Munera 2/2024 – Editoriale

Di questi tempi, se una rivista intende allestire un nume ro monografico sulla scuola, non ha che l’imbarazzo della scelta. Da una parte, questioni anche molto specifiche di pedagogia e politica scolastica intercettano più che in altre stagioni l’interesse della pubblica opinione. Dall’altra, il circuito onnivoro dell’informazione fa di tutto un sol boccone, lasciando sul campo più confusione che consapevolezza. Forse ci siamo lamentati troppo, in passato, del fatto che la scuola e l’educazione non godessero della pubblica attenzione che meritavano. Oggi siamo stati accontentati oltre misura, dal punto di vista quantitativo. Dal punto di vista qualitativo no, evidentemente: ci si è accorti, sembra, che spararla grossa sulla scuola è una strategia remunerativa per chi deve cavalcare le onde dell’informazione o costruirsi come personaggio

pubblico. Dietro ogni squillo di allarme, ogni affermazione perentoria e ogni nuvola di polvere si intuisce che ci sarebbero questioni vere da dipanare, da rendere più largamente intellegibili per farne materia di confronto aperto sulle politiche educative. A quel punto, di solito, alcuni pareri esperti si organizzano per mettersi in viaggio e raggiungere la pubblica opinione. Un po’ presi fra due fuochi: il disappunto per tanta approssimazione e il peso della responsabilità.

Quando arrivano, quando sono finalmente approdati a un minimo di tribuna dalla quale offrire un apporto più riflessivo e documentato, l’attenzione dei più è già distolta da altro. Probabilmente funziona così un po’ per tutto, ormai; la frustrazione dei chierici della scuola

non è diversa da quella degli altri specialisti. Tuttavia, la centralità che riconosciamo ancora alla scuola nel costruire la società democratica richiede, a ciascuno per la sua parte, di contribuire a quel che dovrebbe essere un dialogo informato e aperto. Di un mondo così complesso come la scuola, nessuna somma di specialismi potrebbe dare una cartografia esatta, una rappresentazione completa: un sapere pubblico sulla scuola si può costruire solo dialogicamente.

Ci è sembrato utile dedicare questo spazio a una scelta di pochi temi dal dibattito scolastico corrente chiedendo un contributo ad autori e autrici che, da posizioni diverse, li hanno affrontati da vicino. Non è un catalogo completo; da queste pagine sono rimasti fuori altri

temi che in questi anni stanno mobilitando energie nella scuola e segnalano spinte evolutive non effimere: per esempio, la valutazione formativa, l’inclusione scolastica o il tema controverso della formazione universitaria degli insegnanti, il fantasma dei programmi scolastici

nella scuola dell’autonomia, il ruolo attivo di studenti e studentesse, e l’elenco potrebbe continuare. Speriamo di aver fornito elementi utili a rimettere a fuoco alcuni aspetti che sfuggono alla rappresentazione semplificata di un mondo complesso e vitale come la scuola e

ringraziamo autori e autrici per il loro contributo.

Cominciamo dal merito. Del concetto di merito in ambito scolastico si è tornati a discutere recentemente. Punto di innesco occasionale è stata la nuova denominazione del Ministero dell’istruzione, cui già da qualche anno, non sarà superfluo ricordarlo, manca l’aggettivo “pubblica”. L’iniziativa dell’attuale governo è stata accolta da reazioni che spesso si sono ricollegate alla matrice distopica del termine “meritocrazia” così come coniato da Young: misurato secondo criteri

stabiliti da chi è in posizione di vantaggio, contabilizzato soprattutto attraverso le credenziali educative, il merito è un argomento che si presta a giustificare la riproduzione dei rapporti sociali esistenti: chi invoca la “meritocrazia” spesso ignora le origini paradossali del termine. Le reazioni al Ministero del merito erano probabilmente nel conto; un uso comunicativo disinvolto della nomenclatura di ministeri e assessorati non è esclusivo del governo in carica, i precedenti sono

numerosi e ben distribuiti. Il contributo di Marco Olivetti va oltre l’occasione ed esplora invece il tema della rilevanza costituzionale del merito in ambito scolastico, soffermandosi in particolare sul terzo comma dell’articolo 34 della Carta («I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno

diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi») per ripercorrerne i presupposti e mostrare i limiti entro i quali è dato al legislatore definire le forme concrete in cui il principio deve

trovare attuazione.

Enrico Bottero riprende il tema dell’autonomia scolastica e dei suoi paradossi. Dagli anni Novanta del secolo scorso la struttura di governo periferico delle scuole è cambiata profondamente:

il principio dell’autonomia pedagogica e didattica, rimasto privo di supporto, ha segnato il passo, mentre sembra aver trovato più facile affermazione il mito della leadership manageriale e della concorrenzialità fra scuole. Se lo spirito dei tempi sembra aver incoraggiato un certo “consumismo scolastico” e indebolito l’istituzione, la scuola resta insostituibile nel compito di formare il cittadino democratico incoraggiando non la competizione, ma la cooperazione, e offrendo

spazi e strumenti per imparare a cooperare efficacemente.

Come ogni impresa collettiva, l’impegno di tanti nell’educazione e nell’istruzione ha anche bisogno di una sua agiografia, di coltivare modelli in cui riconoscersi: di esempi cui aderire o da cui prendere le distanze, da utilizzare per cercare (o per affermare) il proprio modo di vedere e di agire; cui guardare, auspicabilmente, anche con spirito critico. Dal canone pedagogico corrente ne abbiamo scelti due che, come si vedrà, sono trasversalmente legati ai sottotemi del numero.

Dell’opera di don Lorenzo Milani, spesso evocato con disinvoltura da posizioni contrapposte, Gian Luca Battilocchi ricorda l’appartenenza al contesto ampio della scoperta diffusa delle scienze sociali nell’Italia del dopoguerra. Già Esperienze pastorali (1958), l’unica monografia che ha Milani per autore, si collega a una tradizione di sociologia della religione che ha una sua rilevanza nella modernizzazione dei riferimenti culturali del clero e del laicato del Novecento.

Battilocchi rilegge Lettera a una professoressa, il testo collettivo firmato dalla Scuola di Barbiana nel 1967, anno della morte del Priore, sottolineandone le risonanze con la letteratura critica degli anni Sessanta su scuola e diseguaglianze sociali.

L’altra figura è Maria Montessori. L’educatrice italiana più nota nel mondo è ancora oggi uno dei poli più magnetici del movimento pedagogico globale. Seguire gli sviluppi del movimento montessoriano e la fortuna anche editoriale e mediatica delle sue idee permette ancora oggi di tracciare le linee evolutive di un appello al rinnovamento educativo che orienta le biografie professionali di educatori e insegnanti, lambisce stili e consumi educativi delle famiglie e, a certe

condizioni, incide anche sull’istituzione scolastica, come mostrano le esperienze e le sperimentazioni in corso richiamate da Perrone.

Uno dei lasciti di Montessori riguarda la fecondità euristica di uno sguardo esercitato alla prima infanzia come chiave per comprendere lo sviluppo di bambini, ragazzi e adulti. Questa intuizione si è rivelata in sintonia con una proiezione più ampia del movimento pedagogico contemporaneo: la capacità di ascolto e attenzione per la prima infanzia è condizione necessaria non solo per la conoscenza degli specialisti, ma anche per costruire un modello di società dotata di

istituzioni educative di qualità per tutti i suoi membri (educative, ma anche sociali, sanitarie, culturali), a cominciare dall’offrire il meglio di sé ai bambini e alle bambine. Guardando come sono progettati gli spazi pubblici per i più piccoli si dovrebbe poter capire come saranno

le scuole, le biblioteche e i musei, le carceri, gli ospedali e le piazze di una comunità plasmata da questo ideale di umanesimo educativo contemporaneo.

Che i nidi fossero e siano una frontiera decisiva del nostro crescere in questa direzione e che ci fosse un grave ritardo da colmare (in termini di risorse e in termini culturali) lo sapevamo già, o lo avevamo almeno sentito dire. Che i fondi del piano Next Generation EU si riveleranno un’occasione sprecata è ormai più che un sospetto.

Come siamo arrivati a questo punto? Le peculiarità del caso italiano, fra tradizioni pedagogiche locali di alta qualità e pesanti squilibri, fughe in avanti e resistenze radicate, sono analizzate dal contributo di Maura Tripi.

L’ultimo segmento tematico riguarda le scuole, i quartieri, i ragazzi “difficili”. La questione si presta particolarmente a rappresentazioni allarmistiche o esotiche e a risposte demagogiche e securitarie,

quando invece ci sarebbe un patrimonio di conoscenza, di analisi e di esperienze sul campo da interrogare, anche con uno sguardo lucido sui limiti di quanto si è fatto finora. Per questa sezione Chiara Biasin e Francesca Boscaini presentano l’esperienza delle “scuole della seconda opportunità”, nate per intercettare le traiettorie di abbandono precoce della scuola che, secondo i dati Istat del 2023, riguardano l’11,5% dei 18-24enni italiani. Davide Schirò ha seguito un percorso seminariale su Quartieri a rischio e scuole di frontiera che nello scorso autunno ha coinvolto a Palermo insegnanti, educatori, studenti universitari e attori del terzo settore. I partecipanti si sono interrogati sulle ragioni e sui costi di una retorica della frontiera che ha fatto da cornice all’impegno educativo di tanti ma, probabilmente, ha contribuito a cronicizzare un approccio emergenziale che ha tamponato l’assenza di politiche strutturali per la vivibilità di città e scuole. L’occasione è stata fornita dalla nuova edizione (Sellerio, 2023) di un bel libro di Carla Melazzini curato da Cesare Moreno, Insegnare al principe di Danimarca: ne proponiamo in chiusura la rilettura di Gaia Colombo.

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