Sulla formula “principio mariano/principio petrino” (M. Perroni)


principiopetrino

Nella discussione intorno al possibile accesso femminile al “ministero ordinato” una invenzione moderna, come quella del principio mariano distinto dal principio petrino, può essere utilizzata in modo più o meno pertinente. Molto utile è riflettere sulla originaria destinazione della distinzione – per una ricomprensione del papato in un contesto più ampio – e poi il suo utilizzo successivo, orientato a stringere le maglie della tradizione. Un’accurata discussione di questi impieghi teologici e magisteriali si può leggere in questo testo, che riprendo dalla rivista “Marianum” (LXXII, 2010, 547-553) e che ripropongo qui, come frutto del solerte lavoro della mia collega a S. Anselmo e cara amica Marinella Perroni, che ringrazio di cuore. Segnalo, inoltre, un altro testo, successivo, della stessa autrice, sul medesimo tema, con considerazioni e riferimenti ulteriori: RITORNO DEL PRINCIPIO MARIANO-PETRINO?, pubblicato sul blog della editrice Queriniana nel 2014.

Principio mariano – principio petrino:

quaestio disputanda?

di  Marinella Perroni

Accolgo l’invito ad aprire un dibattito sul principio mariano-petrino perché la fortuna di alcune formule teologiche dovrebbe costituire, già di per se stessa, motivo di interrogazione e occasione di dibattito. Spesso, invece, esse passano di bocca in bocca e di libro in libro, confermando così una loro indubbia funzionalità, ma anche il loro carattere semplificatorio. Veicolano infatti, senza scosse, contenuti che si ritengono ormai del tutto acquisiti. Sicuri perché rassicuranti.

Alla formula “principio petrino-mariano” si fa riferimento ormai trasversalmente in diversi ambiti della riflessione teologica e della prassi pastorale e, spesso, essa viene disinvoltamente usata anche come criterio metodologico. Quando ho dovuto occuparmene in occasione del Forum del Coordinamento delle associazioni teologiche italiane (2005)1, per esempio, mi è stato chiesto di ragionare sul topos ecclesiologico del principio mariano-petrino, per metterne in risalto, oltre al suo fondamento biblico, anche la sua qualità di indicatore di altri bipolarismi essenziali per la comunicazione della fede, quali soggettività-oggettività, cuore-ragione, azione-interruzione, femminile-maschile, fides quafides quae. Al duplice principio petrino-mariano, pensato alla luce di teorie archetipali, veniva perciò riconosciuta da colleghi di discipline teologiche diverse una carica metaforica e una forza simbolica che andavano ben al di là della dialettica intra-ecclesiale istituzione-carisma, ma anche ben al di là del suo supposto radicamento neotestamentario.

Proprio questa duttilità della formula dovrebbe però rafforzare il livello di guardia: può essere esente da esame critico e non venir considerata come quaestio disputanda? Provo dunque ad avviare una riflessione a partire da due punti di vista che sono attinenti ai miei ambiti di competenza, quello esegetico e quello di genere. Se altri, anche a partire da specificità disciplinari diverse, interverranno sul tema, sarò contenta di aver contribuito a problematizzare almeno un po’ il topos del principio petrino-mariano fino a farne una quaestio disputata.

Prima di prendere in esame la reale consistenza scritturistica della formula e di considerarne presupposti e ricadute dal punto di vista antropo-sociale oltre che ecclesiale, credo sia essenziale ricostruirne, sia pur brevemente, origini e fortune.

 Le fortune del topos teologico balthasariano

 Hans Urs von Balthasar conia il duplice principio, mariano-petrino, allo scopo di integrare il papato nella chiesa universale sulla base dell’integrazione del ministero petrino nella mistica mariana2. Il topos di Balthasar andrebbe quindi discusso innanzi tutto da un punto di vista squisitamente ecclesiologico. Non soltanto, però, visto che il bipolarismo mariano-petrino ha avuto una forte eco, superiore, forse, anche al credito a esso riconosciuto dal suo stesso ideatore. Con tutta probabilità perché il ricorso agli archetipi del maschile e femminile è (troppo) facilmente spendibile anche in ambito teologico. Subito e con una certa continuità, il ricorso al principio mariano-petrino è entrato nei documenti magisteriali e nei discorsi pontifici3. Paolo VI lo riprende nella Marialis cultus, Giovanni Paolo II lo assume e lo rilancia nella Mulieris dignitatem, Benedetto XVI se ne serve per spiegare senso e valore della porpora cardinalizia4.

Merita ricordare che, quando afferma che Dio “ha collocato nella sua Famiglia – la Chiesa –, come in ogni focolare domestico, la figura di Donna, che nascostamente e in spirito di servizio veglia per essa e benignamente ne protegge il cammino verso la patria, finché giunga il giorno glorioso del Signore”5, Paolo VI riprende alla lettera l’affermazione di Balthasar secondo cui “l’elemento mariano governa nascostamente nella Chiesa, come la donna nel focolare domestico”6 e ne rispetta quindi l’originaria virtualità dei significati. Le implicazioni sul piano raffigurativo, sia esso evocativo-simbolico o metaforico-esemplare, restano infatti del tutto chiare. Dietro ciò che viene definito principio mariano c’è una precisa comprensione della fondamentale caratterizzazione “materna” e “domestica” del ruolo delle donne, in stretta dipendenza da una comprensione antropologica e sociale della sessuazione femminile in termini di interiorità e nascondimento.

La domanda allora si impone. Cosa suppone l’apologetica balthasariana della precedenza inclusiva della mistica mariana rispetto alla ministerialità petrina, che enfatizza l’universalità mariana, condizionante perché onnicomprensiva e liberante, rispetto all’universalità petrina, condizionata perché ministeriale e amministrante? Ma a cosa rimanda e cosa comporta anche l’apologetica wojtyliana, quando afferma che nella sua essenza la chiesa è insieme «mariana» ed «apostolico-petrina» perché la sua struttura gerarchica è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo, ma anche perché nella gerarchia della santità proprio la «donna», Maria di Nazareth, è «figura» della Chiesa7? O, ancor di più, quando, conseguentemente, esalta la funzionalità salutare del “genio femminile” nei confronti dell’uomo-maschio8? E a cosa rimanda l’affermazione ratzingeriana secondo cui “tutto nella Chiesa, ogni istituzione e ministero, anche quello di Pietro e dei suoi successori, è “compreso” sotto il manto della Vergine, nello spazio pieno di grazia del suo “sì” alla volontà di Dio”? In che misura queste diverse amplificazioni retoriche, ma anche la stessa identificazione Maria-chiesa, sono esenti dai cascami dell’identificazione donna-focolare, cioè l’identificazione tra femminile e domestico, femminile e interiore, femminile e accogliente, femminile e spirituale? Poiché sono convinta che tali questioni non riguardano unicamente il portato della tradizione magisteriale recente ma che una considerazione del rapporto maschile-femminile del tutto analoga a quella espressa nei succitati interventi magisteriali domini ancora non soltanto nell’omiletica e nella catechesi, ma anche in larga parte della produzione teologica, e non solo italiana, ne tento una discussione. In prospettiva di genere, prima di tutto e, successivamente, da un punto di vista esegetico.

 In prospettiva di genere

 La questione si pone in tutta la sua durezza: il topos del principio mariano-petrino non esprime una ideologia e una retorica della differenza sessuale e della differenza di genere che la feconda intersezione tra modernità e questione femminile ha ormai smascherato come una delle coperture dei privilegi patriarcali? Sia pure con tensioni interne a ciascuna disciplina, oltre a quelle tra le diverse discipline, il sistema dei saperi dentro il quale si situa l’odierna valutazione della differenza sessuale e di genere ha preso ormai definitivamente le distanze dalla psicofisiologia che doveva il suo fondamento alla biologia aristotelica e non permette in nessun modo di far corrispondere la distribuzione di ruoli e poteri alle morfologie biologiche o, tanto meno, a classificazioni psicofisiolofiche.

Per questo ecclesiologi e mariologi dovrebbero sentirsi chiamati in causa in prima persona dalle questioni che ineriscono alla prospettiva di genere. Non soltanto, però: lo stesso dovrebbe valere anche per i biblisti e per tutti i teologi. Se è vero, come è vero, che l’epistemologia di genere, divenuta condizione imprescindibile del pensare e del giudicare, impone ormai vincoli critici molto precisi, allora è proprio il riferimento, anche indiretto o tangenziale, al topos mariano-petrino dovrebbe indurre almeno a riflettere.

I bipolarismi sono sempre seduttivi dal punto di vista logico perché illudono di sistematizzare la differenza e, quindi, la complessità, dentro uno schema che semplifica al massimo la pluralità. Non c’è dubbio, però, che il bipolarismo maschile-femminile, che ha occupato la scena addirittura ossessivamente quando il pensiero teologico era totalmente androcentrico e patriarcale, da più di un secolo, da quando cioè le donne sono diventate “questione femminile”, ha imposto decisive revisioni e importanti ribaltamenti. Anche nella vita delle chiese. Né bisogna dimenticare che uno dei problemi più sentiti oggi dalle scienze antropo-sociali è proprio la fragilità definitoria di quanto è maschile o femminile. Sul versante epistemologico e, quindi, in termini al contempo intra-disciplinari e pre-disciplinari, la questione è stata posta con chiarezza: quanto la differenza sessuale è standardizzabile, perché appartiene all’ordine delle essenze, o quanto piuttosto essa è plasmabile, perché appartiene all’ordine mutevole degli statuti sociali? quanto, di conseguenza, la differenza sessuale stabilisce un paradigma cognitivo e volitivo, emotivo e affettivo o quanto, al contrario, situazioni e condizioni, accanto a ruoli e funzioni, contribuiscono a determinare l’umano che non esiste prima o al di fuori dei vissuti individuali e collettivi? Il rischio di tradurre la differenza sessuale/di genere in una sorta di manicheismo antropo-sociale è forte. Ma sono forti anche le resistenze critiche a tali pretese. Le implicazioni del duplice principio balthasariano sono, allora, serie e impegnative: per questo chiedono di essere discusse.

Per quanto mi riguarda, tento di farlo ora brevemente limitatamente all’ambito neotestamentario, riprendendo quanto più ampiamente elaborato per il Forum CATI del 20059.

 Un fondamento neotestamentario?

Un esempio dell’utilizzo esplicito del topos mariano-petrino in ambito neotestamentario è lo studio di Marcello Brunini 10, che cerca di leggere la categoria del discepolato evangelico dentro lo schema maschile-femminile a cui rimanda la teoria teologica del doppio principio balthasariano. Ricorrentemente, però, esso si intravede dietro ad affermazioni riguardo al discepolato gesuano, che si vuole legato alla chiamata, quello dei discepoli-maschi, e legato invece alla guarigione quello delle discepole; itinerante, il primo, sedentario, invece, il secondo. Soprattutto, però, la costruzione del topos mariano-petrino è favorita da una lettura simbolica delle figure evangeliche: per Balthasar, Pietro e Maria possono trasformarsi in principi a cui la chiesa deve la sua stessa costituzione in quanto simboli reali dell’unità della Chiesa.

Tenendo presenti questi diversi livelli di possibilità va dunque argomentata, a mio avviso, la pretesa di fondazione neotestamentaria del principio mariano-petrino. Sul piano formale, oltre che sul piano tematico. Fino a che punto, cioè, è possibile teologizzare il dato neotestamentario? Che la critica storica dovesse rappresentare una sorta di argine di fronte a licenze interpretative sembrava ormai metodologicamente acquisito. A partire proprio dall’esegesi recente risulta del tutto chiaro che, quello che viene chiamato «principio mariano», ha per fondamento un racconto teologico che è testimonianza di un processo di recezione della tradizione anticotestamentaria: da Samuele ai grandi profeti, per non parlare del popolo di Israele nel suo insieme nel momento della promulgazione dell’alleanza, il «sì» è la risposta unica che rende possibile l’intervento di Dio, mentre i «no», se ci sono stati, non entrano nel racconto della storia della salvezza che è tale proprio grazie ai «sì». Quello che Balthasar chiama “principio mariano” altro non è se non il principio storico-salvifico che governa la narrazione biblica dal ciclo dei patriarchi in poi. Non ha nulla a che fare, insomma, con la mistica del femminile o con donne che custodiscono il focolare, e conferma che anche per la tradizione cristiana l’accoglienza della parola e la fede precede qualsiasi mandato ministeriale conferito da Gesù e qualsiasi carisma che proviene dallo Spirito.

Non si può negare, quindi, che negli scritti neotestamentari né Pietro né Maria sono semplicemente descritti nella loro effettualità storica, ma divengono protagonisti di narrazioni metaforiche e acquisiscono il carattere di raffigurazioni simboliche. Maria e Pietro sono due figure storiche che sono state fatte oggetto, da parte di alcune narrazioni evangeliche, di uno specifico approfondimento teologico. Di tale tensione tra fatto e racconto, tra realtà effettuale e narrazione intenzionale l’esegesi deve però saper rendere ragione, portando alla luce le traiettorie letterarie che vanno dalla persona al personaggio, ma anche preservando l’equilibrio teologico presente nelle narrazioni evangeliche che non consente mai, neppure riguardo a Gesù di Nazaret, che il peso del personaggio annulli il profilo della persona o il mito alteri la storia. Di questo criterio, forse ancor di più che dei contenuti delle singole narrazioni, anche la teologia deve saper tener conto. Come possibilità, ma anche come limite. Lungo i secoli, sia rispetto a Pietro che rispetto a Maria, l’equilibrio scritturistico tra dato storico e interpretazioni teologiche è stato frequentemente alterato in favore delle seconde: si tratta di un processo che può continuare indiscriminatamente?

Non posso che limitarmi, evidentemente, che ad alcune considerazioni.

 Tutt’altro che una conclusione

La formulazione balthasariana del principio mariano-petrino fornisce un topos polivalente perché contiene diverse suggestioni virtuali, perché può essere tradotto facilmente in termini funzionali, perché garantisce la conservazione di stereotipi dottrinali, assetti istituzionali, pratiche devozionali. La sua funzionalità non dovrebbe però nasconderne l’ambiguità e la fragilità. Sia riguardo al suo fondamento biblico, sia se preso in esame in prospettiva di genere. Nulla oggi può sfuggire, d’altra parte, al controllo del rapporto tra ordine simbolico, premesse antropologiche e ricadute sociali. Anzi, la consapevolezza che sia il linguaggio che il pensiero teologico non possono sfuggire a questo controllo costituisce il fondamento delle disputationes contemporanee.

1 Marinella Perroni, A proposito del principio mariano-petrino: per una metodologia dell’elaborazione-comunicazione della fede che rispetti il dato biblico: P. Ciardella-S. Maggiani (edd), LA fede e la sua comunicazione. Il Vangelo, la Chiesa e la cultura, Bologna (Dehoniane)2006, 93-116. Il mio intervento al Forum era pensato in combinazione con quello di Giovanni Colzani, Il «principio mariano» fondamento e struttura della comunicazione della fede, ib., 117-129.

2 Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella chiesa universale, Nuovi saggi 20, Brescia [Queriniana] 1974 (ed.or. Freiburg i.B. 1974), 182-225.

3 Ne offre una panoramica l’Omelia del Cardinale Tarcisio Bertone sul carisma mariano e il carisma petrino nella Chiesa di Cristo (12.09.2006, giorno dedicato alla Madonna della Guardia).

4Cappella papale e concelebrazione eucaristica con i nuovi cardinali per la consegna dell’anello cardinalizio (25.03.2006, Solennità dell’annunciazione del Signore).

5 Marialis cultus, 30.

6 cfr. Punti fermi, Milano [Rusconi] 1972.

7Mulieris dignitatem, VII, 27.

8 Mulieris dignitatem, VIII, 30.

9 Cfr. n. 1.

10 Maestro dove abiti? Donne e uomini alla sequela di Gesù nel Vangelo di Giovanni, Bibbia e spiritualità 21, Bologna [Dehoniane] 2003.

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