Suona molto esigente l’affermazione di Simone Weil che «il vero obiettivo e l’interesse pressoché unico degli studi è quello di formare la facoltà dell’attenzione». La pensatrice osserva infatti: «Gli sventurati non hanno bisogno d’altro, a questo mondo, che di uomini capaci di prestar loro attenzione. La capacità di prestare attenzione a uno sventurato è cosa rarissima, difficilissima; è quasi un miracolo, è un miracolo. Quasi tutti coloro che credono di avere questa capacità, non l’hanno. Il calore, lo slancio del sentimento, la pietà non bastano».
C’è da chiedersi allora che cosa sia questa attenzione e quanto essa abbia a che fare con la giustizia. All’interrogativo non mancano certo degne risposte nell’opera di Weil. Esso comunque può forse trovare qui una risposta almeno “per negazione”, al pari di quanto risulta più facile fare esperienza dell’ingiustizia che non definire che cosa sia la giustizia: come è stato osservato di recente, ispirandosi proprio al pensiero di Simone Weil che accompagnerà anche il presente scritto: «Non c’è applicazione giusta di leggi giuste (non parliamo di quelle ingiuste) che possa rendere superfluo lo sguardo dell’attenzione nei confronti di chi si trovi a essere giudicato, o che semplicemente debba subire una decisione presa da altri».