Munera 1/2016 – Ghislain Waterlot >> Pensare da bambini

L’infanzia arriva sempre troppo tardi, a cose fatte, fuori tempo massimo. Lo scoppio di riso limpido della prima giovinezza non ha consapevolezza di sé. Il bambino comprende il valore dell’infanzia quando non ne dispone più, quando è passata. Egli guarda con nostalgia a un’età nella quale vorrebbe ritornare ma che ormai gli sfugge per sempre, nella misura in cui il mondo serio degli adulti lo reclama. Ancor meno riesce a distrarsene, nella misura in cui egli ha desiderato questo mondo adulto, ha desiderato essere parte di questo mondo, essere riconosciuto da questo mondo. Quando era ancora un bambino, aspirava fortemente a diventare un adulto. Lavorava – così pensava – a dimostrare che lo era, comportandosi come se lo fosse; giocava ad essere adulto.

Da questo punto di vista, Hegel aveva ragione nel dire che il bambino non desidera altro che di uscire dalla condizione dell’infanzia, che lo tiene ai margini del mondo degli umani. Il bambino, paradossalmente, appariva così più serio dell’adulto. Mentre l’adulto, troppo spesso, non presta più attenzione ai propri obblighi di adulto e regolarmente manca alle proprie responsabilità, il bambino al contrario mette tutto se stesso nel mimare il più seriosamente possibile il dottore, il venditore, il poliziotto, etc. Perché il bambino dà tutto se stesso al proprio gioco. Certo, egli mima, contraffà l’adulto, ma col suo gioco pone se stesso oltre quell’infanzia che, nonostante tutto, è il suo mondo.

L’infanzia è dunque ciò che il bambino vuole lasciare.

Inoltre, l’infanzia appare spesso in modo negativo agli occhi dei filosofi, i quali in genere non la amano. Perché non amano l’infanzia? Perché è il luogo del capriccio, della sottomissione alle passioni (sottomissione tanto più grande quanto meno è cosciente di se stessa – gli stessi adulti sono troppo spesso ciechi rispetto alle passioni che li dominano, non parliamo dei bambini!).

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