«Ti scrivo dalla mia assenza dal mondo, da me stesso e da tutto. Ti scrivo alloggiato nell’abbazia del tuo cuore». Con queste parole Christian Bobin, una delle voci più limpide della poesia francese, salutava l’amico e pittore Pierre Soulages nell’incipit del suo libro La nuit du cœur. Mi piacerebbe cominciare da qui la mia riflessione, fermandomi un istante sul significato profondo di questa frase. Si scrive, secondo la suggestione dell’autore, albergati nell’intimità di un altro. O meglio, dentro il suo spazio sacro. Da quest’accoglienza generosa scaturisce la parola poetica che, maturata fra le mura dell’abbazia interiore, porta con sé i tesori di quell’esperienza: il silenzio, la custodia, il raccoglimento. Non si tratta di un artificio letterario e nemmeno di un’immagine fatta per affascinare le sensibilità spirituali. Dietro la figura spaziale si cela, al contrario, uno schema simbolico ben codificato che permette allo scrittore di rappresentare la recettività del linguaggio poetico e di descriverne le varie dimensioni.
Ma come si struttura questo edificio architettonico? Cosa vuol dire sostare al suo interno? Se per rendere visibile uno spazio occorre conferirgli delle misure, e la poesia lavora invece sul loro superamento, come conciliare il limite con l’apertura della parola?