Munera 2/2018 – Editoriale

Il rapporto tra identità e appartenenza è fondamentale nel quadro dell’esistenza e della convivenza umana. Se l’appartenenza costituisce uno dei presupposti fondamentali dell’identità – contribuisce a “produrre” identità – è vero anche l’opposto: l’identità struttura l’appartenenza attorno a un nucleo comune e generatore. Non si dà identità senza appartenenza, né appartenenza senza identità.

Tuttavia, il rapporto tra identità e appartenenza è oggi divenuto problematico: viviamo un tempo di identità fragili e di appartenenze esasperate. Le appartenenze sembrano spesso un illusorio sostegno esterno a carenze interne, una sorta di surrogato di una strutturazione interiore venuta meno. Ma, a cascata, sono fragili anche le identità collettive, a tutti i livelli: è difficile oggi dare risposte sicure, e magari condivise, a domande quali «chi sono io?», «chi siamo noi?».

In un simile contesto epocale, ogni apertura all’altro da sé – tanto più se “diverso” da sé – assume i tratti di una minaccia: aprirsi può significare dissolvere, perdere, smarrire definitivamente un’identità già fragile. In questo senso, l’appartenenza e la chiusura nella cerchia dei simili offrono rassicurazione e sostegno.

Si tratta di una dinamica osservabile in tanti ambiti e a tanti livelli della vita sociale. Ma che ne è, in particolare, delle appartenenze di genere? Laddove le identità personali faticano ad affermarsi e a strutturarsi, le appartenenze offrono normalmente confini rassicuranti. Il problema è che le appartenenze di genere sembrano oggi condividere il destino di tutte le appartenenze: pur essendo esasperate, non contribuiscono più a produrre identità, ma solo surrogati di identità.

Secondo alcune teorie, l’appartenenza di genere non starebbe a monte dell’identità – come uno dei suoi presupposti fondamentali – ma a valle: essa costituirebbe cioè l’esito di una scelta libera e consapevole da parte di identità che si sono costituite a monte degli schemi di genere. Né gli schemi di genere sarebbero riducibili all’alternativa maschile/femminile, essendo possibile una libera scelta tra molte varianti. In questo modo, per un verso, all’identità è accordato un primato sull’appartenenza (l’identità personale sceglie liberamente a quale genere appartenere), ma, per un altro verso, si presuppone un’identità già data e priva di presupposti (l’appartenenza di genere è dunque irrilevante per l’identità personale).

Si accorda dunque un’enfasi al polo dell’identità – intesa come centro propulsore della libertà – a scapito del polo dell’appartenenza, ma si tratta di un’identità che si regge su sé stessa, priva di presupposti e di debiti e gravata del peso di una scelta responsabile. E dunque, inevitabilmente, fragile.

Indipendentemente dalle teorie oggi in campo – le quali sono molte e molto varie – sembra innegabile un dato epocale: sono venuti meno i moduli culturali del maschile e del femminile. Tramontato il cosiddetto assetto patriarcale – che comportava una riconoscibilità non solo biologica del maschile e del femminile, ma anche una differenziazione sociale dei ruoli e delle simboliche costitutive di ciascun genere – fatica a emergere un paradigma alternativo. A cinquant’anni di distanza dalla rivoluzione culturale del ‘68, si fatica a vedere emergere una pars construens che porti a compimento la pars destruens allora avviata.

La giusta e auspicabile emancipazione femminile sembra essere avvenuta in gran parte attraverso una interiorizzazione degli schemi di potere che erano propri del modello patriarcale: non dunque attraverso un superamento di quegli schemi, ma attraverso una progressiva conquista femminile di forme di esercizio del potere che non sono mai state rimesse in veramente in questione.

Il risultato è che pochi individui oggi potrebbero riconoscersi a proprio agio negli stereotipi tradizionali del maschile e del femminile. Poche donne si riconoscerebbero nella figura tradizionale della madre e della moglie dedita esclusivamente agli affetti e alla cura delle relazioni familiari, allo stesso modo in cui pochi uomini si troverebbero a proprio agio nella figura del maschio comandante in capo e dedito esclusivamente alle vicende pubbliche. Anche perché le forme dell’organizzazione economica delle nostre società complesse e neo-liberiste rendono difficile che “l’uomo di casa” possa da solo assicurare il sostentamento economico della famiglia, e impongono che entrambi i partner lavorino. Probabilmente, in questo ambito, l’organizzazione economica ha un’incidenza culturale maggiore di quanto non abbia qualsiasi teoria.

Anche quando si tende a ritornare a schemi tradizionali, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a caricature, se non a vere e proprie forme di sopruso e di disperazione, per le quali il femminile viene incarnato nella figura della sottomissione, mentre il maschile prende le forme del maschilismo e del dominio, se non della vera e propria violenza di genere.

Rispetto a schemi tradizionali divenuti opprimenti e invivibili, si è così fatta strada la ricerca di vie alternative, dettate dalla necessità – per gli individui – di non dover sottostare a modelli vissuti come mortificanti. Di qui, il tema, ampio e complesso, del gender. Le appartenenze tradizionali e indisponibili – legate a elementi biologici non scelti – non sono più ritenute sufficienti a strutturare le identità e si ritiene che occorra dunque trovare nuove appartenenze, che lascino maggiore spazio di respiro e di libera e creativa interpretazione delle identità. Le forme tradizionali sono infatti avvertite come eccessivamente costringenti, al punto che per molti dei nostri contemporanei è divenuto difficile riconoscersi nelle alternative tradizionali maschile/femminile, eterosessualità/omosessualità…

Come reazione e in opposizione a siffatta tendenza epocale, si è spesso andati nella direzione di affermare l’indisponibilità degli elementi naturali e biologici rispetto a ogni possibile scelta del soggetto. Tradizionalmente il pensiero cattolico si è mosso in questa direzione: la categoria classica di legge naturale ha costituito il paradigma e l’emblema di tale gesto.

Si tratta di una strategia che tuttavia non sembra in grado di dare piena risposta agli interrogativi e alle angosce epocali che stanno alla base della ricerca di appartenenze che siano di sostegno alle identità.

È dunque possibile una soluzione alternativa? Una soluzione che non cada né nell’oppressione di un genere rivestito di moduli culturali oggi non più credibili (e avvertiti come invivibili), né nel disfacimento di ogni possibile appartenenza di genere che stia a monte delle identità?

Se una simile soluzione è possibile, ci pare si tratti di una soluzione che accetta la sfida lanciata da chi oggi difende la costruzione culturale anche delle evidenze biologiche, per riconoscere che alcuni moduli culturali potrebbero oggi rendere invivibili quelle evidenze. Invece di opporre le ragioni di una pura natura in sé all’arbitrio della libera scelta, si tratta di rivisitare la lettura culturale degli elementi naturali, al fine di renderli maggiormente vivibili e umanizzanti, ossia maggiormente capaci di contribuire a strutturare identità mature e compiute.

Tale rivisitazione culturale sarebbe tuttavia inefficace se si limitasse a un ripensamento intellettuale di alcune nozioni: ovvero all’opera di alcuni pensatori isolati. Nell’essere umano non esiste un momento di pura natura, dato che ogni elemento naturale è sempre culturalmente istituito. D’altro canto, la cultura non è mai semplicemente il frutto dell’opera degli intellettuali, ma è sempre un’opera comune, che investe intere generazioni.

La rivisitazione culturale di cui parliamo dovrebbe dunque minare gli aspetti dogmatici che alcune sovrastrutture culturali hanno assunto, al fine di consentire l’esercizio di una più libera appropriazione culturale degli elementi naturali senza creare nuove gabbie ideologiche.

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