Munera 3/2024 – Editoriale

Meritocrazia fa sempre rima con democrazia? Secondo alcuni, certamente sì: soltanto riconoscendo e valorizzando il merito, e dunque le competenze personali dei singoli, le istituzioni democratiche possono realmente funzionare senza ridursi a una parola vuota. Secondo altri, certamente no: premiare il merito senza garantire a tutti pari opportunità e uguali condizioni di partenza equivale a decidere che vinceranno sempre i più fortunati, coloro che hanno più mezzi, lasciando a chi perde di poter soltanto imputare a sé stesso i proprî fallimenti.
Negli ultimi anni il dibattito tra i sostenitori delle due posizioni si è fatto acceso, ma si è anche incancrenito ideologicamente, e richiede dunque attenzione e riflessione. Questo è di fatto l’intento del presente numero di Munera.
In realtà, il tema del merito è antico e le sue radici sono teologiche: la pretesa umana di accampare meriti agli occhi di Dio è stata al centro di innumerevoli controversie nella storia del cristianesimo. Le riprese recenti del tema poco hanno a che fare con quelle radici teologiche, ma una domanda hanno in comune con esse: quanto c’è effettivamente di merito nel merito? In altri termini: quanto è davvero meritato il merito? E quanto invece esso è frutto di qualcosa che si è ricevuto gratuitamente e immeritatamente?
Affidare gli uffici pubblici a chi lo merita e ne ha le capacità è fondamentale nel governo della cosa pubblica: troppi sono gli esempi di cariche pubbliche e ruoli di responsabilità assegnati indipendentemente da una valutazione delle competenze. Su questo c’è ancora molto da fare, soprattutto laddove tendono invece a prevalere logiche familistiche, di vassallaggio e di appartenenza. Al contempo, mettere ciascuno nelle condizioni di sviluppare e di far fiorire quanto ha immeritatamente ricevuto, assicurando il più possibile pari condizioni a tutti, è una sfida del tutto aperta e sempre più urgente. Soprattutto in un tempo in cui le disuguaglianze sociali aumentano e la classe media tende ad assottigliarsi sempre di più, fino al punto di sparire quasi del tutto.
L’enfasi sul merito e sul successo personale tende oggi a isolare le persone, togliendo loro quel po’ di coscienza di classe che in altre epoche storiche ha dato avvio e permesso cambiamenti sociali positivi. Se coloro che erano giovani nel 1968 hanno, pur con tutti i loro limiti, avvertito che i problemi che vivevano erano problemi comuni a tutti, è molto più difficile che una coscienza simile maturi tra le giovani generazioni di oggi, alle prese con una cultura e una società ipercompetitive, nelle quali le possibilità di successo dell’uno sono inversamente proporzionali al fallimento dell’altro: mors tua vita mea. Se formalmente tutte le possibilità sono dichiarate aperte per tutti, è chiaro che il fallimento sarà colpa esclusiva del singolo che non ha saputo coglierle e non di un sistema che di per sé stesso produce esclusione e scarti (anche umani). Occorre finalmente che quelle possibilità siano realmente aperte per ciascuno: un’utopia che vale la pena di continuare a inseguire.
Ecco dunque perché è oggi urgente interrogarsi sul merito e sulle sue condizioni: perché le competenze e le abilità siano riconosciute a tutti, ma siano anche sostenute per tutti. Perché l’enfasi sul merito non diventi un ulteriore strumento di disuguaglianza, di ingiustizia e di sfruttamento.

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