1. Scopo del dossier
Con il dossier dedicato allo sviluppo sostenibile e all’ecologia integrale, Munera intende iniziare il nuovo anno richiamando l’attenzione dei suoi lettori sull’urgenza di reinventare e reindirizzare l’esperienza umana lungo sentieri che siano all’insegna di una vera sostenibilità sociale, economica, ambientale e politica. Si tratta di interventi non rinviabili e ciò non più solo per ragioni etiche e di fraternità, ma perché ormai è in gioco la stessa possibilità di immaginare nel lungo periodo un futuro felice per l’umanità.
Nonostante siano passati circa sessanta anni dacché si è compresa la necessità di passare a un modello di sviluppo più armonioso, la transizione non si è ancora compiuta. Così, mentre i rapporti umani continuano a essere guastati da ingiustizie e disuguaglianze, il creato va facendosi sempre meno accogliente, incalzato com’è dalla crescita delle temperature, dall’uso troppo intenso delle sue componenti e dall’inquinamento delle matrici ambientali.
Dinanzi a questioni tanto gravi e complesse, i saggi che presentiamo non hanno certo la pretesa di fornire un quadro esaustivo di quanto è in gioco. Essi, piuttosto, intendono richiamare l’attenzione su alcuni recenti sviluppi e sul cambio di passo richiesto dall’ecologia integrale proposta dalla Laudato si’, con il suo invito a farci carico dei problemi del mondo a partire dalla consapevolezza che ogni cosa, problema, individuo è in relazione con gli altri e, perciò, abbisogna di soluzioni integrali, capaci di incidere sulla complessità in modo sistemico.
È questa una rilettura di grande attualità tanto che, mentre si celebra in questi mesi il quinto anniversario di quell’enciclica, il suo messaggio è stato recentemente sviluppato dalla nuova lettera di papa Francesco Fratelli tutti e reclama di essere attuato seguendo nuove strade, come è emerso dai lavori dell’incontro di Assisi The Economy of Francesco[1].
È da qui, da questo bisogno di operosità, che riprendiamo il nostro cammino nella consapevolezza che la possibilità di un futuro felice per l’umanità non è infranta definitivamente, ma occorre agire e farlo in fretta.
2. Il problema dell’insostenibilità del tradizionale modello di sviluppo tra questione sociale e questione ambientale
Lo sviluppo scientifico e tecnologico conseguito dall’uomo a partire dal XVIII secolo e poi soprattutto nel XX, gli hanno consegnato il potere – apparente – di dominare la natura. I cambiamenti procurati da questi eventi sono stati enormi e hanno sostenuto un umanesimo autoreferenziale e concentrato sui bisogni del momento.
Spinta dalla propria volontà di potenza e di benessere, l’umanità ha mediamente migliorato le proprie condizioni di vita materiale. La medicina tecnologica ha ridotto la mortalità infantile e allungato la vita media, la ricchezza prodotta dalle moderne economie è cresciuta e, se ha arricchito solo alcuni, ha comunque sfamato la gran parte della popolazione mondiale, nonostante non sia mai stata tanto numerosa. Certo, le disuguaglianze e le ingiustizie hanno continuato ad affliggere troppe persone e interi popoli, ma meno di quanto avvenne nei secoli passati[2].
Tali risultati in parte sono il frutto interessato del modello economico bisognoso di consumatori, in gran parte sono il risultato delle scelte assunte dalla fine del XIX secolo per mitigare la “questione sociale” generata dall’industrializzazione. Un’opera, quest’ultima, che ha portato gli Stati a disciplinare in modo più stringente le attività umane e ad assumere nuove funzioni pubbliche come l’istruzione, la sanità, la previdenza, per mezzo delle quali si sono attuati alcuni dei diritti fondamentali frattanto riconosciuti ai cittadini sia in sede internazionale, con la Dichiarazione universale dei diritti umani[3], sia in sede nazionale, con le costituzioni e le altre legislazioni sociali.
Questi cambiamenti hanno avuto un prezzo che in molti casi è stato pagato ricorrendo all’indebitamento. Si fa qui riferimento non solo al dato finanziario, pur presente – e per il quale è sufficiente pensare al debito pubblico gravante su molte economie –, ma soprattutto al fatto che per soddisfare i crescenti bisogni umani le risorse naturali sono state usate troppo e male creando problemi ai quali adesso è necessario porre rimedio.
A questo proposito, anche a voler tralasciare il consumo di certe risorse esauribili (una per tutte gli idrocarburi), va considerato che pure quelle riproducibili come le acque o la legna dei boschi e delle foreste, perfino alcune specie animali, sono state consumate con ritmi decisamente superiori ai tempi di rigenerazione naturale, fino a comprometterne la conservazione e, perciò, la futura disponibilità.
L’utilizzo delle risorse, inoltre, è avvenuto senza prestare attenzione ai rifiuti prodotti, che hanno finito per essere riversati nell’aria, nell’acqua e nei suoli in quantità enormi, formando un pesante fardello per il futuro della specie in termini ambientali, ma anche sociali ed economici[4]. In tal senso, basti pensare alle guerre per il controllo delle fonti di acqua potabile[5] (con le conseguenti crisi umanitarie e le migrazioni già in corso), o ai costi di bonifica che sottraggono risorse per i servizi pubblici e spingono a usare risorse non ancora contaminate, degradandole ed esaurendole.
È innanzi a tali “tragiche” realtà che la comunità internazionale[6] sul finire degli anni Sessanta ha dovuto aprire gli occhi sulla situazione venutasi a creare e riconoscere l’insostenibilità nel medio-lungo termine di quel modello di crescita interessato unicamente all’aumento progressivo e costante della domanda e dell’offerta di beni e di servizi[7]. E nonostante tale presa di coscienza sia avvenuta su sollecitazione della comunità scientifica e dei primi movimenti ecologisti principalmente per reagire alla dilagante questione ambientale, occorre tenere conto che fin dal principio l’orizzonte di intervento è stato più ampio.
Ciò emerge in modo chiaro già dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972 (Dichiarazione sull’ambiente umano) la quale, mentre ha segnato il passaggio dall’ambientalismo al diritto dell’ambiente, ha previsto fin dal primo principio che «[l]’uomo ha un diritto fondamentale alla libertà, all’eguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere, ed è altamente responsabile della protezione e del miglioramento dell’ambiente davanti alle generazioni future. Per questo le politiche che promuovono e perpetuano l’apartheid, la segregazione razziale, la discriminazione, il colonialismo ed altre forme di oppressione e di dominanza straniera, vanno condannate ed eliminate».
Già nel 1972, quindici anni prima che la World Commission on Environment and Development delle Nazioni Unite elaborasse compiutamente il principio dello sviluppo sostenibile con il rapporto Our common future (o “Rapporto Brundtland”), nella comunità internazionale era chiara non solo l’interconnessione tra questione ambientale e questione sociale, ma pure il bisogno di intervenire per rimuovere le più odiose forme di ingiustizia, ripristinando una correlazione tra i diritti che spettano a ciascun uomo e le responsabilità verso gli uomini del futuro.
3. La sostenibilità e l’apertura alle generazioni future
È noto che la transizione verso un nuovo modello di sviluppo attento anche alla qualità dei risultati prodotti, e perciò sostenibile, non è stata agevole.
In attesa che le innovazioni tecnologiche consentano di attuare forme efficienti di economia circolare e che si possano prevedere meccanismi più efficaci di ridistribuzione del benessere, negli anni scorsi la sostenibilità ha cessato di essere solo un obiettivo culturale e politico, trasformandosi dapprima in criterio utile a contenere gli eccessi e individuare compromessi ragionevoli tra interessi contrapposti, poi evolvendosi un po’ ovunque in un vero e proprio principio normativo capace di favorire la diffusione di nuove regole di comportamento.
Dopo essere stato enunciato dal citato Rapporto Brundlandt quale sviluppo «that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs», il principio della sostenibilità è stato ripreso da altri testi normativi, tra i quali il trattato sull’Unione europea, per il quale la stessa UE «si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente» (art. 2, co. 3 del TUE).
Il principio così formulato ha consentito di ricollocare l’uomo del nostro tempo in una dimensione storica, restituendogli la consapevolezza di essere parte di una famiglia che non ha solo un presente, ma pure un passato e un futuro.
Si è trattato di un passo in avanti non da poco. L’organizzazione sociale seguita all’industrializzazione, infatti, si era (ed in parte ancora è) concentrata sul momento attuale, perdendo la capacità di cogliere la dimensione intergenerazionale delle proprie azioni. Ciò è avvenuto per più ragioni tra cui l’individualismo, il consumismo, il c.d. “breve-terminismo” per il quale ogni cosa si consuma e risolve nel qui e ora, uniti a certi miti come quello della “mano invisibile” che sarebbe capace di risolvere ogni problema o quello delle «magnifiche e progressive sorti».
È, dunque, nel tentativo di superare tale situazione che già la Dichiarazione di Stoccolma ha indicato le generazioni future come beneficiarie delle nuove misure da adottare. E tale riferimento è stato confermato in tutti i testi successivi, tanto che anche per l’attuale codice dell’ambiente «[o]gni attività umana giuridicamente rilevante […] deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future» (così l’art. 3-quater, co. 1).
Il collegamento tra sostenibilità e tutela degli interessi di chi verrà dopo ha gettato un ponte verso il futuro e creato una relazione intergenerazionale feconda. Quella relazione, infatti, ha radicato la sostenibilità nel terreno della solidarietà, ossia di quel principio – previsto anche dall’art. 2 della Costituzione italiana – che consente di trarre dalle relazioni nuovi doveri di protezione. E questo collegamento ha consentito di fare dell’idea della sostenibilità un principio normativo capace di indirizzare davvero le scelte, sia pubbliche che private, senza per questo imporre soluzioni predefinite[8].
Ma se la funzione del concetto di “generazioni future” è tanto importante, definirne il significato è essenziale e, in effetti, la questione è stata al centro di un interessante dibattito.
A ben vedere, infatti, assodato che chi vivrà in futuro dovrebbe avere delle chance di vivere felicemente e di poter usare delle risorse del pianeta, si comprenderà che, chi adesso fosse interessato a usare quelle risorse o a liberarsi di quante più responsabilità gli sia possibile, avrà tutto l’interesse a limitare l’ampiezza di quel concetto indeterminato. Ciò, tanto sul piano cronologico quanto su quello territoriale e, perciò, con riguardo alle comunità che occupano i vari luoghi.
La questione ha risvolti pratici, venendo in rilievo, ad esempio, quando si tratti di decidere se delocalizzare dei rifiuti o un’attività inquinante, oppure quale orizzonte temporale adottare per decidere dove e come stoccare scorie nucleari la cui radioattività sia destinata a durare da qualche secolo a molti millenni.
Si è così discusso se sono da considerare parte delle generazioni future solo coloro che nasceranno entro una certa data o tutti quelli che verranno al mondo sino alla fine dei tempi. E poi, ancora, se ci si deve preoccupare solo di coloro che apparterranno a una certa comunità o se bisogna guardare agli interessi dell’intera umanità futura.
Nonostante questi temi non abbiano avuto una risposta univoca[9], oggi prevale l’idea che il concetto di “generazioni future” rinvii al soggetto collettivo più esteso, ossia a tutta quanta l’umanità che sfilerà da oggi e sino all’estinzione, senza distinzioni. Una tale opzione è giustificata sia da ragioni naturali, visto che i rapporti tra gli uomini non conoscono confini politici né interruzioni sequenziali, sia da ragioni normative, visto che il concetto di generazioni future è richiamato dalle norme nazionali e internazionali senza altre limitazioni.
Anche la logica depone in tal senso, visto che sarebbe in contraddizione con gli obiettivi della sostenibilità legittimare comportamenti che finirebbero per essere insostenibili per altre comunità territoriali o generazionali. Né può tacersi che la terra e le sue risorse sono beni affidati alla gestione non di una generazione specifica, ma dell’umanità intera[10] che deve dunque goderne «di generazione in generazione», custodendoli con sollecitudine e tramandandoli.
D’altra parte, il fatto che il concetto di “generazioni future” valga a ricomprendere l’intera umanità e che non sia possibile scindere la generazione attuale da quella futura visto che padri e figli convivono per un certo tempo[11], sono circostanze che finiscono per rendere quel concetto un elemento utile a generare un ritorno di vincoli solidali già nel presente. Ciò in quanto, se si è obbligati a prendersi cura degli interessi delle generazioni che un giorno abiteranno un luogo qualsiasi della terra, e se quelle generazioni in parte già esistono benché in giovane età, allora già oggi si è tenuti a prendersi cura di tutta l’umanità, superando gli egoismi territoriali.
4. Dalla sostenibilità all’ecologia integrale: in conclusione un nuovo inizio
La prospettiva (anche) intra generazionale del principio dello sviluppo sostenibile è talmente carica di potenzialità che, mentre aiuta a trovare soggetti che potrebbero rappresentare qui e ora gli interessi delle generazioni future (emblematico il caso del movimento “Friday for future”), finisce per essere perfino problematica quando sia chiamata a interagire con le quotidiane divisioni umane[12].
Confini politici, conflitti ed interessi individuali o di gruppo, mal si conciliano con un principio che suggerirebbe a ciascuno di farsi carico fin da subito dei problemi dell’altro. Eppure, proprio per questa sua capacità di avvolgere l’intera umanità entro un abbraccio di fattiva solidarietà, la prospettiva testé richiamata è quella che maggiormente avvicina e introduce il principio dello sviluppo sostenibile all’ecologia integrale proposta dalla Laudato si’ e all’invito affratellante contenuto nell’enciclica Fratelli tutti, lasciandone intravedere le ragioni, le specificità e, forse, anche qualche via di attuazione.
Quei testi sociali, infatti, invitano a lavorare affinché la ricerca della sostenibilità evolva sino a cedere il passo a un nuovo umanesimo in cui la centralità dell’uomo non si misuri più sul grado di signoria esercitato su quanto esiste, ma sulla qualità delle sue “relazioni” con quanto è stato creato, dunque, con sé stessi e l’intera umanità, ma pure con le altre specie che abitano la casa comune e che meritano di essere rispettate in quanto tali e non solo per le utilità rese, superando così l’antropocentrismo degli attuali modelli di tutela[13].
La proposta proveniente dalle due encicliche richiamate suggerisce, insomma, di andare oltre l’obiettivo della stretta sostenibilità, per incamminarsi volontariamente lungo la strada della fraternità e dell’amicizia sociale[14], in un rinnovato rapporto ecologico con il creato. Si vedrà se avremo la capacità e la voglia di avventurarci lungo questa strada ricca di solidarietà e, perciò, anche di reciproche responsabilità e interdipendenze.
[1] Cfr. www.francescoeconomy.org [accesso: 30/11/2020].
[2] Sul punto si veda il saggio di Domenico Rossignoli, in questa rivista.
[3] In https://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf [accesso: 15/11/2020].
[4] Per alcuni di questi aspetti si veda il dossier dedicato al correlato tema dei beni comuni, in questa rivista, 1/2018.
[5] Sul tema v. The United Nations world water development report 2019: leaving no one behind, in https://en.unesco.org/themes/water-security/wwap/wwdr/2019 [accesso: 15/11/2020].
[6] Risale al 3 dicembre 1968 l’approvazione della risoluzione n. 2398 dell’Assemblea Generale dell’ONU (in http://www.worldlii.org/int/other/UNGA/1968/23.pdf) che ha consentito di convocare a Stoccolma la conferenza terminata con l’adozione della Dichiarazione sull’ambiente umano, primo atto normativo in materia ambientale.
[7] Cfr. l’analisi compiuta per conto del Club di Roma dal MIT di Boston e nota con il titolo The limits to Growth. Per l’edizione italiana si veda D.L. Meadows, D.H. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens (a cura di), I limiti dello sviluppo, Milano, 1972.
[8] In materia ambientale ciò emerge in modo chiaro dall’art. 3-quater, co. 3, del codice dell’ambiente ai sensi del quale «[d]ata la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell’ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell’ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell’ambiente anche futuro».
[9] Al riguardo, anche per gli ulteriori rinvii bibliografici, si veda A. D’Aloia, Generazioni future (diritto costituzionale), in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 2016, 331.
[10] Genesi 1,26-29.
[11] Sul tema H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, trad. it., Einaudi, Torino, 2000, 116, il quale sul tema ha efficacemente evidenziato che «esistiamo ogni volta già con una parte di futuro, e una parte di futuro esiste con noi».
[12] Al riguardo si è osservato che il principio dello sviluppo sostenibile interpretato in via intragenerazionale «diventa immediatamente utilizzabile in chiave distributiva, privandolo in parte della sua attitudine a essere accolto senza riserve da tutti i popoli», così F. Fracchia, Introduzione allo studio del diritto dell’ambiente. Principi, concetti e istituti, ES, Napoli, 2013, 144.
[13] Cfr. Laudato si’, § 68 ss. dove si definisce l’attuale prospettiva antropocentrica come dispotica e deviata.
[14] Si veda Fratelli tutti, in particolare § 6 secondo il quale l’enciclica vuole essere «un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole».