Trent’anni dopo “Sacra virginitas” e trent’anni dopo “Ordinatio sacerdotalis”: dottrine definitive o stadi di una evoluzione?


In un interessante articolo, comparso sull’ultimo numero della rivista portoghese “Brotéria”, 197(2023), 158-171, il prof. Jerònimo Trigo dedica attenzione al tema: Dottrine definitive? Gli esempi del matrimonio e del celibato. Il tema della riflessione è la qualità “definitiva” e “irreformabile” di asserzioni che il magistero papale indica esplicitamente in un certo momento storico come dotate di tali caratteristiche. Sappiamo infatti che la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis ha inteso esplicitamente dire una parola autorevole intorno alla riserva maschile del ministero sacerdotale, intendendo esprimere una “sentenza definitiva” e perciò irreformabile. L’articolo, tuttavia, non si occupa nel dettaglio della questione, ma soltanto del suo lato formale, ossia della pretesa di definitività. Se nel 1994 un pronunciamento papale con questo grado di autorevolezza ha espresso esplicitamente una tale sentenza, 30 anni dopo un altro papa, o un Sinodo o un Concilio, potrebbe mai dire una cosa diversa?

Alla domanda l’articolo risponde indirettamente, raccontando nei dettagli un’altra storia, singolarmente parallela e assai istruttiva. Si tratta della vicenda della Enciclica Sacra virginitas (1954) con cui papa Pio XII affermava autorevolmente e solennemente la superiorità della verginità/celibato rispetto alla vita matrimoniale. Il tenore del testo della enciclica appare inequivocabile, perché muove dalla esigenza di contestare alcuni dubbi sorti nella Chiesa:

“Vi sono, però, oggi alcuni che, allontanandosi in questa materia dal retto sentiero, esaltano tanto il matrimonio da anteporlo alla verginità; essi disprezzano la castità consacrata a Dio e il celibato ecclesiastico. Per questo crediamo dovere del Nostro apostolico ufficio proclamare e difendere, al presente in modo speciale, l’eccellenza del dono della verginità, per difendere questa verità cattolica contro tali errori.”

Di fronte a queste negazioni si afferma nel modo più autorevole la superiorità della verginità consacrata sulla vita matrimoniale:

“La dottrina che stabilisce l’eccellenza e la superiorità della verginità e del celibato sul matrimonio, come già dicemmo, annunciata dal divin Redentore e dall’apostolo delle genti, fu solennemente definita dogma di fede nel concilio di Trento e sempre concordemente insegnata dai santi padri e dai dottori della chiesa. I Nostri predecessori, e Noi stessi, ogni qualvolta se ne presentava l’occasione, l’abbiamo più e più volte spiegata e vivamente inculcata. Tuttavia, poiché di recente vi sono stati alcuni che hanno impugnato con serio pericolo e danno dei fedeli questa dottrina tramandataci dalla chiesa, Noi, spinti dall’obbligo del Nostro ufficio, abbiamo creduto opportuno nuovamente esporla in questa enciclica, indicando gli errori, proposti spesso sotto apparenza di verità”.

Un dogma di fede appare irreformabile e capace di vincolare per sempre la dottrina ecclesiale nel riconoscimento del primato del celibato e della verginità consacrata sulla vita matrimoniale. D’altra parte nei testi del Concilio Vaticano II questo insegnamento non viene confermato ed è omesso nei passaggi più decisivi (cfr. LG 40-46). Alcuni riferimenti generici si trovano nel magistero di papa Paolo VI.

Ma quasi 30 anni dopo il testo di Pio XII, Giovanni Paolo II parla molto diversamente sullo stesso tema, durante l’ Udienza Generale del 14 aprile 1982:

“Nelle parole di Cristo sulla continenza “per il Regno dei cieli” non c’è alcun cenno circa la “inferiorità” del matrimonio riguardo al “corpo”, ossia riguardo all’essenza del matrimonio, consistente nel fatto che l’uomo e la donna in esso si uniscono così da divenire una “sola carne” (cf. Gen 2, 24). Le parole di Cristo riportate in Matteo 19, 11-12 (come anche le parole di Paolo nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7) non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato, in quanto questi per la loro natura consistono nell’astenersi dalla “unione” coniugale “nel corpo”. Su questo punto le parole di Cristo sono decisamente limpide. Egli propone ai suoi discepoli l’ideale della continenza e la chiamata ad essa non a motivo dell’inferiorità o con pregiudizio dell’“unione” coniugale “nel corpo”, ma solo per il “Regno dei cieli”.”

E poi prosegue:

“Il matrimonio e la continenza né si contrappongono l’uno all’altra, né dividono di per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi (diciamo: dei “perfetti” a causa della continenza e degli “imperfetti” o meno perfetti a causa della realtà della vita coniugale). Ma queste due situazioni fondamentali, ovvero, come si soleva dire, questi due “stati”, in un certo senso si spiegano o completano a vicenda, quanto all’esistenza ed alla vita (cristiana) di questa comunità, la quale nel suo insieme e in tutti i suoi membri si realizza nella dimensione del Regno di Dio e ha un orientamento escatologico, che è proprio di quel Regno. Orbene, riguardo a questa dimensione e a questo orientamento – a cui deve partecipare nella fede l’intera comunità, cioè tutti coloro che appartengono ad essa – la continenza “per il Regno dei cieli” ha una particolare importanza ed una particolare eloquenza per quelli che vivono la vita coniugale. È noto, d’altronde, che questi ultimi costituiscono la maggioranza. Sembra, dunque, che una complementarietà così intesa trovi la sua base nelle parole di Cristo secondo Matteo 19,11-12 (e anche nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7). Non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione, secondo cui i celibi (o le nubili), solo a motivo della continenza costituirebbero la classe dei “perfetti”, e, al contrario, le persone sposate costituirebbero la classe dei “non perfetti” (o dei “meno perfetti”). Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (“status perfectionis”), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici (povertà, castità e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla chiamata di Cristo alla perfezione (“Se vuoi essere perfetto . . .”) (Mt 19, 21). La perfezione della vita cristiana, invece, viene misurata col metro della carità. Ne segue che una persona che non viva nello “stato di perfezione” (cioè in una istituzione che fondi il suo piano di vita sui voti di povertà, castità ed obbedienza), ossia che non viva in un Istituto religioso, ma nel “mondo”, può raggiungere “de facto” un grado superiore di perfezione – la cui misura è la carità – rispetto alla persona che viva nello “stato di perfezione”, con un minor grado di carità. Tuttavia, i consigli evangelici aiutano indubbiamente a raggiungere una più piena carità. Pertanto, chiunque la raggiunge, anche se non vive in uno “stato di perfezione” istituzionalizzato, perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo, sia in un “Istituto religioso” che nel “mondo”.

Questo discorso è stato ripreso, nel 2016, dal testo di Amoris Laetitia(159-160)

“159. La verginità è una forma d’amore. Come segno, ci ricorda la premura per il Regno, l’urgenza di dedicarsi senza riserve al servizio dell’evangelizzazione (cfr 1 Cor 7,32), ed è un riflesso della pienezza del Cielo, dove «non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). San Paolo la raccomandava perché attendeva un imminente ritorno di Gesù e voleva che tutti si concentrassero unicamente sull’evangelizzazione: «Il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7,29). Tuttavia rimaneva chiaro che era un’opinione personale e un suo desiderio (cfr 1 Cor 7,6-8) e non una richiesta di Cristo: «Non ho alcun comando dal Signore» (1 Cor 7,25). Nello stesso tempo, riconosceva il valore delle diverse chiamate: «Ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor 7,7). In questo senso san Giovanni Paolo II ha affermato che i testi biblici «non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato» a motivo dell’astinenza sessuale. Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista. Alessandro di Hales, per esempio, affermava che in un senso il matrimonio può considerarsi superiore agli altri sacramenti: perché simboleggia qualcosa di così grande come «l’unione di Cristo con la Chiesa o l’unione della natura divina con quella umana».

160. Pertanto, «non si tratta di sminuire il valore del matrimonio a vantaggio della continenza» e «non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione […]. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici». Tuttavia una persona sposata può vivere la carità in altissimo grado. Dunque «perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo».”

Come è evidente, la sequenza tra i testi del 1954 e quelli del 1982 e poi del 2016 mostra bene come la pretesa asserzione definitiva e irreformabile del testo di Pio XII abbia subìto una rilettura profonda, con un superamento esplicito della “superiorità” nella “complementarità”. In effetti la superiorità affermata è diventata la superiorità negata. Dopo trent’anni dal primo documento si è giunti ad una riformulazione e ad una esplicita riforma della posizione precedente. Perché mai ciò che è avvenuto con Sacra virginitas non potrebbe accadere, ancora una volta esattamente trent’anni dopo, anche per Ordinatio sacerdotalis? Dottrine dichiarate come definitive, in un determinato momento, possono forse non esserlo più in un momento successivo? Il caso della superiorità della verginità sul matrimonio, prima affermata e poi negata, è un esempio inaggirabile di revisione successiva rispetto ad una affermazione ritenuta definitiva. Si deve notare, per finire, che l’esempio è tanto più istruttivo per il fatto che Sacra virginitas (1954) poteva basarsi su un esplicito canone dogmatico espresso sul tema dal Concilio di Trento, cosa che manca invece alle fonti di supporto di Ordinatio sacerdotalis (1994). Se una dottrina che era stata definita “dogma di fede” ha potuto essere riformata, come potrebbe non esserlo una dottrina che mai era stata così esplicitamente considerata? L’articolo del prof. Trigo si conclude con questa importante affermazione: “l’enciclica Sacra Virginitas di papa Pio XII, nel 1954, riafferma la dottrina dei due stati di vita cristiana, la verginità e il matrimonio, indicando la superiorità e la perfezione della prima, definita solennemente come dogma di fede dal Concilio di Trento. Essa ha fondamento biblico e fu elaborata e trasmessa dalla Tradizione e dai Papi. Il Concilio Vaticano II e i documenti pontifici posteriori non si pronunciano in proposito. Il papa Giovanni Paolo II si pronuncia in senso contrario. Conseguentemente si pone la questione più generale sulla continuità, discontinuità e persino sulla rottura rispetto a dottrine definite, in un determinato momento, come definitive” (169-170).

Share