Sul latino e le lingue vive: alcune distinzioni in dialogo con Roberto Spataro


Tra le reazioni alla mia intervista a MiL (qui) si può leggere una lettera aperta del prof. Roberto Spataro, inviata al responsabile del blog (pubblicata su Mil qui), il cui testo per comodità riporto qui sotto e che si sofferma sulla lingua latina, di cui difende il diritto non solo liturgico di “lingua sacra”. Rispondo sollevando le legittime questioni intorno ad una lingua che non è più materna per nessuno, da almeno 700 anni, e che per questo chiede un passaggio necessario alle lingue del popolo (come era stato il latino per molti secoli), non meno sacre del latino. Ogni lingua che esprime il mistero di Dio è sacra. (ag)

 

LA LETTERA DEl PROF. Roberto SPATARO

Gentile Dott. Casalini,

Da attento lettore di MiL non posso che ringraziarla per l’ampia attenzione dedicata alla recente intervista rilasciata dal prof. Andrea Grillo sulla “Missa iuxta Ritum Romanum antiquiorem” (mi permetto di ricordare en passant che in lingua latina antiquior/ius ha pure e principalmente il significato di “più importante”) e alle reazioni che ha suscitato in illustri commentatori. I non pochi fedeli che leggono MiL, ai quali è invece del tutto ignoto il nome del prof. Grillo, e che avvicino nel servizio pastorale apprezzano molto le idee promosse dal sito da Lei lodevolmente diretto.

Le opinioni del prof. Grillo hanno suscitato in me grande perplessità. Tuttavia, vorrei soffermarmi su un unico punto, solo apparentemente marginale, laddove ha parlato di “lingue morte” con

evidente riferimento alla lingua latina. Il mio stupore nasce da tre motivi.

 

 Anzitutto, in altro articolo, risalente al 2021, facilmente rintracciabile sulla rete, lo stesso prof. Grillo, nega che tale possa essere considerata la lingua latina.

 In secondo luogo, tra gli studiosidi questo tipo di fenomeni storico-linguistici, superando la dicotomia lingue vive/lingue morte, si preferisce parlare a proposito del latino e della sua storia peculiare di “lingua immortale”: il grande filologo Wilfried Stroh è stato autore di un fortunatissimo saggio intitolato “Latein ist tot: lebe Latein!”.

 In terzo luogo, il latino assolve nel rito romano, prima e dopo la cosiddetta riforma liturgica postconciliare, la funzione di “lingua sacra”, come gli studiosi del calibro della Scuola di Nimega, tra cui l’eccellente Christine Mohrmann, sicuramente non ignota al prof. Grillo, hanno mostrato con solidi argomenti. Solo la lingua sacra, proprio perché sottratta all’uso quotidiano, lungi dall’essere “morta”, dispone di una vitale carica espressivo-performativa religiosa che sostiene e promuove l’“actuosa participatio”.

In conclusione, mi sembra che l’utilizzo dell’espressione “lingue morte”, con riferimento al latino, sia stato un punto decisamente infelice dell’intervista del prof. Grillo, che riecheggia conversazioni di ragazzi di scuola superiore di primo livello che dileggiano i loro compagni che frequentano il Liceo Classico.

Satis intelligentibus.

Colgo l’occasione per salutarla con molta cordialità

Sac. Prof. Roberto Spataro, sdb
Segretario emerito della Pontificia Academia Latinitatis
Socio ordinario dell’Academia Latinitati Fovendae

 

LA MIA RISPOSTA 

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Gentile Prof. R.. Spataro,

grazie per il suo commento. Il riferimento alla lingua è sempre delicato. Le lingue sono morte quando nessuno le usa più. Questo non significa che anche queste lingue non debbano essere studiate e non diano a chi le studia grande diletto. Ma senza l’uso quotidiano elementare, la lingua si esaurisce. E’ giusto dire che il latino, che ha ancora un minimo di uso, non possa dirsi una lingua morta. Ma certo non è una lingua del tutto viva. La misura di questo è data da una semplice osservazione: vive sono le lingue parlate (e storpiate) dai bambini e dai vecchi, le lingue “materne” le lingue dei mercati e delle esperienze indimenticabili. Purtroppo, da molti secoli la lingua latina non è più lingua materna per nessuno. Già Dante, nel De vulgari eloquentia, scrivendo in latino, riconosceva che ormai la poesia era passata al volgare. Il che non deve sorprenderci, neppure nella Chiesa.

Le lingue possono uscire dall’uso e così perdere forza o morire del tutto. Questo fa parte di ciò che Dante chiama “ciò che non muore e ciò che può morire”. Le lingue passano, anche perché tutte, latino compreso, sono “lingue di Babele”. Tutte le lingue hanno “punti ciechi” e “zone d’ombra”, che altre lingue possono illuminare. La lunga tradizione in cui la Chiesa romana ha parlato latino (ma non all’inizio e non alla fine) è un punto di riferimento inaggirabile, la cui conoscenza non può mai essere sottovalutata. Ma altro è conoscere e altro è vivere. Qui io credo per la visione ecclesiale è necessario acquisire i risultati della “svolta linguistica”. La lingua non è solo strumento di espressione, ma principio di esperienza: noi pensiamo come parliamo. La esperienza del mistero oggi è mediata, in modo originalee inaggirabile, dalle lingue parlate. L’intera stagione dominata da Liturgiam authenticam (2001-2018) costituisce un profondo vulnus per la tradizione. La pretesa che le lingue parlate siano “traduzioni letterali del latino” dimentica precisamente questo punto: non si possono tradurre letteralmente le “figure retoriche”, che ogni lingua pensa e usa a modo suo. Questo si fonda sulla antropologia umana e sulla teologia della incarnazione e della Pasqua. Un Dio, che nel Figlio conosce il nascere e il morire, entra in tutte le lingue: non ha bisogno di una lingua sacra, ma rende sacra ogni lingua degli uomini e delle donne. Ogni lingua esprime del suo mistero umano e divino un aspetto unico, che le altre lingue non possono dire. Questa è la ricchezza con cui oggi, ma da soli 60 anni, abbiamo arricchito la tradizione con la preghiera liturgica espressa in ogni lingua dell’uomo. Questo fatto sarà in grado, nei secoli, di arricchire una tradizione che per molte generazioni ha parlato soltanto latino. Ma all’inizio non era così. E oggi la universalità non è garantita dal latino, ma dalla traduzione da lingua a lingua. Il latino non è lingua morta, in senso stretto, ma non è più lingua viva: soprattutto non è più lingua universale. Per questo la esperienza del mistero pasquale oggi nasce originalmente nelle lingue parlate. Questo fatto arricchisce la tradizione e non può essere considerato, come spesso si fa, una sorta di “riduzione” della tradizione latina. E’ invece la tradizione latina ad essere oggi riduttiva. Glielo dice un grande appassionato del latino, che però sa distinguere le lingue di uso dalle lingue “fissate” una volta per tutte da una grande storia, che si è esaurita: il vocabolario latino è chiuso, non quello italiano, francese, inglese o di una lingua africana o asiatica. Questa è la differenza insuperabile e irreversibile. Mi permetta di concludere con una piccola citazione, che traggo da Plinio il Giovane. Ciò che Plinio diceva con eleganza dei “ludi circensi”, da parte mia lo applico alla tentazione di coloro che pensano la tradizione latina come un assoluto, normativo anche oggi: “capio aliquam voluptatem quod hac voluptate non capior”.

Un cordiale saluto

Andrea Grillo

 

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