Quello che, con assonanza cartesiana, potremmo chiamare il “discorso sul merito” tende a manifestare, ora anche più che in passato, un’ambigua commistione di due piani distinti.
C’è innanzi tutto il livello nel quale esso trova la sua sede più naturale, ossia in specifici contesti di valutazione funzionale: la scuola, l’università, la pubblica amministrazione, l’impresa, le professioni ecc. In questi ambiti delimitati l’argomento tende a suscitare un diffuso consenso, salvo poi dover prendere atto della distanza abissale tra gli auspici di una “sana” competizione nella quale possano affermarsi i migliori e la triste realtà di favoritismi, clientelismi, nepotismi ecc.: tutti gli -ismi che segnalano l’annullamento della parità di partenza tra i “concorrenti” a una posizione.
A fronte dell’inquadramento settoriale, il tema del merito, specie nella comunicazione politica e mediatica corrente, si presenta in una dimensione più larga e pervasiva, quasi circonfuso di un’aura sacrale, che pervade ogni campo della vita e investe retoricamente, nelle intenzioni di chi se ne fa portavoce e paladino, i criteri generali su cui basare la selezione delle persone per compiti e incarichi pubblici e privati e già, alla radice di questi, la valutazione scolastica.