In queste pagine vorrei sostenere due tesi, tra loro collegate. La prima è che l’amore è un equilibrio, difficile e sempre da ricercare, tra contatto e ritiro, tra farsi prossimo e lasciar essere: tra prossimità e distacco. La seconda è che l’amore di sé è una delle condizioni fondamentali di questo difficile equilibrio.
Il mio sarà un discorso al confine tra ambito morale, spirituale e psicologico. In fondo, si tratta di una distinzione di piani utile per fare scienza, ma astratta e in buona parte inadeguata rispetto alla complessità della nostra umanità. Prova ne è il fatto che non esiste “patologia” morale o spirituale che non abbia anche un impatto psicologico (e questo sebbene, evidentemente, non ogni patologia psicologica abbia origine morale o spirituale). Generosità e, all’opposto, avarizia costituiscono un buon esempio di un rapporto “morale” con gli altri che assume la figura di un rapporto “spirituale” con la vita e la realtà: una persona generosa è in generale più intelligente di una persona avara, nel senso che ha una comprensione più profonda della realtà, alla quale dedica una più profonda attenzione. Tale rapporto morale (e spirituale) ha un impatto anche “psicologico”: una persona generosa è, in generale, psicologicamente più sana e più stabile di una persona avida o avara.
Articolerò il mio discorso come segue: dapprima proporrò alcune riflessioni su come l’amore – al pari di ogni bene – ci renda al contempo grandi e fragili (§1), e come esso sia soggetto a pervertimento e richieda dunque equilibrio (§2). Quindi mi concentrerò sull’amore di sé: su cosa esso non sia e su cosa esso invece sia (§3).