Trent’anni dopo “Sacra virginitas” e trent’anni dopo “Ordinatio sacerdotalis”: dottrine definitive o stadi di una evoluzione?

In un interessante articolo, comparso sull’ultimo numero della rivista portoghese “Brotéria”, 197(2023), 158-171, il prof. Jerònimo Trigo dedica attenzione al tema: Dottrine definitive? Gli esempi del matrimonio e del celibato. Il tema della riflessione è la qualità “definitiva” e “irreformabile” di asserzioni che il magistero papale indica esplicitamente in un certo momento storico come dotate di tali caratteristiche. Sappiamo infatti che la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis ha inteso esplicitamente dire una parola autorevole intorno alla riserva maschile del ministero sacerdotale, intendendo esprimere una “sentenza definitiva” e perciò irreformabile. L’articolo, tuttavia, non si occupa nel dettaglio della questione, ma soltanto del suo lato formale, ossia della pretesa di definitività. Se nel 1994 un pronunciamento papale con questo grado di autorevolezza ha espresso esplicitamente una tale sentenza, 30 anni dopo un altro papa, o un Sinodo o un Concilio, potrebbe mai dire una cosa diversa?
Alla domanda l’articolo risponde indirettamente, raccontando nei dettagli un’altra storia, singolarmente parallela e assai istruttiva. Si tratta della vicenda della Enciclica Sacra virginitas (1954) con cui papa Pio XII affermava autorevolmente e solennemente la superiorità della verginità/celibato rispetto alla vita matrimoniale. Il tenore del testo della enciclica appare inequivocabile, perché muove dalla esigenza di contestare alcuni dubbi sorti nella Chiesa:
“Vi sono, però, oggi alcuni che, allontanandosi in questa materia dal retto sentiero, esaltano tanto il matrimonio da anteporlo alla verginità; essi disprezzano la castità consacrata a Dio e il celibato ecclesiastico. Per questo crediamo dovere del Nostro apostolico ufficio proclamare e difendere, al presente in modo speciale, l’eccellenza del dono della verginità, per difendere questa verità cattolica contro tali errori.”
Di fronte a queste negazioni si afferma nel modo più autorevole la superiorità della verginità consacrata sulla vita matrimoniale:
“La dottrina che stabilisce l’eccellenza e la superiorità della verginità e del celibato sul matrimonio, come già dicemmo, annunciata dal divin Redentore e dall’apostolo delle genti, fu solennemente definita dogma di fede nel concilio di Trento e sempre concordemente insegnata dai santi padri e dai dottori della chiesa. I Nostri predecessori, e Noi stessi, ogni qualvolta se ne presentava l’occasione, l’abbiamo più e più volte spiegata e vivamente inculcata. Tuttavia, poiché di recente vi sono stati alcuni che hanno impugnato con serio pericolo e danno dei fedeli questa dottrina tramandataci dalla chiesa, Noi, spinti dall’obbligo del Nostro ufficio, abbiamo creduto opportuno nuovamente esporla in questa enciclica, indicando gli errori, proposti spesso sotto apparenza di verità”.
Un dogma di fede appare irreformabile e capace di vincolare per sempre la dottrina ecclesiale nel riconoscimento del primato del celibato e della verginità consacrata sulla vita matrimoniale. D’altra parte nei testi del Concilio Vaticano II questo insegnamento non viene confermato ed è omesso nei passaggi più decisivi (cfr. LG 40-46). Alcuni riferimenti generici si trovano nel magistero di papa Paolo VI.
Ma quasi 30 anni dopo il testo di Pio XII, Giovanni Paolo II parla molto diversamente sullo stesso tema, durante l’ Udienza Generale del 14 aprile 1982:
“Nelle parole di Cristo sulla continenza “per il Regno dei cieli” non c’è alcun cenno circa la “inferiorità” del matrimonio riguardo al “corpo”, ossia riguardo all’essenza del matrimonio, consistente nel fatto che l’uomo e la donna in esso si uniscono così da divenire una “sola carne” (cf. Gen 2, 24). Le parole di Cristo riportate in Matteo 19, 11-12 (come anche le parole di Paolo nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7) non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato, in quanto questi per la loro natura consistono nell’astenersi dalla “unione” coniugale “nel corpo”. Su questo punto le parole di Cristo sono decisamente limpide. Egli propone ai suoi discepoli l’ideale della continenza e la chiamata ad essa non a motivo dell’inferiorità o con pregiudizio dell’“unione” coniugale “nel corpo”, ma solo per il “Regno dei cieli”.”
E poi prosegue:
“Il matrimonio e la continenza né si contrappongono l’uno all’altra, né dividono di per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi (diciamo: dei “perfetti” a causa della continenza e degli “imperfetti” o meno perfetti a causa della realtà della vita coniugale). Ma queste due situazioni fondamentali, ovvero, come si soleva dire, questi due “stati”, in un certo senso si spiegano o completano a vicenda, quanto all’esistenza ed alla vita (cristiana) di questa comunità, la quale nel suo insieme e in tutti i suoi membri si realizza nella dimensione del Regno di Dio e ha un orientamento escatologico, che è proprio di quel Regno. Orbene, riguardo a questa dimensione e a questo orientamento – a cui deve partecipare nella fede l’intera comunità, cioè tutti coloro che appartengono ad essa – la continenza “per il Regno dei cieli” ha una particolare importanza ed una particolare eloquenza per quelli che vivono la vita coniugale. È noto, d’altronde, che questi ultimi costituiscono la maggioranza. Sembra, dunque, che una complementarietà così intesa trovi la sua base nelle parole di Cristo secondo Matteo 19,11-12 (e anche nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7). Non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione, secondo cui i celibi (o le nubili), solo a motivo della continenza costituirebbero la classe dei “perfetti”, e, al contrario, le persone sposate costituirebbero la classe dei “non perfetti” (o dei “meno perfetti”). Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (“status perfectionis”), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici (povertà, castità e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla chiamata di Cristo alla perfezione (“Se vuoi essere perfetto . . .”) (Mt 19, 21). La perfezione della vita cristiana, invece, viene misurata col metro della carità. Ne segue che una persona che non viva nello “stato di perfezione” (cioè in una istituzione che fondi il suo piano di vita sui voti di povertà, castità ed obbedienza), ossia che non viva in un Istituto religioso, ma nel “mondo”, può raggiungere “de facto” un grado superiore di perfezione – la cui misura è la carità – rispetto alla persona che viva nello “stato di perfezione”, con un minor grado di carità. Tuttavia, i consigli evangelici aiutano indubbiamente a raggiungere una più piena carità. Pertanto, chiunque la raggiunge, anche se non vive in uno “stato di perfezione” istituzionalizzato, perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo, sia in un “Istituto religioso” che nel “mondo”.
Questo discorso è stato ripreso, nel 2016, dal testo di Amoris Laetitia(159-160)
“159. La verginità è una forma d’amore. Come segno, ci ricorda la premura per il Regno, l’urgenza di dedicarsi senza riserve al servizio dell’evangelizzazione (cfr 1 Cor 7,32), ed è un riflesso della pienezza del Cielo, dove «non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). San Paolo la raccomandava perché attendeva un imminente ritorno di Gesù e voleva che tutti si concentrassero unicamente sull’evangelizzazione: «Il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7,29). Tuttavia rimaneva chiaro che era un’opinione personale e un suo desiderio (cfr 1 Cor 7,6-8) e non una richiesta di Cristo: «Non ho alcun comando dal Signore» (1 Cor 7,25). Nello stesso tempo, riconosceva il valore delle diverse chiamate: «Ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor 7,7). In questo senso san Giovanni Paolo II ha affermato che i testi biblici «non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato» a motivo dell’astinenza sessuale. Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista. Alessandro di Hales, per esempio, affermava che in un senso il matrimonio può considerarsi superiore agli altri sacramenti: perché simboleggia qualcosa di così grande come «l’unione di Cristo con la Chiesa o l’unione della natura divina con quella umana».
160. Pertanto, «non si tratta di sminuire il valore del matrimonio a vantaggio della continenza» e «non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione […]. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici». Tuttavia una persona sposata può vivere la carità in altissimo grado. Dunque «perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo».”
Come è evidente, la sequenza tra i testi del 1954 e quelli del 1982 e poi del 2016 mostra bene come la pretesa asserzione definitiva e irreformabile del testo di Pio XII abbia subìto una rilettura profonda, con un superamento esplicito della “superiorità” nella “complementarità”. In effetti la superiorità affermata è diventata la superiorità negata. Dopo trent’anni dal primo documento si è giunti ad una riformulazione e ad una esplicita riforma della posizione precedente. Perché mai ciò che è avvenuto con Sacra virginitas non potrebbe accadere, ancora una volta esattamente trent’anni dopo, anche per Ordinatio sacerdotalis? Dottrine dichiarate come definitive, in un determinato momento, possono forse non esserlo più in un momento successivo? Il caso della superiorità della verginità sul matrimonio, prima affermata e poi negata, è un esempio inaggirabile di revisione successiva rispetto ad una affermazione ritenuta definitiva. Si deve notare, per finire, che l’esempio è tanto più istruttivo per il fatto che Sacra virginitas (1954) poteva basarsi su un esplicito canone dogmatico espresso sul tema dal Concilio di Trento, cosa che manca invece alle fonti di supporto di Ordinatio sacerdotalis (1994). Se una dottrina che era stata definita “dogma di fede” ha potuto essere riformata, come potrebbe non esserlo una dottrina che mai era stata così esplicitamente considerata? L’articolo del prof. Trigo si conclude con questa importante affermazione: “l’enciclica Sacra Virginitas di papa Pio XII, nel 1954, riafferma la dottrina dei due stati di vita cristiana, la verginità e il matrimonio, indicando la superiorità e la perfezione della prima, definita solennemente come dogma di fede dal Concilio di Trento. Essa ha fondamento biblico e fu elaborata e trasmessa dalla Tradizione e dai Papi. Il Concilio Vaticano II e i documenti pontifici posteriori non si pronunciano in proposito. Il papa Giovanni Paolo II si pronuncia in senso contrario. Conseguentemente si pone la questione più generale sulla continuità, discontinuità e persino sulla rottura rispetto a dottrine definite, in un determinato momento, come definitive” (169-170).
Sono tre le modalità tramite le quali il magistero della chiesa procede a modificare un precedente pronunciamento dottrinale. Tre vie di sviluppo dogmatico. Ne parla diffusamente Michael Seewald in “Riforma. Quando la Chiesa si pensa altrimenti” ed. Queriniana. Le tre modalità indicate da Seewald sono: l’autocorrezione esplicita, l’oblianza e l’occultamento dell’innovazione.
Familiaris Consortio n. 16: “È per questo che la Chiesa, durante tutta la sua storia, ha sempre difeso la superiorità di questo carisma nei confronti di quello del matrimonio, in ragione del legame del tutto singolare che esso ha con il Regno di Dio”.
Superiorità.di.questo.carisma.
Il professore portoghese, una ricerchina su internet, prima di dire stupidaggini, no?
Se lei sapesse contare avrebbe compreso che il 1981 viene prima del 1982. E che il testo nuovo, poi ripreso da Francesco, è successivo. Ma siccome non riesce a resistere dall insultare tutti quelli che non capisce, si perde una bella occasione per imparare qualcosa
Che risposta geniale! Un anno cambia devvero tutto! Da un dogma a un errore nel giro di un anno e per bocca del medesimo papa, come ho fatto a non pensarci? Grazie per la sua preziosa indagine teologica.
…ma tanto, come al solito, lei pubblica solo i commenti per cui ha pronta una (sconclusionata) rispostina, non quelli che sbugiardano le fesserie sue o dei suoi compari. Quindi immagino che anche questo cadrà nell’oblio internetico. Ah, la serietà intellettuale e accademica! Che lontano ricordo…
Caro Carlo, qui non ci capiamo:
a) Pubblico tutti i commenti che non contengano insulti. Lei talvolta insulta (quasi sempre) e per questo spesso non la pubblico. Ma è colpa sua;
b) Nel caso del commento precedente, lei insultava Trigo, l’autore del testo che commentavo. Per questo non ho lasciato passare il suo insulto infondato;
c) In questo caso Lei continua e la pubblico solo per poter rispondere ai suoi due errori gravi: il magistero evolve quando un testo, successivo ad uno precedente, dice una cosa diversa o opposta. Fino al giorno prima le cose stanno in un certo modo, ma dal giorno in cui viene pubblicato un testo diverso, dotato della autorità necessaria, le cose cambiano. Non importa se la distanza sia un secolo, un anno, un mese o un giorno. La “successione” determina una evoluzione. Anche se non le piace, questa non è una tesi sconclusionata. Piuttosto senza senso è la sua obiezione: come si può pensare che un papa che nel 1981 dice una cosa e nel 1982 ne dica una diversa e opposta? Si può pensare, tanto più se quel papa, nei successivi 22 anni di pontificato non ha mai più confermato la prima versione. A maggior ragione se, più di recente, un altro papa ha confermato la versione del 1982, non quella del 1981. Eviterei in futuro di prendere posizioni così ingiuriose, quando non si conosce l’a b c della evoluzione magisteriale. Non ha mai sentito parlare dello “sviluppo della dottrina”? Nessuno ha affermato fesserie, né Trigo né io e lei sembra riuscire a sbugiardare solo se medesimo. Purtroppo le ho risposto. Se riuscisse in futuro a scrivere 2 righe senza insultare me o qualcun altro, sarebbe anche possibile intrecciare dialoghi interessanti.
Purtroppo devo costatare che il tentativo di pacificazione non funziona. Se lei invia commenti con insulti (di cui nemmeno si rende conto) sarà inevitabile che, per dire la sua, si apra un blog diverso da questo. Qui si discute e non si insulta. Se lei crede di avere il diritto di farlo solo perché ritiene che io sia un “figlio degenere”, che non rispetta la madre Chiesa, non so come aiutarla. Nel suo blog può scrivere ciò che ritiene, non nel mio.
Caro professore,
Ho letto con interesse e attenzione i recenti articoli pubblicati sul blog. Le ricordo che tra le nostre comprensioni delle cose sussistono divergenze simmetriche. Non sono pronto a dirle complementari, tuttavia dialoghiamo.
Innanzitutto, la ringrazio per questi articoli, perché mi hanno aiutato a comprendere un punto di vista non mio.
Le sue ultime pubblicazioni vertono su due argomenti: ordinazione femminile e società dell’onore vs. società della dignità. Per quanto concerne quest’ultimo, l’obiezione (debole) che le si può rivolgere è che il 1789 (ma direi anche il 1776) ha sancito uno stato di cose solo in apparenza universalmente riconosciuto. D’altronde, chi la pensa come me ritiene che non sia il consenso a legittimare il potere.
Per quanto riguarda l’altra tematica, l’ordinazione femminile, mi riservo di risponderle in altra occasione. Ammetto che ha individuato argomenti stimolanti e ben costruiti. Glielo dico con simpatia: forse un po’ sfacciati.
Sono convinto che il confronto tra gli argomenti sostenuto sia la via principe per offrire un buon servizio alla tradizione. Il disaccordo è il sale di una vera comprensione. E ringrazio ogni volta che il disaccordo non degenera. La ascesi del teologo si nutre anche di questa capacità di non degenerare, che non è mai facile.
Gentilissimo Prof. Grillo,
Grazie per la stimolante riflessione. Un solo punto mi lascia parecchio perplesso. La formulazione e la presentazione della materia fatta da Pio XII in Sacra virginitas ha (o pretende di avere) i caratteri della definitività e, come Lei riconosce, si appoggia esplicitamente su ciò che considera coma “dogma di fede” (un canone tridentino). Lasciando la parte l’udienza del 1982 (non vedo come si potrebbe attribuire ai contenuti di un’udienza un peso magisteriale anche solo equivalente a quello di un’enciclica, ma forse sbaglio), si consideri il testo citato di Amoris laetitia, che, in quanto esortazione apostolica, può essere comparata a Familiaris consortio (mi corregga se sbaglio, non è propriamente il mio ambito). Non mi sembra che il tono con cui il Sommo Pontefice Francesco affronta l’argomento rivesta, nella formulazione e nell’intenzione, i caratteri di solennità con cui si esprimeva il ven. Pio XII. Mi si potrà dire che si tratta solo di aspetti retorici (epoche e stili magisteriali diversi…), ma se la differenza fra il vero il falso passa per l’uso delle figure retoriche, temo che la Verità (se di Verità si può ancora parlare), diventi pressoché irriconoscibile, specie all’uomo della strada… Concludo con una puntatina che può sembrare una provocazione ma non lo è, è una domanda serissima e spero di avere il suo parere in merito. Se una dottrina considerata irreformabile può in realtà essere riformata, a parte la necessità di abbandonare il concetto stesso di irreformabilità, cose impedisce che un papa di domani proclami, che so io, che la Beata Vergine è la quarta persona della Ss Trinità? Mi si potrà dire che il dogma della Ss Trinità è “davvero irreformabile”, mentre il problema in esame (la superiorità del celibato sullo stato matrimoniale) “in realtà sembrava irreformabile ma non lo era, nonostante il Magistero fosse o apparisse convinto del contrario”. Ma allora ciò che è veramente irreformabile si rivela tale solo se non è stato modificato da un’affermazione successiva, il che equivale a dire che le verità in cui crediamo solo sempre falsificabili, per la gioia dei Popper di oggi e di domani. In altre parole, non avremo mai i mezzi di distinguere hic et nunc il “veramente vero” dal “provvisoriamente vero”, e affermazioni di Nostro Signore come “Io sono la Via” potranno essere comprese un domani come “Io non sono la Via”, o, se vogliamo lasciar da parte le parole di Cristo e prendere ad esempio una definizione dogmatica, un domani si potrà scoprire (durante un’udienza?) che il credo di Calcedonia va corretto e che nel Verbo incarnato non sussistono due nature ma una sola. La mia comanda in soldoni è: dati i presupposti che credo essere i suoi (o di Trigo), come si distingue una verità firme tenenda da una provvisoria? E se non si possono distinguere, che senso ha il potere che la Chiesa crede di avere di vincolare la fede dei credenti ad un plesso di verità esposte in forma di proposizione?
Grazie in anticipo del suo tempo!
Suo in Cristo,
Pietro
Caro Pietro,
le questioni che lei solleva sono serie e possono essere affrontate solo se ci liberiamo di una visione rigida della tradizione. Nella quale la differenza tra “indiscutibile” e “discutibile” non si dà mai in modo estrinseco. Intendo dire che vi sono ragioni contingenti, che conducono una fase della storia della Chiesa ad identificare in una proposizione un elemento decisivo per la confessione di fede. Si può ritenere che il nucleo del Credo apostolico tocchi tutti i punti “indiscutibili” della confessione di fede cristiana. E’ chiaro che “indiscutibili” non significa che non si possa discutere intorno ad essi, sul loro significato e sulla loro interpretazione, ma che non possono essere negati senza cadere in contraddizione con la tradizione precedente e entrare in un conflitto non riducibile. Ci sono poi una serie di “verità seconde”, non secondarie, ma che non sono direttamente correlate alle verità prime e ultime. Il modo di interpretare la eucaristia o il modo di considerare i soggetti chiamati al ministero ordinato o la relazione tra verginità e matrimonio possono ricevere forme storiche diverse, senza mettere in questione la relazione con la verità. Il fatto che si metta in questione la “obbedienza di fede” se si discute uno di questi punti “secondi”, costituisce un limite della impostazione recente della relazione tra magistero e teologia. La differenza tra ciò che può essere discusso e ciò che non può essere discusso è il frutto di una elaborazione storica, che non può mai assumere la figura di un elenco tassativo e al di sopra del rapporto tra la parola rivelata e la sua recezione e comprensione da parte della comunità dei credenti. “Io sono la via” non si potrà mai interpretare come “Io non sono la via”. Ma certo sarà sempre necessario dare al concetto di “via” una figura storica che non è già completamente contenuta né nel testo biblico, né nella storia della sua recezione fino ad oggi. Il futuro è luogo di tradizione, anche se talora si vorrebbe scongiurarlo come una sciagura.
Gentilissimo Prof. Grillo,
Grazie del tempo dedicato alla mia domanda. In un commento precedente Lei dice che “quel papa [= GPII], nei successivi 22 anni di pontificato non ha mai più confermato la prima versione [espressa in FC]”. Ora, in Vita consecrata lo stesso santo pontefice, al § 18, dice “… Haec causa est cur in christiana traditione semper factus sit sermo de concreta vitae consecratae praestantia”. Se è vero che non impone di condividere questo “sermo”, l’espressione usata sembra per lo meno giustificare questa tradizione che, a quanto pare, ha avuto “semper” corso nella riflessione della Chiesa. Al § 22, poi, il papa è ancora più esplicito: “Hac in docilitatis affectione erga Patrem Christus, licet vitae coniugalis dignitatem sanctitatemque et sanciat et defendat, virginalis tamen vitae figuram suscipit atque revelat ita excelsam praestantiam et arcanam spiritalem virginitatis fecunditatem”. Tralascio l’infelice traduzione italiana, che glossa la “excelsa praestantia” come “pregio sublime”, perdendo così evidentemente la sfumatura, che qui ci interessa, comparativa implicata da prae-stantia (in tal senso la versione inglese è più fedele all’originale: “the sublime excellence”). Il concetto è quindi ribadito in termini non equivoci nel § 32, dove si legge: “Quod vero ad Ecclesiae sanctitatis patefactionem pertinet, obiectiva assignanda est vitae consecratae praestantia, qua ipse vivendi modus Iesu Christi uti imagine refertur”, frase in cui la perifrastica passiva ci impone di “assegnare” questa “oggettiva eccellenza” alla vita consacrata. Stando al suo modo di procedere, nel 1981 in FC § 16 GPII si esprime in un modo, poi in un’udienza del 1982 si esprime in senso – almeno apparentemente – opposto, ma nel 1996 ritorna a parlare dell’oggettiva preminenza/eccellenza (“obiectiva … praestantia”) della vita verginale/consacrata rispetto a quella coniugata. Soffermandosi quindi solo al magistero di GPII (lasciando per un attimo in sospeso qual fosse l’intenzione del Santo Padre Francesco nel passo citato di AL e quale sia, pertanto, il peso magisteriale di quella affermazione), pare che il santo pontefice continuasse ad abrogare se stesso a distanza di qualche anno. Uso questi termini paradossali perché mi pare appunto che paradossale sia l’esito di un’applicazione rigorosa di quanto Lei suggeriva, ovvero che “fino al giorno prima le cose stanno in un certo modo, ma dal giorno in cui viene pubblicato un testo diverso, dotato della autorità necessaria, le cose cambiano”. Infine, volevo ribadire la mia domanda, per la quale ora non mi sembra di aver ottenuto una risposta definitiva: se, come Lei dice, “la differenza tra “indiscutibile” e “discutibile” non si dà mai in modo estrinseco”, e se “vi sono ragioni contingenti, che conducono una fase della storia della Chiesa ad identificare in una proposizione un elemento decisivo per la confessione di fede”, come fa il credente, qui e ora, a sapere se le proposizioni di fede in cui crede per essere salvato appartengono alla categoria dell’assoluto o del contingente? Possiamo davvero credere che la potestà – e il comandamento – di insegnare che Cristo ha dato alla Sua Chiesa dipenda, almeno per quanto riguarda certe “verità” (ma il termine “verità” a questo punto mi sembra altamente inadeguato), dipenda da contingenze storiche? Se per determinare se una verità appartiene al deposito immodificabile della fede ci si deve accontentare di costatare che “per ora” non è ancora stata abrogata, possiamo ancora credere che la Chiesa sia la “colonna e sostegno della verità”, o non finirà piuttosto per assomigliare ad una delle tante scuole di pensiero che sono sorte – e morte – lungo i secoli?
La ringrazio per il tempo che vorrà dedicare a questo messaggio.
Suo in Cristo,
Pietro
Le sue osservazioni sono del tutto pertinenti e rivelano quelle oscillazioni che caratterizzano i tempi di trapasso.