Sono relativamente pochi i reperti archeo-paleontologici che forniscono testimonianze attendibili sulla struttura fisica dei nostri antenati più antichi, sulle loro capacità manuali e sui loro stili di vita. Talmente pochi che, come usano ripetere gli esperti di questa materia, potrebbero trovar posto sopra un tavolo da ping pong. Parti di scheletri fossilizzati dal tempo e rari strumenti usati nelle attività quotidiane non sono sfuggiti all’occhio attento degli archeologi e dei paleoantropologi che da decenni setacciano i luoghi in cui l’evoluzione umana mosse i primi passi. Certo, solo i manufatti in pietra, gli unici in grado di resistere agli insulti del tempo, sono giunti integri fino a noi, ma non è difficile immaginare che molti altri utensili, fatti di materiali deperibili, siano serviti ai nostri progenitori per gli scopi più diversi. L’utilizzo del legno per costruire rifugi e capanne, ad esempio, ha lasciato precise testimonianze nei fori del terreno in cui erano conficcati i tronchi che delimitavano le capanne e sorreggevano le coperture.
Per entrare in contatto con queste testimonianze della prima umanità ci si deve trasferire nel cuore del continente africano, lungo la Rift Valley, tra l’attuale Tanzania, il Kenia e l’Etiopia. È scavando in queste lande assolate che, associati alle ossa di Homo habilis, sono stati trovati gli strumenti di pietra che egli stesso aveva costruito e che si erano rivelati indispensabili per la sua sopravvivenza. Non è un caso che i paleontologi abbiano dato l’appellativo di habilis a quel nostro lontanissimo parente: era divenuto esperto nella scheggiatura dei sassi di fiume per fabbricare sia attrezzi duri e contundenti, necessari a difendersi e a procurarsi il cibo, sia lame di pietra affilate e taglienti, per interventi manuali più raffinati.
È in Africa dunque che va cercata la culla dell’attuale umanità. La culla di tutti noi, vecchia di due milioni e mezzo di anni.