papa Francesco. Per comprenderli occorre, evidentemente, tenere presente il contenuto dei post precedenti sul tema. Segnalo inoltre su questo stesso sito di Munera l’intervento sullo stesso tema nel blog di Gh. Lafont: http://www.cittadellaeditrice.com/munera/le-temps-est-il-superieur-a-lespace/
26 agosto 2016
Ringrazio il prof. Biancu della sua attenzione alla questione da me sollevata e delle sue osservazioni. Visto che il suo intervento viene presentato come rispsota a Giulio Meiattini, quest’ultimo si permette di intervenire ancora scusandosi di nuovo per la lunghezza.
Dopo il tentativo di Grillo di riportare i quattro postulati nell’alveo “pastorale”, adesso emerge un’altra prospettiva: il “sapienziale-biblico”. Da notare en passant che “sapienziale” è una categoria molto scivolosa, analogamente alla categoria di “pastorale”. B. Seveso, uno dei pastoralisti più preparati in Italia, ha affermato che fin dal Concilio l’idea di pastoralità è rimasta “indeterminata” (“Teologia” 37 (2012) 383-414). Affermazione preoccupante, visto che tutte le riforme post-conciliari si sono mosse sull’onda della “svolta pastorale”! Anche “sapienziale” è una categoria vaga. Sapienzia dei detti e dei proverbi popolari? Sapienza nell’accezione della letteratura biblica sapienziale? Sapienziale come la teologia dei monaci medievali (che non è meno attenta alle sfumature e al rigore di quella scolastica)? Sono accezioni molto diverse. In ogni caso resto dell’opinione che il postulato (o i postulati) di EG siano di carattere filosofico. Riporto ancora una volta la “spiegazione” con la quale papa Francesco cerca di mostrare in EG n. 222 che il tempo è superiore allo spazio:
“Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il ‘tempo’, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio” (n. 222).
Come ho scritto nel mio intervento pubblicato nel sito di Magister, queste frasi a me appaiono incomprensibili. Ho letto dei testi più difficili di EG e sono riuscito, qualche volta anche con fatica, a capirli, o almeno mi è sembrato di capirli. Ma questo numero 222 mi risulta del tutto oscuro e incongruente. Non vedo come da frasi incomprensibili possa “emergere un principio” generale. Ho già segnalato in modo particolareggiato questo aspetto e non vi ritorno. Però il linguaggio usato dal papa è filosofico, non sapienziale-biblico, addirittura vi si usa il concetto di “causa finale”, di “utopia” (?) si parla di “tensione bipolare”. Linguaggio biblico? Mah! Non si fa cenno alla “speranza teologale”, non compare nessuna citazione o reminiscenza scritturistica.
Un’ulteriore osservazione: Biancu cita la pregevole opera di Heschel, “Il sabato”, che in effetti è una specie di inno al tempo come categoria dominante della Bibbia e dell’ebraismo, a partire dalla centralità del Sabato, mentre lo spazio sarebbe una categoria secondaria o comunque dipendente dal primato del tempo. Lui sì che fa una meditazione biblica. Non c’è qui “né lo spazio né il tempo” per sottoporre ad esame il testo di Heschel. Dico solo che molte affermazioni di quel libro, sarebbero tutte da puntualizzare, non per essere semplicemente contraddette, ma completate e riequilibrate. Si leggano con attenzione alcune di queste affermazioni: “Le festività celebrano gli eventi che si sono verificati nel tempo, mentre la data del mese fissata per ogni festività è determinata dalla vita della natura” (ovvero dalla spazio cosmico). Dunque, da questa frase, si potrebbe dire che spazio-tempo sono inseparabili nel ciclo delle festività. Poi però Heschel afferma, sorprendentemente, che invece: “L’essenza del Sabato è assolutamente al di fuori dello spazio” (???), “perché esso è completamente indipendente dal mese e non ha relazione con la luna” (???). Però, osservo io, ha relazione necessaria con il sole e con l’alternanza giorno-notte che esso determina col suo movimento spaziale dando origine ai giorni della settimana e dell’anno intero. E dunque? Direi che il bel libro di Heshel è, come ho detto, un “inno” e una esaltazione del sabato, ovvero va compreso in un genere letterario affine al poetico (se vogliamo, sapienziale), che usa una certa iperbole, che per dare risalto al valore teologico e spirituale del tempo usa l’enfatizzazione (che in certi casi è legittima), incorrendo in certe unilateralità forse accettabili “in quel genere letterario”.
Detto questo, e lasciando stare gli altri postulati di EG, per non mettere troppa carne al fuoco, io chiedo ancora che qualcuno mi spieghi alfine “perché” il tempo dovrebbe essere superiore allo spazio. Solo per garantire i processi? Ripeto che basterebbe parlare di riforma e di conversione al vangelo, di non restare aggrappati a cliché ed esperienze ripetitive, per sollecitare i cambiamenti virtuosi, come più o meno in ogni tempo della chiesa si dovrebbe fare. Se poi vogliamo fare una teologia del tempo-spazio, benissimo. Ma facciamo teologia, in ascolto della scienza e della filosofia, con tutto quello che ciò implica!
27 agosto 2016
caro Giulio,
nella tua risposta a S. Biancu metti in chiaro alcuni aspetti della tua critica al magistero di Francesco che meritano attenzione. Infatti se tu ritieni indeterminato il termine “pastorale” e vago il termine “sapienziale” allarghi di molto e con grandi rischi gli obiettivi della tua critica. Pastorale è termine chiave non solo di Francesco, ma del magistero di Giovanni XXIII, mentre sapienziale è il cuore dell approccio teologico di Vagaggini e Loehrer. Chi resta saldo in questo esercizio di critica filosofica? Quale teologia è veramente adeguata? Io ho il sospetto che l ideale filosofico da cui proviene la tua critica si trovi a suo agio solo con definizioni dogmatiche e canoni di condanna. E che si immunizzi dalla esigenza di conversione nel fare teologia che si è espressa proprio con quelle parole. Qui io trovo un atto intellettuale troppo sbrigativo che risolve il giudizio con le aggettivazioni di indeterminato e vago. Detto altrimenti: non ti sembra di esagerare?
Giulio Meiattini
27 agosto 2016
Caro Andrea, sono ben consapevole del rischio che tu metti in evidenza. Ma non è quella la “piega” che io intendo dare alla mia obiezione. Non metto in dubbio la “svolta pastorale” in quanto tale, né l’interesse dell’approccio “sapienziale”. La tua domanda perciò mi permette di spiegarmi meglio.
1) Il carattere “indeterminato” del pastorale è una osservazione che io ho letto nell’articolo di Seveso citato. E’ un’osservazione che mi ha sorpreso e mi ha permesso di focalizzare meglio alcuni angoli d’ombra che mi portavo da un po’ di tempo. La domanda che mi è sorta è stata: se uno specialista che ha passato decenni della sua vita a studiare e a scrivere sulla “pastorale”, giunge a dire che né il Concilio nè il dopo Concilio sono giunti a chiarire in modo soddisfacente il senso della suddetta svolta pastorale, allora in che acque navighiamo? In questo senso la diagnosi di Seveso è grave, almeno se è vera. Forse altri pastoralisti la pensano diversamente, non so… Nel campo non sono informato a sufficienza. Tuttavia, una buona dose di confusione obiettivamente c’è, ed è quella che ho segnalato nella mia prima risposta che ti ho indirizzato: si dice, per esempio, che Amoris laetitia non è dottrinale, ma pastorale. E così la si legittima. Poi si afferma, in altra sede, che il pastorale ha dei riverberi anche sul dottrinale… a questo punto scatta il corto circuito. Cos’è alla fine pastorale cosa è teologico-dottrinale?
Per questo, come ti dicevo nella mia prima risposta, il problema decisivo è quello di verificare quale tipo di rapporto tra pensiero e azione, teologia e pastorale intendiamo instaurare e promuovere. Su questo punto ho l’impressione che ci sia qualcosa di nebuloso di cui alcuni si approfittano e altri restano vittime. Prendiamo la famosa frase programmatica di Giovanni XXIII: si tratta non di cambiare la sostanza, ma la forma. Detta 55 anni fa poteva sembrare un’operazione facile. Poi la linguistica ci ha messo la pulce nell’orecchio e ci ha fatto vedere che il cambiamento di vestito non lascia intatto il corpo: se si cambia il significante, anche il significato non è più proprio lo stesso. Ti dico, con tutta sincerità, che non ho risposte da dare in merito a questo busillis, ma almeno cerco di denunciare le insidie e la povertà di strumenti di cui disponiamo per affrontare il problema. Non è assolutamente mia intenzione di tornare ad una teologia deduttiva.
2) A proposito del sapienziale. Tu sai che la mia tesi dottorale, e altre pubblicazioni successive, erano dedicate al chiarimento della categoria di esperienza in sede teologica, perché (in quanto monaco e in quanto teologo) ritengo che questa categoria possa servire ad uscire proprio da una teologia fatta solo di asserzioni rigide e resecate dalla vita e dagli affetti. Se ho scelto una categoria come quella di esperienza, significa anche che, pur in tutta la distanza dal modernismo, ritengo che il problema modernista vada ancora risolto. Non amo però la parola sapienziale, anche se Vagaggini l’ha usata e anche se io apprezzo quel tentativo vagagginiano, sulla cui linea mi sento del tutto in sintonia. Ma in Vagaggini , per quanto io possa averlo compreso, non c’è ambiguità nel gioco fra registro pastorale e teologico e liturgico e spirituale, che sono le quattro dimensione essenziali della sua opera maggiore.
3) La teologia dei monaci medievali (la famosa teologia monastica, detta spesso anche “sapienziale”) non rinuncia mai alla precisione “teologica”. Se per es. leggi i Sermoni di Bernardo sul Cantico, in quella esuberanza di simboli, metafore, retorica, che sembra poesia e letteratura (e lo è davvero) ci si accorge che non si cade mai in un linguaggio generico o pressapochista. Senza uscire dall’arte e dal simbolo, conserva la precisione del teologo. Lo stesso si dica di Ruperto, e di altri. Qui la dimensione mistica e esperienziale non è una scusa per abbassare il livello della riflessione. Questo abbassamento mi sembra che accada invece spesso oggi quando si dice “spirituale”, “mistico”, “sapienziale” e anche “pastorale”. E questo, come tu sai molto meglio di me, ha nuociuto anche alla liturgia. Nonostante la buona volontà e l’intelligenza dei liturgisti che hanno lavorato alla riforma, in pratica si è detto: “per esigenze pastorali facciamo così e così” e adesso abbiamo una media di celebrazioni liturgiche che infatti è proprio “così-così”, miserevole. Per esegenze pastorali celebriamo la veglia pasquale alle 18:30 (per es. nella basilica di S. Pietro), per esigenze pastorali anticipiamo la messa crismale al mercoledì sera (così tutti partecipano!!!), per esigenze pastorali posticipiamo la cresima dopo la prima comunione, per esigenze pastorali facciamo musica rock e pop nella liturgia… Scusa, se ci metto un po’ di passione, ma voi che a S. Giustina studiate la “liminalità” (e ve ne sono profondamente grato), ma perché non levate la vostra voce per dire chiaramente che nelle nostre liturgie l’esperienza della liminalità è del tutto assente, sempre “per motivi pastorali”?
Spero ora di essermi spiegato. Io non sono per una teologia fuori dalla sensibilità dell’esperienza (spirituale) e dalla prassi pastorale (che è inseparabile dall’esperienza, ma non identica). Purchè questo non sia una scusa per accettare linguaggi confusi e pensieri non pensati. Ora il linguaggio e il pensiero di molta parte di questo magistero pontificio non è all’altezza di questo compito, cioè del compito di mantenere una reciprocità feconda fra elaborazione teorica e impatto pastorale-spirituale.
Per finire! Vuoi un esempio in positivo di come questo possa essere attuato: si rileggano gli scritti di p. Mariano Magrassi e li si confronti col suo magistero episcopale, la sua meditazione liturgica, teologica, pastorale e la sua sensibilità sociale. Ma p. Mariano era formato alla scuola dei padri, che erano “pastori e dottori”, i due aspetti insieme. Oltre all’ odore delle pecore, avevano il profumo di Cristo. Questo è il titolo di un articoletto senza troppe pretese che da qualche tempo medito di scrivere: “Dal comune dei pastori e dei dottori…”.
Come vedi mi appassiono un po’, mi accendo, ma senza risentimenti, neanche verso il tempo…
Andrea Grillo
28 agosto 2016
Caro Giulio,
ho deciso di mettere anche questi tuoi commenti all’interno di un ulteriore “post” proprio a causa delle questioni che sollevano, con tutta la sincerità e la parresia con cui tu le fai emergere. E sono anche contento che tu, alla fine dell’ultimo commento, voglia prendere le distanze da letture che molto facilmente possono essere tratte dalle prime parole che tu hai scritto sul tema. In altri termini: se tu definisci “linguaggi confusi e pensieri non pensati” i termini del magistero di Francesco, questo mi preoccupa, anche se tu affermi di appassionarti e di accenderti senza risentimenti. Ma le contrapposizioni che introduci, ad esempio tra “odore delle pecore” e “odore di Cristo” non fanno che confermare le perplessità. Se davvero sei consapevole dei rischi di una critica della teologia “pastorale” e “sapienziale” – e io non ho ragioni per non crederti – perché devi sempre dubitare del nuovo come pericoloso e ti rifugi sempre solo nell’antico? Ti faccio un esempio, solo uno, ma molto chiaro: la tua discussione sulla definizione di “pastorale”, nei termini di una distinzione tra “forma” e “sostanza”, sembra considerata solo dal punto di vista dei rischi, e non dei vantaggi. Tu dici: la svolta linguistica ci ha messo la pulce nell’orecchio…in realtà ha cambiato il rapporto tra pensiero e linguaggio. E questa era la grande intuizione di papa Giovanni, che giustificava il Concilio Vaticano II proprio su questo piano. Di fronte al quale tu sembri solo esitare, restare in dubbio, confidando su “altro”. E anche il giudizio sulla Riforma Liturgica che lasci cadere nel tuo commento dipende da un concetto debole e basso di “pastorale”, come se fosse la negazione di “spirituale” e di “profondo”. E di certo le motivazioni della Riforma non hanno nulla a che fare con ciò che tu hai descritto come “riduzione pastorale”. Tu cerchi sempre “altro” da quello che è stato. Ma che cosa è, questo “altro”, se non la teologia precedente? Era forse il “rubricismo” la garanzia di una buona liturgia? Sei anche tu convinto che una “liturgia oggettiva” debba resistere ad ogni Riforma? Non credo.
Infine, e te lo dico davvero con cordialità, affermare che il “magistero pontificio” (di Francesco) non è all’altezza di questo compito mi sembra davvero troppo “sopra (o sotto) le righe”. Ripeto, in altri termini, sia pure all’interno di molte parole di chiarificazione, che pure tu hai scritto e che mi soddisfano in parte: non ti sembra esagerata questa richiesta di coerenza e di rigore al magistero, quando tu stesso – che sei molto più libero del magistero – non sapresti come uscire dagli imbarazzi “pastorali” e “sapienziali”? Non ti sembra che qui, davvero, iniziare processi di confronto con esito incerto sia superiore ad occupare spazi logicamente certi e garantiti?
Caro Andrea,
tutto il dibattito è iniziato dalle mie osservazioni critiche ad un principio enunciato da EG. Le mie obiezioni fino ad ora non hanno trovato una risposta adeguata. Si tratta di un principio da prendere come pastorale? Oppure come sapienziale? Io ritengo che il suo linguaggio sia filosofico, anche se non ha fondamenti filosofici. Che ciascuno sviluppi la sua ermeneutica. Ripeto: pastorale o sapienziale o filosofico che sia, quel principio dovrebbe comuqnue essere motivato con argomenti “comunicabili” e comprensibili. Resto ancora in attesa che mi si spieghino le ragioni di una superiorità del tempo sullo spazio, che il n. 222 di EG non mi sembra motivare in alcun modo. Sono disposto a cambiare idea se queste ragioni mi verranno spiegate. Mi sembra di non averle colte nel tuo intervento né in quello di Biancu, nonostante le mie ripetute domande. Una volta risolto questo problema passiamo ad altro. Altrimenti il dialogo non vedo a cosa serva.
Ti faccio notare, infine, che io non ho assolutamente posto nessuna contrapposizione tra odore delle pecore e odore di Cristo. Scusa, ma qui tu deformi la mia affermazione. Rileggi bene e vedrai che ho detto: “non solo l’odore delle pecore, ma anche l’odore di Cristo”, ovvero essere insieme dottori e pastori. Et et, insomma. Ho detto qualcosa che non va?
Le mie riserve sul pastorale e sul sapienziale (visto che sono emerse queste due categorie), dovrebbe ormai essere chiaro, non riguardano questi approcci in se stessi, ma il loro uso improprio e fallace. Che purtroppo è molto frequente e non sta portando buoni frutti.
Aggiungo un’ulteriore precisazione, oltre a quella sull’odore di Cristo e delle pecore. La tua espressione: “il giudizio sulla Riforma Liturgica che lasci cadere nel tuo commento dipende da un concetto debole e basso di pastorale”, è ancora una volta una reportatio inesatta e deformante di quanto io ho scritto. Non ho lasciato cadere nessun giudizio sulla riforma in quanto tale (rileggere per credere), ma ho scritto “Nonostante la buona volontà e l’intelligenza dei liturgisti che hanno lavorato alla riforma liturgica”, siamo arrivati alla presente condizione della liturgia. Questo significa che ho distinto la riforma (dei riti e dei testi) e la messa in pratica di essa, non sempre altrettanto intelligente. Ti pregherei di essere più esatto nel riportare il mio pensiero e di leggere con più attenzione quanto scrivo. Si potrebbe aggiungere, comunque, che la riforma in senso integrale non è solo quella dei riti e dei testi, ma è comprensiva della messa in pratica di essi. Inoltre prima di addebitarmi un “concetto debole e basso di pastorale” dovresti specificare meglio su cosa si basa questa critica. Dunque in questo dialogo, cerchiamo di stare a quello che l’interlocutore scrive, non alle congetture interpretative.
Forse il principio della superiorità del tempo si basa sulla buona notizia del compimento del tempo in Gesù Cristo. È Lui la pienezza del tempo… Come sottolineato da Papa Francesco, anche se non ricordo in che occasione. Non credo si possa dire altrettanto dello spazio.
Caro Giulio,
mi pare che anche Lafont resti piuttosto sorpreso dalle tue obiezioni. Tu sembri chiuso in un pensiero autoreferenziale e “stai ancora attendendo una risposta” che già in tre ti hanno dato e tu sembri non accorgertene. Parli con sufficienza di tutti e ti senti offeso perché non sei compreso. Non mi pare un buon modo di collocarsi in un dialogo fruttuoso. Se parli con sufficienza della Riforma Liturgica, devi avere la coerenza di accettare chi ti critica per quanto scrivi. E la contrapposizione tra odore delle pecore e odore di Cristo, che tu imputi indirettamente a Francesco, tutti possono leggerla ed è un gioco piuttosto infantile gettare il sasso e poi nascondere le mano. Se scrivi: “Ma p. Mariano era formato alla scuola dei padri, che erano “pastori e dottori”, i due aspetti insieme. Oltre all’ odore delle pecore, avevano il profumo di Cristo” vorresti dirmi che in questo modo non metti quasi in ridicolo la sottolineatura dell'”odore delle pecore” come se fosse dimentica dell'”odore di Cristo”? ma pensi forse che non sappiamo leggere quello che scrivi? E po fai bene a ricordare a “noi” che insegniamo a S. Giustina la liminalità…peccato che tu non ricordi che S. Giustina si chiama proprio “Istituto di Liturgia Pastorale” e che proprio nel senso alto del termine lì si studia la liminalità e la si sostiene. Ma tu che cosa fai? Scrivi: “voi che a S. Giustina studiate la “liminalità” (e ve ne sono profondamente grato), ma perché non levate la vostra voce per dire chiaramente che nelle nostre liturgie l’esperienza della liminalità è del tutto assente, sempre “per motivi pastorali”? Capovolgi la realtà e imputi a “noi” di non parlare contro la assenza di liminalità a causa di “motivi pastorali”. Lo vedi che tendi a usare “pastorale” sempre in modo basso e negativo? Eppure hai insegnato anche tu a Padova. Possibile che tu sia rimasto tanto immune da ogni contagio? Insomma, trovo ora piuttosto curiosa questa pretesa di “ottenere risposte” – che ancora stai aspettando – insieme all’atteggiamento di chi può parlare male di ogni teologia aperta, ma nega di farlo appena glielo si fa notare. Non mi sembra che, in questo modo, le tue obiezioni al magistero di Francesco riescano a risultare davvero così centrali e ad entrare in un dialogo effettivo con posizioni diverse, che tendono invece semplicemente a negare.
Sono rimasto davvero contento delle osservazioni del p. Lafont. Ho appreso molto dalle sue lezioni a Roma e soprattutto dai suoi libri. Sono contento di poter imparare ancora una volta da lui , tra l’altro mio confratello nella professione monastica. Il suo contributo si attiene “al merito” dei quattro postulati di EG con puntualità e questo mi permette di avvertire nelle sue parole una vera risposta alle domande da me sollevate in tutti i precedenti interventi. Vorrei fare solo alcune sottolineature (non esaustive) a commento del suo intervento, sul quale mi sento, in linea di massima, consenziente.
1) Innanzitutto la sua affermazione a proposito delle coppie polari di spazio-tempo: “Ici comme souvent, ces mots se présentent en couples qui sont et demeurent antagonistes : on ne peut pas supprimer un de leurs termes au profit de l’autre, ni identifier l’un à l’autre, ce qui serait effacer les deux. Il faut donc jouer avec l’identité et la différence”. Non posso che consentire pienamente, come si poteva evincere già dal mio primo intervento sul sito di S. Magister.
2) L’intervento del p. Lafont rappresenta una lettura “elevata”, e un’operazione interpretativa “intensa”, dei quattro postulati di EG. Così come lui li “interpreta” mi sento di condividerli o, meglio detto, condivido “la sua interpretazione”, o “trascrizione”, più che il testo ut iacet. “Se” quello che lui dice è la sostanza del messaggio dei quattro principi di EG, nulla da obiettare. Interessante e positivo è il fatto che egli non solo richiama le quattro bipolarità, ma anche una plurima polarità fra le quattro bipolarità, per giungere a una maggiore ampiezza di visuale.
3) Il suo rimando a Parmenide, Eraclito e alla tradizione filosofica, mi sembra che confermi la sostanziale natura filosofica dei quattro principi, o almeno che esse vanno interpretate entro questa tradizione di pensiero, anche se di queste categorie filosofiche egli sa intuire con equilibrio i risvolti ecclesiali e pastorali.
4) Unico punto sul quale apporterei una piccola precisazione correttiva è il rilievo attribuito al tempo nella Bibbia, nella parte finale del suo contributo: “l’Ecriture sainte est construite sur le temps avant de considérer l’espace”, con le spiegazioni che seguono. Che il tempo e la storia siano le categorie maggiormente messe in evidenza della “storia della salvezza”, mi sembra che sia una verità incontestabile. Vorrei solo ricordare che la “scena” (per usare categorie della Teodrammatica balthasariana) su cui si svolge tutta questa storia fra Dio e l’umanità è data dalla coppia “cielo e terra”. Barth, Moltmann e Balthasar, fra gli altri, insistono molto su questa inquadratura spaziale della storia universale e biblica in particolare. Fino alla conclusione di Apocalisse con “i cieli nuovi e la terra nuova”, che sono lo sfondo delle nozze escatologiche. Addirittura, Balthasar cerca i presupposti della simultaneità e positività di tempo e spazio nella stessa vita intratrinitaria in TD vol. V. E l’inizio della bibbia, citato in modo completo è: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Dunque, in conclusione, “ici comme souvent, ces mots se présentent en couples qui sont et demeurent antagonistes : on ne peut pas supprimer un de leurs termes au profit de l’autre, ni identifier l’un à l’autre, ce qui serait effacer les deux. Il faut donc jouer avec l’identité et la différence”. Per me questo basta! Non mi sento offeso e spero di non aver offeso nessuno!
Caro Giulio,
Sono molto lieto che tu ti ritrovi così bene a tuo agio nella prospettiva delineata da Lafont. Noto però, che, tra le cose che citi, manca proprio la frase finale, che a mio parere è decisiva:
“Tout cela, me semble-t-il, doit être accueilli avec bienveillance et jugé à l’aune non pas des acquis d’hier, mais d’une cohérence profonde avec l’intention innovante du Concile Vatican II, qui attendait peut-être ce genre de message pour développer ses potentialités dans l’Eglise certes, mais aussi pour le monde des hommes qui les attend sans le savoir.” Proprio questa determinazione a non giudicare sulla base delle acquisizioni di ieri, ma nella intenzione innovativa del Vaticano II mi pare una parola-chiave per l’apprezzamento del magistero di Francesco, su cui tu sollevi tanti dubbi. Che cosa ne pensi?
“d’une cohérence profonde avec l’intention innovante du Concile Vatican II, qui attendait peut-être ce genre de message pour développer ses potentialités dans l’Eglise certes, mais aussi pour le monde des hommes qui les attend sans le savoir”.
Caro Grillo, a mio parere sono solo parole condivisibili nella mentalità mondana. Se crediamo che la chiesa sia solo una struttura terrena, allora possiamo affibbiarle di tutto. Con una conclusione del genere, permetta la franchezza, la distanza tra questa chiesa così vagheggiata dalle “nuove e magnifiche sorti” non è poi tanto lontana da una associazione filantropica qualsiasi. Con il guaio che non si tratterebbe nemmeno di una Onlus: spero che Lei abbia letto qualcosa in merito al caso Soros (sta emergendo in questi giorni), che avrebbe lautamente finanziato certe aperture papali? Ecco, ormai possiamo sopportare tutto come fedeli, ma cerchiamo di chiamare le cose con il proprio nome. Grazie per questo spazio di parresia, se vorrà mantenerlo. Nella Chiesa ci dovrebbe essere posto per tutti, come ricorda papa Francesco.
Il “correttivo sapienziale” di Fides et ratio
Sull’argomento in questione è intervenuta anche l’Enciclica “Fide set ratio” nel 1998. Il testo mi pare che sia il riferimento unanime per la teologia attuale. Essa quale afferma, infatti, che oltre l’imprescindibile riferimento scritturistico, viene formulato con forza l’invito all’indirizzo della filosofia a recuperare la propria vocazione originaria1 «di ricerca del vero nella forma di una sapienza» 2.
L’auspicio è formulato in un testo che intreccia il codice metafisico tradizionale con il linguaggio sapienziale. Il carattere sapienziale della filosofia rinvia alla “portata autenticamente metafisica”3 . «La formalizzazione delle condizioni necessarie per mostrare l’originaria connessione tra la rivelazione biblica e il logos della libertà viene argomentata in senso finalistico»4 .
Al di là delle eventuali considerazioni sulle ‘sporgenze’ nel testo rispetto al modello codificato, «è interessante notare che l’istanza sapienziale in Fides et ratio apra alla tematizzazione della nozione di senso e di esperienza come categorie idonee a denotare “l’implicito antropologico nella questione della verità» 5 . Il ricorso al registro sapienziale appare, dunque, non solo come un ‘correttivo’ complementare al registro metafisico, ma una vera e propria ‘via’ da percorrere per riformulare l’istanza filosofica tout court.
Papa Benedetto sollecitava costantemente nel suo magistero pontificio un “allargamento del logos”6 . È in gioco la necessità di prendere definitivamente congedo dalla figura illuministica di una ratio autosufficiente a vantaggio del recupero dell’originaria capacità dell’uomo di «mantenere desta la sensibilità per la verità»7 e di corrispondere a quella ratio hominis digna di cui la teologia da sempre è chiamata a farsi carico in quanto sapere critico della fede.
A Ratisbona, il 12 settembre 2006, Benedetto XVI indicava il cammino per superare certe strettoie che la pur feconda “ragione moderna” aveva prodotto: «Con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umanoscientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze».
Nella prima Enciclica, “Deus caritas est”, Benedetto XVI introduce un termine, donazione, che non era abituale nel magistero, e tuttavia rende efficace quell’intenzione che aveva espresso a Ratisbona. «Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. L’immagine del matrimonio tra Dio e Israele diventa realtà in un modo prima inconcepibile: ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione».
Il paragrafo è dedicato a Gesù Cristo, l’amore incarnato di Dio e intende descrivere la sua missione culminante nella Pasqua, nel legame e nella partecipazione alla donazione di Gesù che diventa unione nuziale. La dinamica di tale unione avviene secondo la logica del dono, dove all’azione donante segue la riconoscenza e l’obbedienza della fede. L’eticità del riconoscimento intersoggettivo è necessaria al sapere della verità, non semplicemente perché la dignità dell’uomo ne impone l’adempimento, in termini di fondazione; ma anzitutto perché la giustizia del fondamento ne prescrive l’attuazione, in termini di obbedienza8 . «È questo il carattere sapienziale della pratica filosofica conseguente l’esercizio dell’umana intelligenza»9 .
1. Il paragrafo seguente con relative note è di S. Didonè: “La struttura antropologica della fede”, op. cit., p. 23.
2. Cfr. “Fides et ratio”, 10.
3. Cfr. “Fides et ratio”, 83.
4. «Per essere in consonanza con la parola di Dio è necessario, anzitutto, che la filosofia ritrovi la sua dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa prima esigenza, a ben guardare, costituisce per la filosofia uno stimolo utilissimo ad adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò facendo, infatti, essa non sarà soltanto l’istanza critica decisiva, che indica alle varie parti del sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come istanza ultima di unificazione del sapere e dell’agire umano, inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso definitivi. Questa dimensione sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l’immensa crescita del potere tecnico dell’umanità richiede una rinnovata e acuta coscienza dei valori ultimi» (FR, 81). Il testo dell’enciclica enuncia un compito che attende di essere svolto, ovvero lo svolgimento della teologia filosofica in chiave biblica. L’istanza sapienziale fa riferimento alla “trascendenza immanente”, ovvero alla qualità di trascendenza intrinseca alle forme dell’agire umano. Per un approfondimento cfr. A. Bertuletti, “Fides et ratio. L’intenzione enunciativa dell’Enciclica ed il suo modello concettuale”, “Teologia” 24 (1999) 289-295.
5. Si rinvia a M. Epis, “Nuovo corso di teologia sistematica. Vol. 2: Teologia fondamentale. La ratio della fede cristiana.”, Queriniana, 2009, p. 573.
6. Nelle intenzioni di Benedetto XVI, l’invito ad «allargare gli spazi della propria razionalità» mira a riaprire il dibattito tra la teologia e le scienze, mostrando la «corrispondenza profonda» tra «la dimensione soggettiva della ragione e quella oggettivata nella natura». Cfr. Benedetto XVI, Discorso al IV Convegno nazionale ecclesiale in Italia (19 ottobre 2006), AAS 98 (2006), 804-815. Cfr anche VD, 36.
7. “La formula è ricorrente nei discorsi pubblici di Benedetto XVI. Si veda in particolare Fede, ragione e università. Prolusione all’Università di Ratisbona (12 settembre 2006); Discorso al IV Convegno nazionale ecclesiale in Italia (19 ottobre 2006). Sul dibattito suscitato dal discorso di Ratisbona cfr. K. WENZEL (ed.), Le religioni e la ragione. Il dibattito sul discorso del papa a Ratisbona, Queriniana, Brescia 2008 e L. Savvarino (ed.), Laicità della ragione, razionalità della fede? La lezione di Ratisbona e repliche, Claudiana, Torino 2008.
8. “La formula è ricorrente nei discorsi pubblici di Benedetto XVI. Si veda in particolare Fede, ragione e università. Prolusione all’Università di Ratisbona (12 settembre 2006); Discorso al IV Convegno nazionale ecclesiale in Italia (19 ottobre 2006). Sul dibattito suscitato dal discorso di Ratisbona cfr. K. WENZEL (ed.), Le religioni e la ragione. Il dibattito sul discorso del papa a Ratisbona, Queriniana, Brescia 2008 e L. Savvarino (ed.), Laicità della ragione, razionalità della fede? La lezione di Ratisbona e repliche, Claudiana, Torino 2008.
9. P. Sequeri, in “Metafisica e ordine del senso”, op. cit.
perdoni la sintassi che mi è scappata:
*Con una conclusione del genere, permetta la franchezza, la distanza tra questa chiesa così vagheggiata dalle “nuove e magnifiche sorti” ed una associazione filantropica qualsiasi sarebbe minima.