Prima lezione di filosofia, terzo anno delle superiori. Suor Augusta, in piedi tra la cattedra e i banchi, incalza la classe; in realtà, una quindicina di elementi reduci dalla grande scuola di sopravvivenza del ginnasio. «Che cosa studia la filosofia?», chiede suor Augusta con aria di sfida. Non si poteva evitare di rispondere – come accade a quell’età – sinceramente. «L’uomo», dico io. E lei: «Questo è l’oggetto di studio della psicologia!», mentre subito ci inchioda all’etimologia greca, che avremmo dovuto già comprendere, passando in un lampo da Aristotele al laboratorio sperimentale di Lipsia (1879), dove svolgeva ricerche Wundt, a Sigmund Freud.
Oggi sorrido tutte le volte che in aula si risponde nello stesso modo e con la stessa franchezza alla domanda in merito al dominio pedagogico. Non sempre però altre mi ritrovo delusa, amareggiata, per il fatto che forse si è già richiuso quello spazio che – ne sono testimone – si era aperto una trentina di anni fa, in Italia, per una pedagogia «piuttosto antiumanista».