Munera 1/2018 – Daniela Ciaffi >> Dalla tragedia dei commons all’amministrazione condivisa dei beni comuni

Ancor prima di essere qualcosa, i beni comuni sono un modo di vedere le cose, visibili e invisibili. In questa prospettiva le risorse non sono tanto pubbliche o private, quanto comuni: sono quei particolari beni di interesse generale, il cui accesso deve sempre essere garantito a tutti. Per quanto estrema e provocatoria possa sembrare questa definizione a chi non la abbia (ancora) mai sentita, diverse comunità di persone – attive da decenni, sparse in tutto il mondo e sempre più in rete fra loro – la vedono invece così, contribuendo con variegate esperienze a un effervescente dibattito sui beni comuni.

Alla fine degli anni Sessanta l’ecologo americano Garrett Hardin pubblicò sulla rivista Science un saggio fondamentale. Lo intitolò La tragedia dei beni comuni perché vi si argomentava la tesi secondo cui la libera iniziativa nella gestione di un bene comune porterebbe alla rovina di tutti. L’esempio che viene più frequentemente ripreso da questo articolo è quello del pascolo aperto all’uso di chiunque voglia fruirne. Attraverso guerre e carestie si raggiungerebbe la stabilità sociale, ovvero quel difficile equilibrio tra la terra, la popolazione umana e quella animale (pascolo, pastori e pecore). Ma è a questo punto che, inesorabile, arriverebbe la resa dei conti: la capacità di carico del pascolo andrebbe in crisi perché crescerebbe in continuazione il numero dei pastori che vorrebbero sfruttarlo aumentando il proprio gregge. Si consumerebbe così, appunto, the tragedy of the commons.

Molto meno citati nell’attuale dibattito sui beni comuni sono altri passaggi all’interno dello stesso saggio, che vale la pena qui riprendere per cercare di capire cosa è cambiato nel mezzo secolo esatto di tempo trascorso dal 1968 al 2018 a livello culturale, sociale e istituzionale. Prendendo in considerazione i parchi nazionali come beni comuni aperti senza limiti a tutti, anch’essi dunque fortemente a rischio, Hardin si chiedeva: che farne? Le risposte che trovò furono: venderli a privati oppure mantenerli pubblici, a patto di regolarne l’accesso e la fruizione. Sul come l’autore fece le ipotesi più diverse, che andavano dall’estrazione a sorte, a criteri meritocratici, fino al “chi prima arriva meglio alloggia”.

Questo è un passaggio fondamentale da ripercorrere, perché vi si legge chiaramente il tradizionale paradigma bipolare “amministratori/amministrati”, che ha oggi invece un’alternativa possibile nel paradigma collaborativo:  i beni comuni possono essere l’oggetto di alleanze tra soggetti pubblici, privati e del Terzo settore, in nome dell’interesse generale e secondo il principio di sussidiarietà enunciato nell’art.118 della nostra Costituzione: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Una norma profondamente innovativa perché riconosce di fatto le “comunità di interesse generale”: abitanti capaci di attivarsi autonomamente nell’interesse di tutti e per questo garantiti dalla nostra Costituzione nell’essere sostenuti dalle istituzioni.

Per tornare all’esempio dei parchi portato da Hardin, molti spazi verdi oggi in Italia sono amministrati attraverso patti di collaborazione nei comuni che hanno adottato il regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni.  Ma proprio a proposito di norme e regolamenti, e sempre nell’articolo sulla “tragedia dei beni comuni”, si afferma che il diritto amministrativo è tanto centrale quanto rischioso: dal dubbio su «chi controllerà i controllori?» origina il rischio evidenziato da John Adams con l’espressione «un governo di leggi e non di uomini». Già all’inizio del Novecento Giovanni Giolitti aveva peraltro sintetizzato l’attitudine italiana riassunta nell’aforisma «per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano», mettendo in luce, da una parte, le diseguaglianze nel trattamento dei governati e, dall’altra, la buona o cattiva fede di chi ha responsabilità di governo, non solo politiche ma anche tecniche.

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