Sui quattro principi di papa Francesco. Stefano Biancu risponde a Giulio Meiattini
Nei giorni scorsi Don G. Meiattini aveva sollevato una serie di domande critiche sui “4 principi” che orientano il magistero di Papa Francesco. Nel post su questo blog del giorno 24 agosto avevo risposto a Don Giulio, che a sua volta aveva replicato in un lungo commento al mio post. Oggi ricevo da S. Biancu una lettera che rilegge i 4 principi e li colloca in un ambito teologico-sapienziale e non filosofico. Mi sembra un ottimo contributo al dibattito che si è aperto su questo tema e la pubblico integralmente qui di seguito, ringraziando di cuore il suo autore, Stefano Biancu, che insegna etica presso l’Università di Ginevra ed è professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano.
Caro Andrea,
ho letto con molto interesse la riflessione del prof. Meiattini sui quattro principi di papa Francesco (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351356), come anche la tua risposta (http://www.cittadellaeditrice.com/munera/il-rischio-di-un-risentimento-dello-spazio-contro-il-tempo-a-proposito-di-una-critica-di-don-giulio-meiattini-a-papa-francesco/).
Quei quattro principi hanno molto colpito anche me, al punto che sono ritornato su di essi in diverse occasioni: sia nell’intento di approfondirne meglio il senso e la genesi (https://www.academia.edu/27978816/Essere_cittadini_della_citt%C3%A0_in_cui_Dio_vive_sguardi_sulla_citt%C3%A0_nel_pensiero_di_Papa_Francesco_in_A._BONDOLFI_et_M._MARIANI_eds._Dio_uomini_e_citt%C3%A0_EDB_Bologna_2015_pp._125-141), sia nell’intento di immaginare – a partire da essi – l’identità di un’etica cristiana che possa essere all’altezza del nostro tempo (https://www.academia.edu/27590712/L%C3%A9thique_th%C3%A9ologique_le_temps_la_r%C3%A9alit%C3%A9_et_lart_de_vivre).
Rispetto a quanto ho già scritto, non ho molto altro da aggiungere. Riprendo qui solo alcuni spunti, in particolare sulla natura dei quattro principi – sono davvero dei postulati filosofici o presuppongono invece una lettura teologale e credente della storia? – sperando di contribuire alla riflessione comune.
- La fonte di questi principi: la ragione o la fede?
Dico subito che non credo che i quattro principi possano essere catalogati sotto la categoria della produzione filosofica. Mi pare derivino piuttosto da una lettura sapienziale e credente della storia.
Mi spiego. In Evangelii Gaudium (EG) i quattro principi trovano collocazione nella sezione che si occupa di come si possa attuare il compito di «diventare popolo». (EG, 220).
Quella di «popolo» è una categoria molto cara a papa Francesco: suoi antefatti sono la categoria biblica di «popolo di Dio» e la ripresa che ne ha fatto il Concilio Vaticano II al fine di pensare la Chiesa. Papa Francesco ritiene che la categoria di popolo sia fruttuosa anche per pensare – da cristiani – l’ambito sociale. Il retroterra di tutta questa riflessione è dunque biblico e teologico (deriva da una lettura credente), non filosofico.
Prova ne è l’osservazione secondo la quale uno dei quattro principi – il principio della superiorità della realtà sull’idea – «è legato all’incarnazione della Parola» in quanto incarnazione che non si è esaurita con la vita del Gesù storico, ma è proseguita in una storia della Chiesa come «storia della salvezza» (EG, 233). Il modello di una idea che si incarna nella realtà senza separarsi da essa è dunque ritrovato nella Parola di Dio. Ma un discorso analogo può essere fatto anche per il principio relativo alla superiorità del tempo sullo spazio: come ha messo in luce il pensatore ebreo A.J. Heschel, nel suo classico volume del 1951 Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno (tr.it. Garzanti, Milano 1999), è il Sabato biblico che attesta e fonda quella superiorità.
Se dunque quei principi non costituiscono delle riprese letterali del testo scritturistico, sono comunque intrisi di teologia biblica.
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Il contesto entro cui rileggere i quattro principi
Per comprendere l’intento di papa Francesco, credo si debba guardare alla storia da cui egli viene. La “Teologia del popolo” argentina, a lui certamente cara, ha articolando il rapporto (astratto) Chiesa-mondo, tematizzato dal Concilio, nei termini (concreti) di un Popolo di Dio che si incarna, di volta in volta, in un popolo particolare di cui evangelizza la cultura, ma dal quale anche riceve qualcosa di essenziale per la sua appropriazione credente del Vangelo.
Francesco compie un passo ulteriore: recepisce le intuizioni del Concilio e della teologia argentina e le mette a confronto con la situazione attuale di società multiculturali nelle quali è difficile cogliere i tratti di una storia comune, di una cultura comune, di una religione comune. Non si è più popolo, occorre diventarlo.
A suo giudizio, il compito dei cristiani diviene allora quello di mettere a servizio delle nostre società multiculturali la propria expertise nell’essere popolo: un popolo che vive una unità di fondo pur nella ricchezza delle sue infinite differenze. Non si tratta – questa mi pare la sua proposta – di trovare uno spazio per (astratti) valori cristiani nell’elaborazione dei grandi maîtres-à-penser del momento, nella speranza di una ricristianizzazione della società a partire dall’alto. Si tratta invece di riscoprire di essere «popolo di Dio» in cammino nella storia e nelle strade di ogni città particolare: città nelle quali Dio stesso già abita (è, questo, un dato di fede, non un’evidenza sociologica o filosofica).
Questo diventare popolo non è irrilevante – secondo Francesco – per la qualità della convivenza civile, ma neanche lo è per la qualità della vita cristiana.
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Il tempo è superiore allo spazio
I quattro principi sono dunque da rileggere entro il quadro – di fede – di un popolo che cammina nella storia e presso il quale Dio stesso ha preso dimora.
Molto ci sarebbe da dire su ciascuno di essi e sulla forza che essi hanno per la vita cristiana e per la riflessione teologica. Sulla superiorità del tempo sullo spazio, che si traduce nella necessità di “occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi” (EG, 223) mi limito a dire che condivido le tue considerazioni sul fatto che ciò che sembra fare problema ad alcuni è precisamente il passaggio da una visione statica a una visione processuale, l’accettare dunque il dato – antropologico e teologico – della temporalità e della storicità (infine la serietà – antropologica e teologica – della nostra condizione corporea). Credo che ci sarebbe da stupirsi del contrario: veniamo da una lunghissima tradizione – questa sì, filosofica – di segno radicalmente opposto.
Francesco non fa un discorso filosofico e non è un caso che egli abbia indicato nella misericordia la categoria generatrice di una adeguata forma di vita cristiana ed ecclesiale (cfr. S. Morra, Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale, EDB, Bologna 2015): a differenza di altre categorie generatrici del passato (le categorie di ratio, di natura, di verità…), quella di misericordia non appartiene infatti al vocabolario classico della filosofia.
Che la necessità di “iniziare processi più che di possedere spazi” sia intrinsecamente teologale mi pare lo dimostri anche la sua affinità essenziale con la virtù – teologale, non filosofica – della speranza. Che cos’è la speranza se non un continuo iniziare processi, accettando – con fiducia – l’indisponibilità del tempo? Un continuo iniziare processi il cui esito non dipende da noi? E, viceversa, non è forse una forma di disperazione la ricerca continua del possesso degli spazi: l’atteggiamento di chi ritiene di non poter ricevere nulla gratuitamente e di dover dunque accaparrarsi quanto può (è una tentazione anche degli evangelizzatori!)? Mi torna in mente, a questo proposito, quanto osservava un Emmanuel Mounier lettore di Charles Péguy: la speranza «semina cominciamenti». È, appunto, la virtù di chi sa iniziare processi.
Per tutto questo e per altri motivi, che ho espresso altrove, non credo che una lettura semplicemente filosofica dei quattro principi colga nel segno.
Camaldoli, 25 agosto 2016 Stefano Biancu
voglio solo ricordare ai gentili commentatori che non possono usare i commenti per fare coversazione tra loro o per fare pubblicità ad altri siti o blog.
Ringrazio il prof. Biancu della sua attenzione alla questione da me sollevata e delle sue osservazioni. Visto che il suo intervento viene presentato come rispsota a Giulio Meiattini, quest’ultimo si permette di intervenire ancora scusandosi di nuovo per la lunghezza.
Dopo il tentativo di Grillo di riportare i quattro postulati nell’alveo “pastorale”, adesso emerge un’altra prospettiva: il “sapienziale-biblico”. Da notare en passant che “sapienziale” è una categoria molto scivolosa, analogamente alla categoria di “pastorale”. B. Seveso, uno dei pastoralisti più preparati in Italia, ha affermato che fin dal Concilio l’idea di pastoralità è rimasta “indeterminata” (“Teologia” 37 (2012) 383-414). Affermazione preoccupante, visto che tutte le riforme post-conciliari si sono mosse sull’onda della “svolta pastorale”! Anche “sapienziale” è una categoria vaga. Sapienzia dei detti e dei proverbi popolari? Sapienza nell’accezione della letteratura biblica sapienziale? Sapienziale come la teologia dei monaci medievali (che non è meno attenta alle sfumature e al rigore di quella scolastica)? Sono accezioni molto diverse. In ogni caso resto dell’opinione che il postulato (o i postulati) di EG siano di carattere filosofico. Riporto ancora una volta la “spiegazione” con la quale papa Francesco cerca di mostrare in EG n. 222 che il tempo è superiore allo spazio:
“Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il ‘tempo’, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio” (n. 222).
Come ho scritto nel mio intervento pubblicato nel sito di Magister, queste frasi a me appaiono incomprensibili. Ho letto dei testi più difficili di EG e sono riuscito, qualche volta anche con fatica, a capirli, o almeno mi è sembrato di capirli. Ma questo numero 222 mi risulta del tutto oscuro e incongruente. Non vedo come da frasi incomprensibili possa “emergere un principio” generale. Ho già segnalato in modo particolareggiato questo aspetto e non vi ritorno. Però il linguaggio usato dal papa è filosofico, non sapienziale-biblico, addirittura vi si usa il concetto di “causa finale”, di “utopia” (?) si parla di “tensione bipolare”. Linguaggio biblico? Mah! Non si fa cenno alla “speranza teologale”, non compare nessuna citazione o reminiscenza scritturistica.
Un’ulteriore osservazione: Biancu cita la pregevole opera di Heschel, “Il sabato”, che in effetti è una specie di inno al tempo come categoria dominante della Bibbia e dell’ebraismo, a partire dalla centralità del Sabato, mentre lo spazio sarebbe una categoria secondaria o comunque dipendente dal primato del tempo. Lui sì che fa una meditazione biblica. Non c’è qui “né lo spazio né il tempo” per sottoporre ad esame il testo di Heschel. Dico solo che molte affermazioni di quel libro, sarebbero tutte da puntualizzare, non per essere semplicemente contraddette, ma completate e riequilibrate. Si leggano con attenzione alcune di queste affermazioni: “Le festività celebrano gli eventi che si sono verificati nel tempo, mentre la data del mese fissata per ogni festività è determinata dalla vita della natura” (ovvero dalla spazio cosmico). Dunque, da questa frase, si potrebbe dire che spazio-tempo sono inseparabili nel ciclo delle festività. Poi però Heschel afferma, sorprendentemente, che invece: “L’essenza del Sabato è assolutamente al di fuori dello spazio” (???), “perché esso è completamente indipendente dal mese e non ha relazione con la luna” (???). Però, osservo io, ha relazione necessaria con il sole e con l’alternanza giorno-notte che esso determina col suo movimento spaziale dando origine ai giorni della settimana e dell’anno intero. E dunque? Direi che il bel libro di Heshel è, come ho detto, un “inno” e una esaltazione del sabato, ovvero va compreso in un genere letterario affine al poetico (se vogliamo, sapienziale), che usa una certa iperbole, che per dare risalto al valore teologico e spirituale del tempo usa l’enfatizzazione (che in certi casi è legittima), incorrendo in certe unilateralità forse accettabili “in quel genere letterario”.
Detto questo, e lasciando stare gli altri postulati di EG, per non mettere troppa carne al fuoco, io chiedo ancora che qualcuno mi spieghi alfine “perché” il tempo dovrebbe essere superiore allo spazio. Solo per garantire i processi? Ripeto che basterebbe parlare di riforma e di conversione al vangelo, di non restare aggrappati a cliché ed esperienze ripetitive, per sollecitare i cambiamenti virtuosi, come più o meno in ogni tempo della chiesa si dovrebbe fare. Se poi vogliamo fare una teologia del tempo-spazio, benissimo. Ma facciamo teologia, in ascolto della scienza e della filosofia, con tutto quello che ciò implica!
caro Giulio,
nella tua risposta a S. Biancu metti in chiaro alcuni aapetti della tua critica al magistero di Francesco che meritano attenzione. Infatti se tu ritieni indeterminato il termine “pastorale” e vago il termine “sapienziale” allarghi di molto e con grandi rischi gli obiettivi della tua critica. Paatorale è termine chiave non solo di Francesco, ma del magistero di Giovanni XXIII, mentre sapienziale è il cuore dell approccio teologico di Vagaggini e Loehrer. Chi resta saldo in questo esercizio di critica filosofica? Quale teologia è veramente adeguata? Io ho il sospetto che l ideale filosofico da cui proviene la tua critica si trovi a suo agio solo con definizioni dogmatiche e canoni di condanna. E che si immunizzi dalla esigenza di conversione nel fare teologia che si è espressa proprio con quelle parole. Qui io trovo un atto intellettuale troppo sbrigativo che risolve il giudizio con le aggettivazioni di indeterminato e vago. Detto altrimenti: non ti sembra di esagerare?
Gent.mo prof. Grillo, leggo da tempo questi suoi interventi e mi ritrovo in pieno nel suo linguaggio e nel suo stile. Davvero c’è chi ha paura di questo nostro Papa Francesco, vero uomo e vero profeta dei nostri tempi. Mi era piaciuta una sua bella espressione: “Inevitabilmente la profezia trasgredisce”. Certo, e scandalizza anche i molti moderni profeti di sventura, nemici dell’umanità, che non capiscono i drammi del presente, di fronte ai quali non hanno la sensibilità di “uscire”, recandosi come Francesco presso gli ultimi. Questa nuova chiesa mi piace proprio, è una nuova espressione di amore (la misericordia) che ci pervade e ci fa superare i nostri confini e le angustie di sterili discussioni dottrinali. Mi dispiace tanto che alcuni teologi fraintendano tanto il nostro caro, amato e ispirato Papa: sentire che il tempo è superiore allo spazio è proprio degli ultimi, di chi umilmente capisce che alla fin dei conti conta l’amore fraterno, l’amore del padre Nostro che vince su tutto e su tutti, anche sui muri che erigiamo per distinguere i nostri spazi: perchè non capiamo un linguaggio così semplice?
Ai mesti maestri della legge Papa Francesco rivolge un pensiero misericordioso: “Convertitevi”. Il cuore di quest’anno giubilare è racchiuso in una parola.
Grazie ancora per i suoi approfondimenti, che ci fanno sempre più apprezzare la statura del nostro Papa!
Vede, caro Grillo, ho fatto un piccolo esperimento: basta cambiare le espressioni e il post viene mantenuto nella pagina. E questo a riprova di quanto la “nuova Chiesa” da Lei magnificata sia solo un artificio retorico. Personalmente ho paura di come andrà a finire. Tanti saluti, Matteo.
Caro Andrea, sono ben consapevole del rischio che tu metti in evidenza. Ma non è quella la “piega” che io intendo dare alla mia obiezione. Non metto in dubbio la “svolta pastorale” in quanto tale, né l’interesse dell’approccio “sapienziale”. La tua domanda perciò mi permette di spiegarmi meglio.
1) Il carattere “indeterminato” del pastorale è una osservazione che io ho letto nell’articolo di Seveso citato. E’ un’osservazione che mi ha sorpreso e mi ha permesso di focalizzare meglio alcuni angoli d’ombra che mi portavo da un po’ di tempo. La domanda che mi è sorta è stata: se uno specialista che ha passato decenni della sua vita a studiare e a scrivere sulla “pastorale”, giunge a dire che né il Concilio nè il dopo Concilio sono giunti a chiarire in modo soddisfacente il senso della suddetta svolta pastorale, allora in che acque navighiamo? In questo senso la diagnosi di Seveso è grave, almeno se è vera. Forse altri pastoralisti la pensano diversamente, non so… Nel campo non sono informato a sufficienza. Tuttavia, una buona dose di confusione obiettivamente c’è, ed è quella che ho segnalato nella mia prima risposta che ti ho indirizzato: si dice, per esempio, che Amoris laetitia non è dottrinale, ma pastorale. E così la si legittima. Poi si afferma, in altra sede, che il pastorale ha dei riverberi anche sul dottrinale… a questo punto scatta il corto circuito. Cos’è alla fine pastorale cosa è teologico-dottrinale?
Per questo, come ti dicevo nella mia prima risposta, il problema decisivo è quello di verificare quale tipo di rapporto tra pensiero e azione, teologia e pastorale intendiamo instaurare e promuovere. Su questo punto ho l’impressione che ci sia qualcosa di nebuloso di cui alcuni si approfittano e altri restano vittime. Prendiamo la famosa frase programmatica di Giovanni XXIII: si tratta non di cambiare la sostanza, ma la forma. Detta 55 anni fa poteva sembrare un’operazione facile. Poi la linguistica ci ha messo la pulce nell’orecchio e ci ha fatto vedere che il cambiamento di vestito non lascia intatto il corpo: se si cambia il significante, anche il significato non è più proprio lo stesso. Ti dico, con tutta sincerità, che non ho risposte da dare in merito a questo busillis, ma almeno cerco di denunciare le insidie e la povertà di strumenti di cui disponiamo per affrontare il problema. Non è assolutamente mia intenzione di tornare ad una teologia deduttiva.
2) A proposito del sapienziale. Tu sai che la mia tesi dottorale, e altre pubblicazioni successive, erano dedicate al chiarimento della categoria di esperienza in sede teologica, perché (in quanto monaco e in quanto teologo) ritengo che questa categoria possa servire ad uscire proprio da una teologia fatta solo di asserzioni rigide e resecate dalla vita e dagli affetti. Se ho scelto una categoria come quella di esperienza, significa anche che, pur in tutta la distanza dal modernismo, ritengo che il problema modernista vada ancora risolto. Non amo però la parola sapienziale, anche se Vagaggini l’ha usata e anche se io apprezzo quel tentativo vagagginiano, sulla cui linea mi sento del tutto in sintonia. Ma in Vagaggini , per quanto io possa averlo compreso, non c’è ambiguità nel gioco fra registro pastorale e teologico e liturgico e spirituale, che sono le quattro dimensione essenziali della sua opera maggiore.
3) La teologia dei monaci medievali (la famosa teologia monastica, detta spesso anche “sapienziale”) non rinuncia mai alla precisione “teologica”. Se per es. leggi i Sermoni di Bernardo sul Cantico, in quella esuberanza di simboli, metafore, retorica, che sembra poesia e letteratura (e lo è davvero) ci si accorge che non si cade mai in un linguaggio generico o pressapochista. Senza uscire dall’arte e dal simbolo, conserva la precisione del teologo. Lo stesso si dica di Ruperto, e di altri. Qui la dimensione mistica e esperienziale non è una scusa per abbassare il livello della riflessione. Questo abbassamento mi sembra che accada invece spesso oggi quando si dice “spirituale”, “mistico”, “sapienziale” e anche “pastorale”. E questo, come tu sai molto meglio di me, ha nuociuto anche alla liturgia. Nonostante la buona volontà e l’intelligenza dei liturgisti che hanno lavorato alla riforma, in pratica si è detto: “per esigenze pastorali facciamo così e così” e adesso abbiamo una media di celebrazioni liturgiche che infatti è proprio “così-così”, miserevole. Per esegenze pastorali celebriamo la veglia pasquale alle 18:30 (per es. nella basilica di S. Pietro), per esigenze pastorali anticipiamo la messa crismale al mercoledì sera (così tutti partecipano!!!), per esigenze pastorali posticipiamo la cresima dopo la prima comunione, per esigenze pastorali facciamo musica rock e pop nella liturgia… Scusa, se ci metto un po’ di passione, ma voi che a S. Giustina studiate la “liminalità” (e ve ne sono profondamente grato), ma perché non levate la vostra voce per dire chiaramente che nelle nostre liturgie l’esperienza della liminalità è del tutto assente, sempre “per motivi pastorali”?
Spero ora di essermi spiegato. Io non sono per una teologia fuori dalla sensibilità dell’esperienza (spirituale) e dalla prassi pastorale (che è inseparabile dall’esperienza, ma non identica). Purchè questo non sia una scusa per accettare linguaggi confusi e pensieri non pensati. Ora il linguaggio e il pensiero di molta parte di questo magistero pontificio non è all’altezza di questo compito, cioè del compito di mantenere una reciprocità feconda fra elaborazione teorica e impatto pastorale-spirituale.
Per finire! Vuoi un esempio in positivo di come questo possa essere attuato: si rileggano gli scritti di p. Mariano Magrassi e li si confronti col suo magistero episcopale, la sua meditazione liturgica, teologica, pastorale e la sua sensibilità sociale. Ma p. Mariano era formato alla scuola dei padri, che erano “pastori e dottori”, i due aspetti insieme. Oltre all’ odore delle pecore, avevano il profumo di Cristo. Questo è il titolo di un articoletto senza troppe pretese che da qualche tempo medito di scrivere: “Dal comune dei pastori e dei dottori…”.
Come vedi mi appassiono un po’, mi accendo, ma senza risentimenti, neanche verso il tempo…
Sono uno studente di teologia e mi ha appassionato leggere questo tenzone teologico. Sarebbe davvero interessante che in Italia si sviluppasse questo modo di fare teologia, con un po’ di verve, di pepe, di botta-risposta, anche nei confronti del Pontificato di Papa Francesco, senza che intervenga subito una vena mistica a coprire il tutto con il discorso sull’amore e sulla misericordia; che equivale a dire “non si può dire” qualcosa di critico su papa Francesco. Anche la teologia è istanza critica nella chiesa, non solo le parole del Papa.
Devo ammettere che mi ritrovo più in sintonia con l’argomentazione rigorosa del prof. Giulio Meiattini il quale non manca di additare volta per volta le motivazioni del suo pensiero, piuttosto che con la critica del prof. Grillo.
Quando la prima volta ho letto i quattro principi di Papa Francesco ho avvertito subito una domanda forse un po’ banale: e perchè? Perchè il tempo dovrebbe essere superiore allo spazio? Le motivazioni di questa superiorità non mi sono chiare, ed è ciò che il professor Meiattini – mi pare – continuamente chieda, senza in effetti trovare alcuna risposta. Mi pare che, in un successivo intervento, lo stesso papa Francesco parlando di quei quattro principi, li riferisse ad un residuo di quei mesi di studio per il dottorato su Guardini (ma cito a memoria, non ne sono sicuro) passati nell’istituto Sankt Georgen di Frankfurt am Main. Dunque la genesi remota di quei principi è prettamente teologica, e di conseguenza filosofica (non credo troppo alla separazione così esaltata, tra questi due campi).
In ogni caso, mi risulta difficile pensare che un discorso pastorale non sia anche un discorso teologico e viceversa. Non credo si possano separare e subordinare l’uno all’altro. Nè l’idea è superiore alla realtà (come voleva la filosofia classica), nè la realtà è superiore all’idea (come si tende a dire oggi). In tutte e due le direzioni, i pericoli di sconfinare nell’astrazione o di assumere la realtà semplicemente per quella che è, stanno sul palmo della mano.
In ogni caso, credo che se il discorso del papa sia un discorso teologico, allora l’istanza critica della teologia fondamentale debba essere onorata anche in un testo magisteriale.
Sinceramente non capisco perché il concetto di “spazio” debba essere associato a qualcosa di violento, e perchè la teologia cattolica debba continuamente e unicamente insistere sulla categoria di “tempo” (storia) per parlare della salvezza. Non esiste solo una “storia della salvezza”, ma anche i luoghi della salvezza.
A mio avviso tempo e spazio andrebbero mantenuti, pur nella differenza, in una reciprocità feconda. Se per tempo si intendono i “processi” da avviare nella chiesa, lo spazio non è forse anche il luogo in cui ci si muove? Non parliamo forse di uno “spazio di tempo”? Non sarebbe più interessante utilizzare queste due categorie nel loro valore simbolico e metaforico? Oltre ad avviare processi, la chiesa non potrebbe offrire spazi generativi e rigenerativi?
In questo senso, la chiesa e la fede cristiana ha anche bisogno di “spazio”; e questo non significa, a mio avviso, dire che la chiesa o la fede “occupi” con violenza lo spazio. La fede cristiana ha anche vissuto, animato, costruito, custodito, trasformato lo spazio e gli spazi dell’uomo. In questo senso sono d’accordo con il prof. Meiattini che chiede un po’ più di chiarezza nel linguaggio di questi testi di papa Francesco; o forse addirittura un altro linguaggio. Giustamente il prof. Meiattini sostiene che, se si vuole essere semplici e chiari, bastava introdurre la categoria di conversione, senza chiamare in causa altri concetti. Spazio, tempo, realtà, idea sono categorie non neutre, e che hanno alle spalle una storia e una elaborazione filosofica (almeno nel contesto europeo) di cui non può non tener conto chi ne fa uso. Scusate l’intromissione, ma non ho resistito ad intervenire in questa modalità e in questo dibattito davvero interessante.
Caro Fabio, ti ringrazio per l’intervento. E’ molto positivo che uno scambio di idee sia aperto e accogliente. Questo è un merito del clima che Francesco ha creato proprio con questi 4 principi.