Nel cuore del XXI secolo, quando tutto sembrava ormai cambiato, rivolto verso un futuro tecnologicamente avanzato, abitato da esseri umani potenziati, sempre più affrancati dai limiti della propria condizione vulnerabile, ecco che riemergono mostruosi frammenti del XX secolo, irrisolti, non pacificati, a mostrarci che non c’è futuro senza un rapporto consapevole con la nostra storia. La guerra che riesplode in Europa, i blocchi che si contrappongono, militarmente e ideologicamente, rivelano una frattura profonda del nostro mondo e insieme la fragilità delle nostre speranze e dei nostri legami. Così come avvenuto poco prima in relazione alla pandemia da Covid-19, la filosofia rivela, in questo panorama, la propria insicurezza, la difficoltà di trovare visio- ni alternative e allo stesso tempo di rimanere vicina al vissuto degli umani presi nelle catastrofi della storia. Come ripartire? Non ci sono soluzioni facili e universali. La mia strada, che segue la linea tracciata dalla fenomenologia del Novecento, prende le mosse dalla definizione di un compito – come si possono generare trame relazionali ancorate a una tradizione e insieme aperte verso il futuro? – e da un metodo: cominciare con l’osservazione di un’esperienza quotidiana, di un vissuto condiviso.
La riflessione che propongo in queste pagine, e che ho più approfonditamente svolto in Fiducia ed etica pubblica, si concentra, dunque, su che cosa significhi essere autenticamente cittadini: vivere la cittadinanza implica non solo abitare uno spazio pubblico interconnesso, ma condividerlo attivamente in una rete di diritti, doveri, dipendenze, condizionamenti e libertà reciproche. Posta in questo quadro di relazioni, la cittadinanza non è soltanto un problema politico, amministrativo, di rapporto con determinate istituzioni (l’istituto del voto, l’ancoramento allo Stato sociale, il riconoscimento dell’apparato giudiziario ecc.). Essa si configura piuttosto come una forma specifica di attaccamento, come un le- game nei confronti di un territorio, una cultura, che non ha nulla di naturale, ma si genera attraverso prassi condivise. È in queste prassi che si definisce una tradizione e le persone si formano all’interno di essa, individuandosi grazie alla posizione che assumono al suo inter- no, ai margini, all’esterno. Si tratta di un processo dinamico, che non trova mai una stabilizzazione definitiva. Per tutta la vita siamo presi in questo movimento di autodefinizione in rapporto a una tradizione o a molte tradizioni.