Tradizione e modernità: intervista sul Sinodo sulla famiglia


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E’ apparsa sul blog della rivista  IHU –on line una intervista sul prossimo Sinodo sulla famiglia (http://ihu.unisinos.br/entrevistas/546208-sinodo-sobre-a-familia-entre-a-tradicao-e-a-modernidade-entrevista-especial-com-andrea-grillo) a cura di Patricia Fachin.

Qui presento la versione originale italiana della intervista rilasciata alla rivista brasiliana

 

– Sotto quali aspetti lei pensa che la Chiesa sia autoreferenziale?

Il tema della autoreferenzialità ecclesiale, come questione di fondo, è stato sollevato da papa Francesco immediatamente dopo la sua elezione. Anzi, potremmo dire che questo è il tema fondamentale che ha segnato anche il discorso che Jorge Mario Bergoglio ha pronunciato alla Congregazione dei Cardinali, durante la preparazione del Conclave. E’ forse il tratta decisivo che qualifica il suo pontificato. E indica la esigenza di superare una tendenza che potremmo riconoscere collocata alla base del rapporto della Chiesa cattolica con il mondo moderno. Sia con la “prima modernità”, nel conflitto con il protestantesimo, sia nella “seconda modernità”, nel conflitto con la società liberale. Una Chiesa antiprotestante e antimoderna, inevitabilmente, ha accresciuto largamente una “sindrome di chiusura” che le ha fatto perdere quasi ogni fiducia verso l’”altro”. In tal modo, chiudendosi progressivamente in se stessa, la Chiesa ha perso non solo la propria identità, ma anche la propria vocazione. Il rimedio alla autoreferenzialità è la “uscita”, altra parola chiave del pontificato.

– Il Sinodo riflette quest’immagine autoreferenziale di Chiesa?

Di per sé, il Sinodo avrebbe dovuto essere la continuazione della esperienza conciliare di “apertura all’altro”. Questa era la sua funzione originaria. Ma bisogna dire che la sua disciplina e la sua gestione, nel periodo post-conciliare, ha fatto del Sinodo dei Vescovi uno strumento di progressiva autoreferenzialità, almeno in due sensi. In primo luogo a causa di una mancanza di libertà che ha caratterizzato i lavori delle diverse Sessioni, dove quasi tutto era predeterminato in anticipo. In secondo luogo per “mancanza di autorità”: a ben vedere, infatti, oggi il Sinodo dei Vescovi è dotato di minori poteri rispetto ad un qualsiasi Consiglio Pastorale diocesano. Questa mancanza di autorità si presenta come una questione di fondo, che occorrerà affrontare con tutta la determinazione necessaria.

– Oggi esiste un senso comune per cui la Chiesa è autoreferenziale e che dovrebbe essere più aperta ai cambiamenti in tutto il mondo. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi per la Chiesa nel “modernizzarsi”, per così dire, ripensando anche i suoi sacramenti, come il matrimonio?

Vorrei precisare che proprio su questo piano, ossia sul modo di intendere la autoreferenzialità, si crea spesso un equivoco pericoloso. La autoreferenzialità certamente si manifesta come una “distanza dal mondo”, progressiva e grave, ma anche – e direi in modo ancora più rischioso – come una distanza da Dio, dalla sua imprevedibile autorità e dalla libertà del suo Spirito. Se una Chiesa è autoreferenziale, anzitutto si chiude a Dio e alla sua Parola. Una Chiesa chiusa in se stessa, fallisce perché non si lascia più guidare dallo Spirito, ma dai suoi codici, dalle sue regole e dalle sue abitudini. Tuttavia, proprio per poter ascoltare la parola che Dio le rivolge, la chiesa deve vivere la esperienza degli uomini e delle donne, fino in fondo e senza paura. Non esiste possibilità di comprendere gli stessi sacramenti separandosi dalla esperienza degli uomini e delle donne. Per questo la “autoreferenzialità” è un problema anzitutto per la teologia, oltre che per la pastorale.

– È possibile che la Chiesa ripensi i propri sacramenti e mantenga in ogni modo le sue posizioni?

E’ chiaro che la tradizione ecclesiale ha una grande urgenza di ripensare tutti i sacramenti, dal battesimo, alla eucaristia al matrimonio. Può mantenere le proprie posizioni solo se è capace di lasciarle illuminare dalla Parola di Dio e dalla esperienza degli uomini e delle donne. In altri termini, la Chiesa può restare fedele alle proprie tradizioni solo se, per certi versi, è capace di leggerle in modo diverso, più acuto e più profondo. Una mera ripetizione non salva la tradizione, ma la affossa. La Chiesa non è un museo, ma un giardino.

– Lei critica la Chiesa quando essa tocca vari temi, come quelli presenti nel dibattito del Sinodo, puntando a se stessa, nella forma del riferimento al Magistero e a documenti precedenti. Che ruolo il ricorso al Magistero deve avere nel dibattito?

Come è evidente, la Chiesa non può non fondarsi su una tradizione che il Magistero interpreta con la massima autorevolezza. Quindi non vi può essere nulla di strano nel fatto che, anche nel Sinodo sulla famiglia, vi sia un forte richiamo alla tradizione magisteriale, antica e recente. Il problema è piuttosto rappresentato da quelle forme di riferimento al magistero che pretenderebbero di “fossilizzare” la esperienza di fede e la vita dei soggetti nelle categorie fissate dal Magistero, ma non in modo irreformabile. Oggi, dobbiamo ammetterlo, ci sono posizioni del Magistero antico e recente, che non risolvono i problemi, ma, anzi, contribuiscono a complicarli o a renderli assolutamente privi di soluzione. Faccio solo due esempi. Il primo è quello della “identificazione di contratto e sacramento”, con cui la tradizione tardo moderna ha cercato di salvare non solo la verità del matrimonio, ma anche la competenza ecclesiale su di esso. Oggi, questa soluzione appare non solo forzata, ma come la causa di molti imbarazzi giuridici e pastorali. Altrettanto dovremmo dire per l’uso disinvolto con cui si fa ricorso alla “mistica nuziale”, utilizzando un linguaggio da profeti, ma per fare gli interessi dei re. Spesso questo riferimento “mistico” serve soltanto a dare una parvenza di argomentazione a regole o a discipline nate da mondi ormai tramontati e privi di realtà.

– Si può approfittare di ciò che dice il Magistero senza cadere nell’autoreferenzialità?

Io sono convinto di si. Purché si riconosca che il Magistero non parla solo al passato, ma anche al presente e al futuro. Se il Sinodo dei Vescovi fosse del tutto cosciente di “essere parola magisteriale”, avrebbe il coraggio e la fedeltà della tradizione e potrebbe assumere anche il compito di “dire cose nuove”: nella storia è stato fatto molte volte e non si capisce perché oggi non dovrebbe essere possibile! Se guardiamo anche al recente passato, la Esortazione Apostolica Familiaris Consortio ha introdotto nella Chiesa, nel 1981, alcune parole nuove. Io non capisco perché, 35 anni dopo, non dovrebbe essere possibile continuare su quella strada, anche accollandosi alcune novità necessarie rispetto a quel testo. Altrimenti dovremmo pensare che Giovanni Paolo II fosse autorizzato ad arricchire la tradizione, mentre Francesco no!

– Lei ha citato in un recente articolo che per capire meglio l’esperienza familiare, per quanto riguarda il Sinodo, sarebbe meglio elaborare categorie più adeguate che potrebbero essere tratte dall’esperienza liturgica. Quali categorie sono?

Le categorie con cui spesso parliamo del matrimonio hanno avuto origine da interessi e da questioni di carattere giuridico e morale. Per questo il linguaggio con cui vengono formulate spesso risente di questa origine. Oggi abbiamo bisogno di non perdere queste ricchezze, ma di riformularle secondo linguaggio diversi, forse meno chiari, ma molto più potenti e radicali. L’esperienza liturgica della “comunione” non è anzitutto una esperienza giuridica o morale, ma è esperienza di “pasto”, di “parola”, di “raduno”, di “cura per l’altro”. A mio avviso non è privo di utilità interrogarsi sulla esperienza familiare con l’aiuto di queste categorie-limite: la tavola, il talamo e la toilette (sic!) come luoghi della comunione familiare. Questo aiuta molto a non ideologizzare la famiglia, a riconoscerla come luogo di comunione elementare, nel mangiare insieme, nel dormire insieme, nel prendersi cura della pulizia altrui!

– Particolarmente a proposito del matrimonio, lei dice che “le categorie classiche intorno al matrimonio, non hanno più elasticità”. Perché? Quali categorie dovrebbero sostituirle per “dire” il matrimonio, allora?

In questo compito di riformulazione non dobbiamo iniziare da zero. La storia della teologia è la lunga storia di una progressiva precisazione delle categorie con cui la Parola di Dio sulla unione tra uomo e donna diventa vivibile, si fa cultura, in rapporto alla natura e al compimento in Dio. Io vorrei che si evitasse di pensare – come spesso accade – che per 2000 anni abbiamo avuto sempre le stesse parole, e ora le vorremmo cambiare. Non è affatto così. Nella storia le categorie di comprensione del matrimonio si sono evolute tante volte. Alla comprensione “romana” si è ben presto affiancata la lettura “barbarica” del matrimonio. Una prima sintesi tra queste due “culture” è avvenuta nel Medioevo. Ma poi con Trento si è riconosciuto un valore alla “forma canonica”, per poi arrivare, con il Codice del 1917, ad una formulazione complessiva e rigida del rapporto tra contratto e sacramento. Ma, parallelamente, nasceva l’esigenza di dare spazio alla “persona”, al “soggetto”, al “sentimento”, di cui è testimone il Concilio Vaticano II. Tutto questo è avvenuto nel contesto di una società che, anzitutto in Europa, prendeva nuovi stili di vita, scopriva la mobilità, i diritti dei soggetti (e delle donne) e ripensava le forme della comunione.

– Lei ha anche citato che la categoria del matrimonio è entrata in crisi dal XIX secolo. Questa crisi indica, in parte, che non vi è più un’adesione alla concezione cristiana del matrimonio da parte della società. Tuttavia, che cosa dice questa crisi o dovrebbe dire sul valore della verità della concezione del matrimonio in se stessa?

Credo che sia utile distinguere bene le questioni. Anzitutto vi è uno sviluppo delle forme civili del vivere che non si può mai ridurre soltanto alla “adesione a valori”. La fedeltà tra i coniugi, per moltissimi secoli, non era solo un valore, ma una necessità. Bisogna ricordare che fino al XX secolo la condizione di “separazione” tra i coniugi determinava per uno dei due – e spesso per entrambi – la impossibilità di vivere. L’idea della “autonomia finanziaria” di ogni soggetto è recentissima e condiziona strutturalmente la possibilità di “seconde unioni”. Dire la “verità del matrimonio” significa dare gli strumenti ideali, materiali, psicologici ed esperienziali per rendere possibile la fedeltà, la indissolubilità e la fecondità nelle condizioni della società “aperta” e addirittura “liquida”. D’altra parte, non tutto il mondo è uniforme. Per questo sarà inevitabile che la Chiesa differenzi la propria disciplina almeno per “grandi continenti”, o comunque per grandi regioni ecclesiastiche, dove il rapporto tra natura, cultura e fede subisce inevitabili differenze, legate alla storia e a diverse tradizioni culturali.

– Nel suo libro Sinodo approssimato”, lei cita il seguente brano: “San Vincenzo di Lerino fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione di un’epoca ad altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passare del tempo”. Detto questo, quali aspetti dell’uomo sono cambiati e devono essere considerati dalla Chiesa nella realizzazione del Sinodo per quanto riguarda la famiglia e l’idea di famiglia?

Accettare ciò che dice S. Vincenzo di Lérins significa non illudersi di poter guardare alla storia “da fuori”. Questo è, in fondo, il vero pericolo della autoreferenzialità: di credere di stare a guardare la storia “dal balcone”. Come ha detto papa Francesco, abbiamo bisogno di teologi e di pastori che non stiano “al balcone”, ma che scendano in strada, che lavorino “in uscita”. Per parlare della “comunione” tra uomo e donna, che si apre alla vita e che diventa autorevole, dobbiamo oggi elaborare categorie più fini e più acute. Abbiamo una lunga tradizione che ha vissuto la “autorità paterna” o “maritale” come una evidenza talmente grande, da diventare anche motivo di sopruso e di violenza. Oggi essere “padri”, “madri”, “mariti”, e “mogli” ha bisogno di una grammatica in parte nuova, che sappia coniugare la autorità con la libertà, la differenza con la eguaglianza. Una famiglia che oggi volesse sostituire o soppiantare la libertà dei soggetti e la loro coscienza sarebbe solo una nuova forma di oscurantismo. Esattamente come lo è il tentativo di pensare il soggetto liberandolo dalla comunione originaria che deve riconoscere iscritta nella propria libertà.

– D’altro canto, nonostante i cambiamenti, quali aspetti dell’uomo si mantengono? Considerando questi aspetti che restano, come la Chiesa deve disporsi a proposito del Sinodo?

Proprio questo è il punto delicato: noi non dobbiamo affatto rinunciare a nulla del “vangelo della famiglia”, ma non dobbiamo confonderlo con un assetto storico particolare. La storia cambia, e non cambiamento non c’è solo perdita, crisi, mancanza…le cose cambiano anche per migliorare, per progredire, per affinare le esperienze. Spesso mi capita di pensare al passato, ad es. a quanto avveniva nelle famiglie 100 anni fa. Potremmo essere tentati di pensare che “allora” – e non oggi – vi fosse una vera unità familiare. Ma a quale prezzo questo avveniva? Spesso i soggetti (magari le donne, o i figli non primogeniti) pagavano un prezzo altissimo a questa unità. Dovevano rinunciare ad una identità, alla formazione, alla educazione, alla scelta del partner…per il “bene comune”. Oggi non è più possibile conseguire il bene comune a questo prezzo. E qui vi è la sfida alla Chiesa e alla società. Che non si risolve solo con gli slogan o con gli irrigidimenti.

– In quali aspetti Lei vede la necessità di una migliore formulazione dottrinale?

Vorrei augurarmi, anzitutto, che nella formulazione dottrinale si evitasse, con grande accuratezza, quella mescolanza non controllata tra “disciplina giuridica” e “mistica nuziale” che rischia di compromettere la credibilità teologica e antropologica della tradizione. Sotto questo aspetto abbiamo molto da imparare dalla tradizione medioevale, che sapeva della complessità di questo sacramento. Tommaso, nella Summa contra Gentiles, ricordava che si è generati “per la natura”, “per la società” e “per la chiesa”, secondo logiche diverse, che non possono essere semplicemente unificate. Rispettare queste tre dimensioni del matrimonio e della famiglia – quella naturale, quella civile e quella religiosa – aiuterebbe non solo la Chiesa a recuperare queste preziose distinzioni, che hanno fatto tanto ricca e tanto accurata la sua tradizione in materia matrimoniale. D’altra parte, il superamento di una ”mentalità legale classica” può essere bene illustrato da un esempio. La tradizione ecclesiale fa fatica a comprendere che la “legge” non è solo “pedagogia del dovere”, ma anche “riconoscimento del diritto”. Vorrei fare un esempio illuminante. Nella recente legislazione civile italiana abbiamo acquisito la “piena equiparazione del figlio naturale” al “figlio legittimo”. La eguaglianza supera ogni discriminazione. Ora è possibile giudicare questo provvedimento da un punto di vista “classico”: ossia, con la equiparazione del figlio naturale al figlio legittimo viene meno uno dei motivi classici del matrimonio “riparatore”. In un certo senso, con questa legge, diminuiscono i motivi a favore del matrimonio. Una lettura solo pedagogica della legge sarebbe anche oggi contraria alla equiparazione del figlio naturale al figlio legittimo: metterebbe il “bene comune” comunque al di sopra del diritto del soggetto. E lo si potrebbe sostenere anche “per favorire la indissolubilità del matrimonio”.

-Vorrebbe aggiungere qualcosa?

 Una Chiesa non autoreferenziale è chiamata, anzitutto, a restituire al matrimonio e alla famiglia la sua logica “altra”. Se il matrimonio diventa “autoreferenziale” perde se stesso. Per non essere autoreferenziale il matrimonio deve restare aperto alla complessità. La sfida del matrimonio è dunque, per la Chiesa di oggi, una “prova di coraggio”. Per difendere la famiglia c’è una sola via: scoprire quanta comunione è meravigliosamente nel benedetto affidarsi di un uomo e di una donna, che si apre al terzo e che rappresenta, in questa semplice esperienza, il paradigma più alto di Dio con il suo popolo e di Cristo con la sua Chiesa. Questo paradigma può essere tradotto nella cultura tardo-moderna della società aperta e del “soggetto di diritti”. Dopo Dignitatis Humanae il matrimonio ha bisogno di un linguaggio in parte profondamente nuovo.

 

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